Questo è il mio corpo (terza parte)

«Questo è il mio corpo» (Segue) (SEMI n. 236, maggio 2021, Amare l’amore)

Quanto scritto precedentemente sottolinea qualche pratica eucaristica deviante, che testimonia una comprensione molto insufficiente di quello che avviene sull’altare.

 

Il “diritto” alla comunione eucaristica

Una linea di frattura particolarmente netta separa nelle comunità cristiane i favorevoli e i contrari ad ammettere alla comunione eucaristica persone in situazioni coniugali “irregolari”: coloro che convivono senza essere sposati, i divorziati civilmente risposati, etc. Che questo genere di questione sia così messo ai voti può già sorprendere; comunque, contentiamoci qui di porre bene la questione. Che sia o no in situazione cristiana “regolare, non conferisce alcun diritto alla comunione, più di quanto non si abbia quello di essere amico di qualcuno così come non esiste alcun diritto di essere amico di qualcuno e ancor meno di divenire suo sposo o sua sposa. Se il desiderio di Cristo è di vivere con il suo discepolo una unione di tipo sponsale, fino alla condivisione dei corpi, allora si applica all’eucarestia quello che abbiamo detto a proposito dell’unione fisica degli sposi che suppone anzitutto una volontà di mutuo dono totale tra i due partners. Anche prima di parlare, con san Paolo, di una convenienza particolare tra l’unione degli sposi e l’unione di Cristo con la Chiesa, che fonda il matrimonio come sacramento per i cristiani, questa esigenza di dono totale tra Cristo e il suo discepolo esclude dalla mensa eucaristica colui che vive fuori dal Vangelo e le situazioni coniugali irregolari non sono che un caso tra gli altri, peraltro troppo spesso passati sotto silenzio.

Questo ci permette di riorientare il modo con cui chi si vuole comunicare, deve accostarsi alla mensa eucaristica: occorre cioè che vi si presenti come invitato, non come avente diritto, con l’intenzione di vivere incondizionatamente tutto quello che Cristo vuole vivere in noi. In mancanza di questa intenzione, la consumazione del corpo di Cristo sarà privata del suo significato profondo e ridurrà il gesto del comunicarsi a quello di uno sposo o una sposa che intendono unirsi fisicamente solo per il piacere che vi trovano. Senza dubbio bisogna qui invertire la percezione che abbiamo troppo frequentemente dei sacramenti, considerandoli in rapporto a noi e al profitto che ne aspettiamo, piuttosto che in relazione a Cristo e alla sua volontà di vivere in noi il mistero della sua incarnazione:

Dobbiamo andare alla santa comunione, anzitutto perché Gesù Cristo sia in noi tutto quello che deve esservi, e noi stessi cessiamo di essere quello che siamo. […] I doni e le grazie stesse che è piaciuto a Nostro Signore di farci, devono portarci ad accostarci all’eucarestia, affinché non ce ne appropriamo e non ne facciamo l’uso che il nostro amor proprio vorrebbe farne; ma perché Lui ne prenda il dominio assoluto e li usi secondo il suo beneplacito. […]

Noi dobbiamo ancora andarci per obbedienza alla Sua volontà di averci membra, nelle quali possa vivere per suo Padre, e tramite cui continua la sua vita divina sulla terra; […] infatti, la comunione non ci dona solo Gesù Cristo, ma in più ci dona a Gesù Cristo, poiché dice lui stesso che colui che lo riceve, rimane in lui.

Charles de Condren (1588-1641), ed. Pin, Lettera LXXVI

 

Il modo di comunicarsi

Le norme liturgiche relative al modo di comunicarsi sono precise e ricche di significato. Il Messale Romano, regolando i riti della messa per tutta la Chiesa di tradizione latina, richiede che la comunione abbia luogo nel punto di incontro tra due processioni, quella del celebrante e degli altri ministri che arrivano dal coro e quella dei fedeli che arrivano dalla navata. Questo incontro, spesso, messo in risalto dalla mensa eucaristica nell’architettura delle nostre chiese, è quello della Chiesa celeste e della Chiesa terrena, che sposa il doppio movimento dell’incarnazione e sottolinea che comunicarsi è proprio di due persone che si donano l’una all’altra, «perché la comunione non ci dona solo Gesù Cristo, ma ci dona a Gesù Cristo», ci ha detto Charles de Condren. Un altro dato liturgico significativo è che il comunicante e Gesù Cristo si ricevono l’un l’altro, come due sposi: «Quando mangiamo Dio, siamo mangiati da Lui», diceva s. Bernardo (Sermone 71 sul Cantico). Per questo, il comunicante non prende l’ostia, ma la riceve sulla lingua o sulla mano. Ciò esclude altresì il gesto di molti fedeli che prendono l’ostia invece di riceverla o il gesto di servirsi da se stessi, dalla patena o quello di darla al proprio vicino: è Cristo che si dona a me, contemporaneamente nella persona del ministro e nel suo corpo che ricevo. Poiché è Cristo che si dona a me, si comprende anche che il ruolo del ministro è molto più che “distribuire” la comunione: egli rende presente il Cristo stesso in questo atto di donarsi. Di fatto, il sacerdozio facendo di colui che l’ha ricevuto un alter Christus, è insostituibile nel gesto della comunione, salvo a cadere nell’errore di sostituire l’incontro di due persone con la consumazione di qualcosa. Che il prete sia insostituibile non vuol dire che non possa farsi aiutare, ma tutta la disciplina della Chiesa in materia dimostra – per esempio di fronte a un grandissimo numero di comunicanti – che è molto attenta a non privare il gesto del donare il corpo di Cristo della sua origine sacerdotale.

Queste puntualizzazioni ci permettono di evitare le false domande che si pongono quando si “materializza” la presenza di Cristo nell’eucarestia. Così, per esempio, colui che fa l’adorazione del Santissimo Sacramento si preoccupa solo raramente che l’ostia sia visibile o invisibile, a un metro, dieci o cento; ed è così che la scomparsa materiale delle specie eucaristiche, una volta consumate, non ha molta importanza: sono state lì per permettere la piena comunione tra Cristo e il suo discepolo.

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Luglio, 2024