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Mons. A. Raspanti. Omelia della solennità del “Corpus Domini” 2012

Mia gioia è essere tra i figli degli uomini” (Pr 8, 31).

Gesù non si è accontentato di morire in terra per amore nostro, ma è voluto rimanere con noi nel santissimo Sacramento anche dopo la morte, dichiarando che tra gli uomini è tutta la sua gioia … Ringraziandolo di ciò, attendiamo al colloquio con Cristo.”

Ispirati da queste parole di sant’Alfonso de’ Liguori, che ci assicurano della permanente prossimità di Gesù nell’Eucaristia, immergiamoci nella divina Parola che oggi è inviata a noi.

Col libro dell’Esodo riandiamo al solenne patto stabilito tra Dio e Israele, che prefigura il patto di grazia tra Dio e i credenti mediante Cristo. Non appena Dio scelse un popolo e lo mise da parte tra le nazioni, lo governò con una parola scritta. I decreti e i comandamenti di Dio, giusti in se stessi, contengono il nostro bene e più li meditiamo e li eseguiamo, più chiaramente essi ci aprono il frutto della vita. Dal Decalogo deriva un impegno che riguarda non solo ciò che concerne la fedeltà all’unico vero Dio, ma anche le relazioni sociali all’interno del popolo dell’Alleanza. Il dono della liberazione e della terra promessa, l’Alleanza del Sinai e il Decalogo sono dunque intimamente connessi a una prassi che deve regolare, nella giustizia e nella solidarietà, lo sviluppo della società israelitica.

Il sangue del sacrificio fu spruzzato sull’altare, sul libro e sul popolo. Sant’Agostino spiega che l’altare eretto con dodici pietre simboleggiava che il popolo stesso, composto di dodici tribù, era l’altare di Dio, il luogo in cui Dio abitava. Gli Israeliti stessi, la loro ubbidienza morale e i loro culti religiosi incontrarono il favore presso il Dio santo in forza del versamento e dell’aspersione del sangue, cioè in forza della vita che viene da lui. Sappiamo, infatti, che il sangue era ritenuto sacro perché depositario della vita, che non è in potere dell’uomo, ma di Dio. Tutte le benedizioni che il Signore elargisce sono fatte per sua bontà ed egli si occupa di tutti i credenti con grande amore. E ancor di più, quasi penetrando nell’intimo del popolo, Dio rende accetto il suo culto e la sua osservanza della legge in quest’aspersione vitale. Eppure eravamo ancora nella prefigurazione della realtà, perché è sangue di animali offerto da sacerdoti umani e bisognosi anch’essi di purificazione. Nel nuovo patto il peccatore, per mezzo della fede nel sangue di Cristo, si rende ubbidiente e accettevole a Dio.

La lettera agli Ebrei, in cui è approfondito il senso del sacerdozio di Cristo, lapidariamente afferma che dopo il lungo succedersi di sacerdoti imperfetti, che offrono in un santuario terreno dei sacrifici senza reale efficacia, ecco apparire finalmente sulla scena della storia il vero sommo sacerdote. Dalle ombre si passa alla realtà. Cristo è detto sommo sacerdote dei beni futuri, perché per il suo ministero sono assicurati ai credenti quei beni che nell’antico patto erano solamente prefigurati: il completo perdono dei peccati, l’adozione del peccatore a figlio di Dio, il rinnovamento del cuore, l’intima comunione con Dio, l’entrata nel riposo finale. Come il sommo sacerdote levitico, nel giorno delle Espiazioni, attraversava il luogo santo per entrare nel luogo santissimo, così il gran Sacerdote definitivo, dopo aver versato il proprio sangue, ha attraversato un tabernacolo maggiore e più perfetto di quello fatto d’assi e di tappeti, per comparire alla presenza immediata di Dio.

Il sommo sacerdote antico non poteva penetrare nel santuario senza il sangue delle vittime espiatorie. Anche il Cristo entra nel santuario celeste con del sangue, ma non di vittime animali, bensì con il proprio sangue, offerto non per l’espiazione dei propri peccati, ma per quelli del popolo. Ed è tale il valore dell’espiazione offerta che Cristo non ha da ripeterla ogni anno, come il sacerdote levitico. La ripetizione dei sacrifici figurativi era un attestato della loro inefficacia.

Poiché il sacrificio di Cristo è di un valore infinito e di un’efficacia definitiva, tale da purificare la coscienza, introduce e inaugura un patto diverso dall’antico, il patto annunziato dai profeti, in grazia del quale i beni supremi potranno finalmente esser posseduti dal popolo di Dio e scolpiti nel suo cuore. L’antico patto prometteva al popolo la vita, il favore di Dio nella terra promessa, sotto la condizione dell’ubbidienza completa alla legge. Con la morte di Cristo, il cumulo delle passate trasgressioni del popolo, preso collettivamente, è stato cancellato da un’espiazione adeguata. L’eredità eterna sta nei nuovi cieli e nella nuova terra, dove abita la giustizia e dove il popolo dei «chiamati», tanto Giudei quanto Gentili che hanno accettato l’invito divino, entra nel «riposo di Dio».

Interpretando allegoricamente il passo di Marco poc’anzi letto, San Girolamo identifica la città, dove si recano gli apostoli per preparare la Pasqua, con la Chiesa cinta con il muro della fede, e l’anfora dell’acqua recata da un uomo con la lettera della legge data agli Ebrei: seguire quell’uomo è pervenire al vero cibo, che è Cristo. A me sembra che la nostra assemblea sia quella sala di duemila anni fa, dove siamo introdotti al pane degli angeli, Cristo Signore. Per questo facciamo ancora nostre le parole di Alfonso de’ Liguori: «Eccomi, dunque, Signore, mio Dio, davanti all’altare su cui tu rimani giorno e notte per noi, sorgente di ogni bene, rimedio di ogni male, tesoro di ogni povero: il più povero e più infermo fra i peccatori ti chiede pietà. Quando ti considero disceso dal cielo in terra per il nostro bene, la mia miseria non mi fa più paura. Allora ti lodo, ti ringrazio, ti amo».

Le espressioni intime e individuali usate dal Santo vescovo settecentesco, non ci traggano in inganno: non indicano che l’Eucaristia rimanga nel chiuso intimistico del singolo. Lo ricordava lo scorso anno il Santo Padre Benedetto XVI: «Mentre nella sera del Giovedì Santo si rivive il mistero di Cristo che si offre a noi nel pane spezzato e nel vino versato, […] nella ricorrenza del Corpus Domini, questo stesso mistero è proposto all’adorazione e alla meditazione del Popolo di Dio, e il Santissimo Sacramento è portato in processione per le vie delle città e dei villaggi, per manifestare che Cristo risorto cammina in mezzo a noi e ci guida verso il Regno dei cieli. Quello che Gesù ci ha donato nell’intimità del Cenacolo, oggi lo manifestiamo apertamente, perché l’amore di Cristo non è riservato ad alcuni, ma è destinato a tutti». Già attraverso il carattere pubblico e civile delle processioni, la Chiesa manifesta che «la trasformazione dei doni di questa terra – il pane e il vino – [è] finalizzata a trasformare la nostra vita e a inaugurare così la trasformazione del mondo».

L’Eucaristia è un sacrificio di comunione che l’intero popolo vive: la dinamica anche sociale dell’Eucarestia inizia «dal cuore di Cristo, che nell’Ultima Cena, alla vigilia della sua passione, ha ringraziato e lodato Dio e, così facendo, con la potenza del suo amore, ha trasformato il senso della morte alla quale andava incontro». Non si tratta solo di un’esperienza spirituale individuale. «Dal cuore di Cristo, dalla sua “preghiera eucaristica” alla vigilia della passione, scaturisce quel dinamismo che trasforma la realtà nelle sue dimensioni cosmica, umana e storica. Tutto procede da Dio, dall’onnipotenza del suo Amore Uno e Trino, incarnato in Gesù. In questo Amore è immerso il cuore di Cristo; perciò Egli sa ringraziare e lodare Dio anche di fronte al tradimento e alla violenza, e in questo modo cambia le cose, le persone e il mondo».

«La parola “comunione”, che usiamo anche per designare l’Eucaristia, riassume in sé la dimensione verticale e quella orizzontale del dono di Cristo. È bella e molto eloquente l’espressione “ricevere la comunione” riferita all’atto di mangiare il Pane eucaristico. In effetti, quando compiamo questo atto, noi entriamo in comunione con la vita stessa di Gesù, nel dinamismo di questa vita che si dona a noi e per noi. Da Dio, attraverso Gesù, fino a noi: un’unica comunione si trasmette nella santa Eucaristia».

«Poiché Cristo nella comunione eucaristica ci trasforma in Sé, la nostra individualità è liberata dal suo egocentrismo e inserita nella Persona di Gesù, che a sua volta è immersa nella comunione trinitaria». La trasformazione interiore della persona umana è perciò il presupposto essenziale di un reale rinnovamento delle sue relazioni con le altre persone: «Occorre far leva sulle capacità spirituali e morali della persona e su questa trasformazione interiore per ottenere cambiamenti sociali che siano realmente a suo servizio». Non è possibile vivere il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, compendio di tutta la legge, senza la determinazione ferma e costante di impegnarsi per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti. Anche la relazione con l’universo creato e con le diverse attività che l’uomo dedica alla sua cura e trasformazione, quotidianamente minacciate dalla superbia e dall’amore disordinato di sé, sono purificate e portate alla perfezione dalla comunione con la croce e dalla risurrezione di Cristo, che riceviamo nell’Eucaristia.

Chi ha compreso davvero che cos’è l’Eucaristia, non può non cambiare anche i suoi comportamenti sociali.

Il Santo Padre, ritornando all’atto di Gesù nell’Ultima Cena, spiega che «Egli accetta per amore tutta la passione, con il suo travaglio e la sua violenza, fino alla morte di croce; e accettandola in questo modo la trasforma in un atto di donazione».

«Questa è la trasformazione di cui il mondo ha più bisogno, perché lo redime dall’interno e lo apre alle dimensioni del Regno dei cieli». Anche noi siamo chiamati a seguire quest’unica via di trasformazione, senza scorciatoie o utopie. Tutto passa attraverso la logica umile e paziente del chicco di grano che muore per dare vita, la logica della fede che sposta le montagne con la forza mite di Dio. La debolezza e le paure che la crisi sociale ed economica ci mette dentro vorrei depositarla con voi su questo altare e lasciarle trasformare dalla forza eucaristica. Nella nostra debolezza risplenda la Sua forza. Ho fede, con tutti voi, nel Cristo che ci coinvolge nella sua opera di redenzione, rendendoci capaci di vivere secondo la sua stessa logica di donazione, come chicchi di grano uniti a Lui ed in Lui. Così si seminano e maturano nei solchi della nostra città l’unità e la fraternità, che sono il fine a cui tendiamo, secondo il disegno di Dio.

Con l’Imitazione di Cristo ripetiamo: «Tue sono le cose, o Signore, quelle del cielo e quelle della terra: a te vogliamo, liberamente, offrire noi stessi e restare tuoi per sempre».

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