«Lei non cessa di ripetere che la preghiera è grazia. Se la grazia è veramente preveniente, a che serve andare al catechismo, o invitare la gente a pregare? E in ogni caso, come e perché cominciare se la grazia non c’è?».
Se la grazia non c’è, non vale la pena di provare a cominciare! Infatti la preghiera è sovrannaturale, altrimenti non è: “Non sappiamo come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito intercede per noi…” (Rm 8, 26). Ma in realtà, voi non porreste la domanda se la grazia non fosse già presente. In effetti, “tu non mi cercheresti, se io non ti avessi già trovato”, sant’ Agostino fa dire a Dio. Nessuno avrebbe l’idea di rivolgersi a questo Dio che in ogni modo è invisibile, non percepibile con i sensi, etc., altrimenti non sarebbe più Dio; dunque, bisogna che si riveli lui stesso, che lui stesso venga a noi. I teologi parlano qui di grazia “preveniente”.
La domanda è posta perché la nostra moderna mentalità laica dimentica che l’uomo senza Dio non esiste, che ogni uomo è naturalmente religioso: il più ateo degli atei difenderà in modo appassionato il suo ateismo, segno che non lo è tanto quanto sembra. In breve, se la grazia di Dio è preveniente, non significa che sia meno universale, perché “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4). Questo perché, come minimo, “per coloro, che senza loro colpa, non sono ancora pervenuti a una manifesta conoscenza di Dio, la Divina Provvidenza non rifiuta gli aiuti necessari per la loro salvezza” (Vaticano II, Lumen Gentium, n. 16). Il primo di questi aiuti è, giustamente, quello di farci porre la domanda su Dio e sulla preghiera. In effetti, Dio non ci crea prima, per amarci eventualmente dopo; ma prima ci ama e dopo ci crea, e non avrebbe avuto l’idea di crearci, senza donarci nello stesso tempo i mezzi per conoscerlo e amarlo. Così dandoci la vita, cerchiamo spontaneamente, alla cieca, colui che ci ha creato, poiché imprime il suo amore nel nostro cuore, creandoci.
Il primo passo in questa ricerca sarà dunque quello di prendere coscienza di questa iniziativa divina: “chi si avvicina a Dio, infatti, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano” (Eb 11, 6). Il secondo passo sarà di rivolgerci deliberatamente verso di lui, e allora entriamo nella preghiera propriamente detta: “Insegnami, Signore, a cercarti, e mostrati a colui che ti cerca, perché io non posso cercanti se tu non me lo insegni, né trovarti se tu non ti mostri!” (S. Anselmo, Proslogion). Da ciò il catechismo, e più in generale la formazione cristiana, prende tutta la sua importanza, perché ci dona la coerenza intellettuale e, nello stesso tempo, le parole e la grammatica di questo dialogo con Dio che è il tutto della vita cristiana. E nel cuore del catechismo c’è il mistero della grazia, la quale ci insegna che Dio solo è il cammino verso Dio, e che se «lo Spirito Santo stesso intercede per noi», tutta la preghiera consiste nel domandare lo Spirito Santo, tramite lo Spirito Santo, nello Spirito Santo: «Se voi dunque che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono» (Lc 11,13). Così la preghiera è il motore della vita cristiana, facendola passare a poco a poco da un regime animale di un’esistenza votata alla morte, a quella di una “vita nello Spirito”, che ci trasforma progressivamente in Gesù stesso: “In effetti, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio», animando la nostra preghiera: «lo Spirito stesso insieme al nostro spirito attesta che siamo figli di Dio” (Rom 8,14-16).
Si vede, dunque, che non c’è opposizione tra la grazia di Dio e la nostra libertà, come se le due si escludono, secondo la caricatura di Calvino, che modella purtroppo la nostra concezione moderna di vita spirituale:
Noi chiamiamo Predestinazione il consiglio eterno di Dio tramite cui ha determinato quello che voleva fare di ciascun uomo. Infatti, non li crea tutti nella stessa situazione, ma ordina alcuni alla vita eterna, altri alla dannazione eterna (Sull’istituzione cristiana).
Al contrario, grazia e libertà si armonizzano nel nostro amore per Dio che risponde al suo amore per noi. Da parte di Dio:
La grazia è così amabile e prende così gentilmente i nostri cuori per attirarli, che essa non guasta per nulla la libertà della nostra volontà; essa tocca potentemente, eppure così delicatamente le molle del nostro spirito, che il nostro libero arbitrio non subisce nessuna forzatura.
S. François di Sales (1567-1622) Trattato dell’Amor di Dio, II, 12
E da parte nostra: “dopo la grazia, tutto nella vita spirituale dipende dalla fedeltà alla grazia” (Charles Gay). Da qui la conclusione: “Lo Spirito Santo, da parte sua, fa tutto ciò che necessita per darci le sue grazie; noi, da parte nostra, facciamo quanto potremo per riceverle” (Pierre de Bérulle).
Un’ultima osservazione sulla vostra domanda: si deve “incitare la gente a pregare”? Nessuno parte mai da zero nella preghiera, e abbiamo appena visto il perché. Da un punto di vista pastorale, ciò è molto importante. La grazia fa tutto: né il Vangelo né la Chiesa portano a Cristo; essi non fanno che rivelarlo già presente. Così si può rispondere a delle domande sulla preghiera, ma appartiene a Dio solo di farla nascere: “Nessuno può venire a me se non l’attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). A che serve “incitare la gente a pregare? ” Al limite, a niente:
Nostro Signore non ammaestrò tutto l’universo, nemmeno tutti gli ebrei, né tutti gli abitanti di Nazareth; almeno, nel Vangelo è detto che vi predicò solo una volta … Questo esempio ci dia insegnamento e consolazione, e ci liberi decisamente dalle preoccupazioni con cui potremmo ingombrarci sotto il pretesto dello zelo, che ci farebbero ingannare, portandoci fuori dai confini della volontà di Dio!
Jean Rigoleuc (1596-1658), Pii sentimenti, § XVII
«Ho l’abitudine di pregare per i defunti. Ma mi domando perché. È efficace? Quelli della mia famiglia che nomino nella mia preghiera, usciranno prima degli altri dal purgatorio?».
Innanzitutto, il limite tra vivi e defunti è molto sottile quando si parla di cristiani: a tal riguardo, S. Paolo non parla mai di “morti”, ma “di coloro che dormono nel Signore” (per esempio 1Tess 4, 14; 1Cor 15), perché «colui che ascolta la mia parola, ci dice Gesù, è passato dalla morte alla vita» (Gv 5, 24). Così dobbiamo chiederci in cosa la nostra carità aiuti, non solamente, le anime del purgatorio, ma anche tutti i fratelli in cammino con noi verso la Gerusalemme celeste.
In effetti, creandoci a sua immagine, Dio ci ha creati liberi, e quindi responsabili del nostro destino, ma ugualmente di quello dei nostri fratelli: ”Non siamo nati per essere ciascuno da solo per sé, ma ciascuno per tutti, in quanto partecipiamo tutti della stessa natura e abbiamo la medesima origine e lo stesso destino” (Gregorio di Nazianzo).
Senza questa responsabilità, l’amore fraterno sarebbe solo un pio consiglio, ma non saremmo realmente capaci d’amare come Dio stesso.
Ora, la sommità del suo amore consiste nel rendercene capaci per poterci dire: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15, 12). Questo comandamento ci conferisce un’importanza in qualche modo uguale a quella di Gesù nella salvezza dei fratelli: «Come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti». (Rm.5, 19). Questo non riguarda soltanto Adamo e Gesù, ma ogni uomo che viene in questo mondo. Per questo
Quando tu compi un atto buono o malvagio, ricorda che ci sono anime innumerevoli, anime di viventi e anime di presunti morti, che corrispondono misteriosamente alla tua – anime di schiavi o di imperatori che hanno potuto animare dei corpi cinque mila anni fa, o che li animano oggi –, le quali hanno un bisogno infinito di te. Se dunque il tuo atto è malvagio, questa moltitudine è respinta, se il tuo atto è buono, la conduci come per mano.
Léon Bloy (1846-1917), Diario, maggio 1903
Comprendiamo bene, dunque, quale potere spirituale abbiamo sui nostri fratelli. Ma Gesù non è l’unico salvatore? Si, certamente, ma una cosa è essere salvato, altra cosa è saperlo e approfittarne. Certo, a ogni uomo Dio dona, come minimo, la piccola luce della propria coscienza che proviene già dalla grande luce di Gesù, e che gli permette di intravederlo nelle sue tenebre e di cominciare a seguirlo; ma il cammino tramite cui viene a noi con la luce del Vangelo, è quello dei santi, cioè quello di coloro che fornendogli la propria umanità, gli permettono di continuare la sua incarnazione nel tempo e nello spazio: “Non ci salviamo da soli. Nessuno ritorna alla casa del Padre da solo. Uno dà la mano all’altro. Il peccatore tiene la mano del santo ed il santo tiene la mano di Gesù” (Charles Péguy).
Su questo cammino,
La nostra libertà è solidale con l’equilibrio del mondo… Ogni uomo che compie un atto libero, proietta la sua personalità nell’infinito. Se dona, controvoglia, un soldo a un povero, questo soldo trapassa la mano del povero, cade, fora la terra, buca i soli, attraversa il firmamento e compromette l’universo. Se compie un atto impuro, oscura forse migliaia di cuori che non conosce, cioè di quelli che gli corrispondono misteriosamente e che hanno bisogno che quest’uomo sia puro, come un viaggiatore che muore di sete ha bisogno del bicchiere d’acqua del Vangelo. Un atto caritatevole, un movimento di vera pietà canta per lui le lodi divine, da Adamo fino alla fine dei secoli; guarisce i malati, consola i disperati, placa le tempeste, riscatta i prigionieri, converte gli infedeli, protegge il genere umano.
Léon Bloy, Meditazione all’Ufficio notturno presso i Certosini
Gesù ci ha salvato “una volta per tutte” (Eb 10, 10), ma la diffusione della salvezza è misurata da questa catena di santità: “il santo è un buon conduttore di Dio” (Marie-Noël), e in questo senso c’è un rapporto diretto tra la santità disponibile in un certo tempo e in un determinato luogo e l’avanzare del Regno di Dio, o se si preferisce, la crescita della Chiesa:
La Chiesa è, forse, altra cosa rispetto all’assemblea di tutti i santi? Dall’inizio del mondo, i patriarchi, i profeti, gli apostoli, i martiri, tutti gli altri santi, che sono stati, sono e saranno, non formano che una sola Chiesa: santificati nell’unità di una stessa fede e di una stessa vita, segnati da uno stesso Spirito, sono divenuti un solo corpo di cui Cristo è il capo.
Niceta di Remesiana (circa 350), Spiegazioni sul Simbolo, 10
Viceversa,
Se c’è una comunione dei santi, c’è anche una comunione dei peccatori. Nell’odio i peccatori si avvinano l’uno all’altro, nel disprezzo si uniscono, si abbracciano, si aggregano, si confondono, non saranno più un giorno, agli occhi dell’Eterno, che quel lago di melma sempre vischioso su cui scorre il flusso e riflusso dell’immensa marea dell’amore divino.
Georges Bernanos (1888-1948), Diario di un curato di campagna
Si vede, dunque, che la preghiera per i defunti non è che un caso particolare di “reversibilità di meriti” o ancora delle “indulgenze” che i santi meritano per i loro fratelli: meritare non è aggiungere ai meriti di Cristo, ma diffonderli nel riceverli, lasciando che s’ incarnino in noi. Se occorre una riserva di acqua per innaffiare il giardino, occorrono anche delle canalizzazioni, e nel giardino della Chiesa, sono proprio i santi che assolvono a questo ruolo. La loro preghiera, nostra preghiera, è il momento più decisivo di questa propagazione, in quanto la preghiera consiste totalmente nella conformità della nostra volontà con quella di Dio, momento questo in cui raggiungiamo il massimo, per noi, di santità, “per la gloria di Dio e la salvezza del mondo”.
«Perché alcuni sono “programmati” per essere contemplativi e altri no? In che misura una persona vicina (coniuge, parente, sacerdote…) può aiutarci a passare nella categoria dei contemplativi, se siamo “programmati non contemplativi”»?
Nuovamente, questa domanda pone quella sulla vocazione contemplativa. In effetti, si tratta proprio di una “vocazione” e non di una “programmazione” perché la contemplazione o è sovrannaturale o non è:
Questo modo [contemplativo] di pensare a Dio non è in potere di colui che pensa, ma secondo il beneplacito di colui che lo dona, cioè quando lo infonde lo Spirito Santo, che soffia dove vuole, quando vuole e come vuole, e a chi vuole.
Guglielmo di S. Thierry (1085-1148) Lettera ai frati del Monte di Dio, II, III,I
Ora, una vocazione non è tuttavia un miracolo: la grazia suppone la natura, e la contemplazione una certa capacità di “pensare”, per riprendere le parole di Guglielmo (sapendo che alla sua epoca “pensare” comprende tutta la vita mentale). Un bambino, per esempio, dorme molto e pensa molto poco; così la santità dei santi Innocenti sarà molto poco contemplativa, come quella di molti adulti. Al contrario, ci sono dei grandi contemplativi obiettivamente meno santi dei contemplativi minori: se la santità è essere fedeli alla volontà di Dio, è certo che i santi Innocenti sono stati più fedeli di Teresa d’Avila.
Cosa è la contemplazione, infatti? “Un’attenzione semplicissima e sottile a Dio solo”, ci direbbe Osuna, il maestro di Teresa; “un’attenzione semplice e amorosa a Dio” ci direbbe s.Giovanni della Croce, un po’ più tardi; “una vista semplice e amorosa di Dio presente”, ci dirà Malaval il secolo seguente. In breve, attraverso queste parole di vista o di attenzione, questi maestri indicano che è una certa qualità della percezione, a distinguere un contemplativo da un non contemplativo, esattamente come il musicista di genio scopre una melodia là dove un profano non percepisce che un rumore. Proprio come l’artista – perché in realtà essi appartengono alla stessa razza – il contemplativo abita un mondo ignorato dai comuni mortali, un mondo di cui solo Dio detiene la chiave. Ci sono delle persone che avanzano nella vita quasi automaticamente, e la loro santità consisterà nell’imitare quella degli altri; mentre ve ne sono altre che avanzano «come se vedessero l’invisibile» (Eb 11,27), aprendosi un loro cammino proprio; questi sono i contemplativi.
Prima di andare oltre, sottolineiamo che vi sono dei gradi nella contemplazione, e che la vostra ripartizione in tutto o nulla è brutale: nessuno è senza contemplazione, proprio come nessuno è senza sensibilità artistica; e varrebbe la pena dimostrare qui che ogni vita cristiana è di essenza contemplativa, anche se essa ha i suoi profeti, un s. Bernardo o un s. Francesco, per esempio, come la musica ha i suoi Mozart o Chopin. Diciamo allora che la domanda da voi posta, riguarda soprattutto quelli che sono chiamati a una vita molto contemplativa. Comunque sia, per accedere a questo mondo invisibile un minimo di attitudine è dunque necessaria, ma solo un minimo:
Se è vero che la sovrana Provvidenza si serve spesso della natura per metterla al servizio della grazia, occorre che questa ci sia sempre o quasi sempre.
S. Francesco di Sales, Lettera 1655
Per riprendere la vostra parola, la “programmazione” di un santo curato d’Ars lo porterebbe più verso l’agricoltura che verso il ministero delle anime, ma i più bei innesti talvolta prendono sulle più umili piante selvatiche, diventando tanto più rigogliosi. In effetti, non è l’orecchio che fa il virtuosismo (Beethoven era sordo), o l’occhio che fa il pittore geniale (Matisse era miope), così non è né la virtù, né il lavoro che fanno il contemplativo, ma la grazia di questo Dio che “ci ha amato per primo”, e che non ci deve assolutamente niente:
Quando il divino amore ha messo gli occhi su di un’anima, la rapisce di autorità e la porta via in un luogo sconosciuto, dove le fa vedere un mondo nuovo… Egli prende chi gli sembra opportuno e non si ha il diritto di domandargli perché ne usa così, perché risponderebbe che non deve rendere ragione a nessuno della sua condotta, e che ha ogni potere in cielo e in terra.
Jean-Joseph Surin (1600-1665), Lettere spirituali, I, p 123
Intuite la risposta alla seconda parte della vostra domanda: una persona a noi vicina non può fare di noi un contemplativo, ma Dio, creandoci, così come ha preparato il terreno che avrebbe seminato, ha previsto anche i giardinieri che l’avrebbero coltivato. Il Vangelo, questa dichiarazione d’amore di Dio che “libera” la nostra eventuale vocazione contemplativa, ci arriva tramite un contesto che può essere la nostra famiglia, un amico incontrato al momento giusto, e molto spesso un altro contemplativo che Dio avrà messo sulla nostra strada. Così si notano delle dinastie mistiche, come si notano le scuole che si formano intorno ai grandi pittori o ai grandi musicisti: Teresa d’Avila ha fecondato la Spagna del secolo XVI, come Francesco di Sales la Francia del XVII. Più spesso, il cammino di Cristo fino a noi si nasconde sotto le sembianze del caso, ma in realtà è tutto opera della sua Provvidenza attraverso questi incontri:
Ah, mio Dio! Dovremmo profondamente mettere questo nella nostra memoria: è possibile che sia stata amata e così dolcemente amata dal mio Salvatore; che abbia pensato proprio a me in modo particolare; e in tutte queste piccole situazioni tramite le quali mi ha attratta a lui?
S. Francesco di Sales, Introduzione alla Vita devota, V, 14
Sottolineiamo che coloro che ci trasmettono così il Vangelo, non lo fanno generalmente apposta, proprio perché lo fanno in modo sovrannaturale. Questo vuol dire altresì che per aiutare i nostri fratelli nella loro vocazione contemplativa, non bisogna convincerli dei benefici della contemplazione, ancor meno indottrinarli, bensì vivere noi stessi il Vangelo secondo la nostra vocazione, rendendo in questo modo Gesù visibile per loro.
«Si può considerare l’adorazione del Santissimo Sacramento come tempo di orazione? L’una può sostituire l’altra?»
Abbiamo
già sviluppato il legame profondo che esiste tra l’orazione e l’eucaristia:
l’orazione ci fa entrare nell’intenzione che presiede alla celebrazione
dell’eucaristia, cioè essa forma in noi la volontà di unione totale a Gesù che
risponde alla sua volontà di unirsi totalmente a noi: “Chi mangia la mia carne
e beve il mio sangue, rimane in me, ed io in lui” (Gv 6, 56). In questo, l’eucaristia compie quanto l’orazione
ci fa desiderare, così come l’orazione ci fa desiderare quello che l’eucaristia
realizza:
Signore, quando tu dici all’anima che ti
desidera: «Apri la tua bocca, ed io la riempirò», essa è trasformata in ciò che
mangia, ossa delle tue ossa e carne della tua carne, poiché lo Spirito Santo
opera in noi per grazia quello che sussiste eternamente per natura tra il Padre
e te, come tu lo hai pregato andando verso la Passione: come voi siete uno, lui
e tu, anche noi siamo uno in voi.
Ecco il faccia a faccia tra te, Signore, e chi ti
desidera; ecco il bocca a bocca tra te e chi ti ama; ecco il corpo a corpo
amoroso tra te e la sposa che sospira verso di te dicendo: «Il mio Diletto è
mio come io sono sua, e rimarrà sul mio cuore».
Guglielmo di Saint-Thierry
(1085-1148), Orazione meditativa VIII
Pertanto,
adorare il Santissimo Sacramento non è guardare, ammirare, esaminare qualcosa,
anche fosse il corpo di Cristo, ma anticipare o prolungare questo incontro con
la persona stessa di Cristo:
I fedeli, quando venerano Cristo presente nel
Sacramento, ricordino che questa presenza deriva dal sacrificio e tende alla
comunione sacramentale e spirituale insieme.
Eucharisticum Mysterium, 25
maggio 1967
È
per permettere questo incontro al di fuori della celebrazione della messa che
la Chiesa ha sempre mantenuto la tradizione di conservare le sacre specie: in
primo luogo per permetterlo agli assenti, particolarmente agli ammalati;
anticiparlo e prolungarlo dopo con l’adorazione, sia per chi si va a
comunicare, sia per chi viene dall’essersi comunicato, perché:
Una prima tua intenzione nella comunione deve
essere di progredire, fortificarti e consolarti nell’amore di Dio; perché devi
ricevere per amore quello che il solo amore ti fa donare. No, il Salvatore non
lo si può pensare in una azione più amorosa, né più tenera di questa, nella
quale si annienta, per così dire, e si riduce in cibo per penetrare nelle
nostre anime e unirsi intimamente al cuore e al corpo dei suoi fedeli.
S. Francesco di Sales
(1567-1622), Introduzione alla vita devota, II, cap. 21
Per
questo
Il fine primo e costitutivo della conservazione
della SS. Eucaristia nella chiesa fuori della messa è l’amministrazione del
Viatico; scopi secondari sono la distribuzione della comunione fuori della
messa e l’adorazione di Nostro Signore Gesù Cristo presente in modo velato
sotto queste specie.
Eucharisticum Mysterium
Vivere
l’orazione con questa intenzione eucaristica è quello che la Tradizione chiama
“comunione spirituale”:
La manducazione spirituale della carne spirituale
di Cristo non consiste in nient’altro che nel mettere il nostro cuore in suo
potere, tramite alcuni atti e l’applicazione della volontà… La manducazione
corporale, è ricevere il corpo di Cristo corporalmente, degnamente o
indegnamente, per la vita o per la morte.
Alcuni fanno solo la comunione spirituale, senza
ricevere il sacramento; sono quei cuori buoni e puri che desiderano il Santo
Sacramento, quando non possono riceverlo. Questi ricevono la grazia del
sacramento, forse più di quelli che lo ricevono sacramentalmente, sempre in
proporzione al loro desiderio e alla loro disposizione. Un uomo giusto, che sia
malato o in buona salute, può così comunicarsi cento volte al giorno ovunque si
trovi.
Giovanni Taulero (1300-1361),
Sermone XXXIII
Ricordiamo
che quest’orientamento eucaristico dell’orazione non dipende né dalla distanza,
né dalla visibilità dell’ostia, e in questo senso, si può adorare il Cristo nel
Santissimo Sacramento restando a casa propria, per esempio quando la lontananza
o la malattia ci trattengono a casa. Tuttavia, entrare in una chiesa,
avvicinarsi al tabernacolo e mettersi in ginocchio, aiuta la consapevolezza di
questa presenza, anche se questa presenza non ne dipende, proprio come
l’orazione è più agevole per noi, in certi luoghi e in certe posizioni.
E
proprio come l’orazione, l’adorazione eucaristica può restare a livello di
sensibilità, all’impressione della presenza di Dio, più che alla realtà di
questa presenza. E proprio perché questa sia un atto di fede, la Chiesa
proibisce i tabernacoli trasparenti, o ancora la conservazione delle sacre
specie in un luogo, dove non si celebra la Messa. Ma nello stesso tempo,
invitando ad adorare Gesù nel Santo Sacramento, afferma che la sua presenza non
è morale o sentimentale, bensì della sua persona nel suo corpo risorto. Così
raccogliersi davanti al Santo Sacramento, è vivere di nuovo la messa, vivere
l’incontro di Colui che viene a parteciparci la sua natura divina, condividendo
la nostra condizione umana.
Allora,
no, l’adorazione eucaristica e l’orazione non sono interscambiabili, ma una
conduce sempre all’altra:
La pietà che spinge i fedeli a prostrarsi presso
la Santa Eucaristia li attrae a partecipare più profondamente al mistero
pasquale e a rispondere con gratitudine al dono di Colui che, con la sua
umanità, infonde incessantemente la vita divina nelle membra del suo Corpo.
Eucharisticum Mysterium 25
maggio 1967
«Lo sviluppo di una vita di orazione è legato a una pratica frequente della confessione?»
Rispondere a questa domanda suppone di vedere come del sacramento della penitenza si è fatto da una parte un mezzo privilegiato di progresso spirituale raccomandandone la celebrazione frequente ai fedeli più ferventi, dall’altra parte questo sacramento è stato associato alla direzione spirituale. In effetti, la pratica della confessione è considerevolmente cambiata tra i primi secoli e il Medioevo, prima di arrivare all’equilibrio moderno, fortemente rimesso in causa nelle regioni di antica cristianità dalla defezione che da una quarantina d’anni si è verificata.
Durante i primi cinque secoli, il sacramento della penitenza e della riconciliazione era celebrato solo in occasione di colpe gravi commesse dopo il battesimo: l’aspetto “ riconciliazione ” prevaleva su quello della “penitenza”, e si trattava, in qualche modo, di una seconda entrata nella vita cristiana, con un secondo catecumenato molto esigente, che poteva durare per anni interi. Tuttavia s. Ilario o s. Agostino, che nessuno può accusare di tiepidezza spirituale, non hanno mai ricevuto questo sacramento, pur praticando altre forme di penitenza (in particolare il digiuno), di cui forse con troppa facilità oggi ci stiamo dimenticando.
All’inizio del Medioevo, con l’espansione della Chiesa vi fu un inevitabile calo di fervore che diede luogo a un cristianesimo a due velocità: da un lato, una massa battezzata, ma non sempre molto preoccupata di un comportamento evangelico; dall’altro, una minoranza di “convertiti” dopo il battesimo, che si definiva “penitente”. In questo nuovo clima spirituale, si assiste verso il VI sec. a una nuova pratica sacramentale, dovuta principalmente ai monaci irlandesi. Infatti, la fede di questa élite penitente andava sempre più a cercare il suo nutrimento nei monasteri presso un maestro al quale poter aprire la propria coscienza, e che, se era sacerdote, coglieva l’occasione per assolvere dai peccati “veniali” o dalle “imperfezioni”, che non avevano la gravità dei peccati “mortali”, i soli a essere oggetto dall’assoluzione rara e solenne dall’Antichità. Inizialmente previsto per i più cattivi cristiani, il sacramento della penitenza riguarderà da quel momento in poi soprattutto i migliori. Dall’Irlanda, questa pratica si diffuse in tutta Europa, nonostante le reticenze dei vescovi preoccupati da questa privatizzazione della penitenza. Tuttavia, obbligando tutti i fedeli a confessarsi almeno una volta l’anno, il Concilio Laterano IV (1215) ufficializzò questo passaggio da una celebrazione eccezionale a una celebrazione frequente e discreta, legata il più delle volte ad una vita fervente. Questa diffusione raggiunse dei punti estremi nel Rinascimento: s. Filippo Neri e gli oratoriani si confessavano tutti i giorni!
Rispondiamo adesso alla tua domanda. Poiché ormai il sacramento della penitenza celebra la volontà di unione perfetta a Cristo, che è peraltro la molla di una vita d’orazione,
Io voglio che con una giusta e santa sollecitudine per voi stessi, spogliate il vostro cuore e la vostra volontà dall’amore perverso del mondo, e lo rivestiate dell’amore di Cristo crocifisso tramite una perfetta e ardentissima carità, che vi stabilizzerà continuamente nell’affetto e nell’amore verso il prossimo… Quindi, bagnatevi nel sangue di Gesù crocifisso; in questo sangue troverete il fuoco dell’amore, in questo sangue si lavano le nostre iniquità. Questo è quello che fa il rappresentante di Gesù Cristo quando assolve la nostra anima nella confessione: non fa altro se non aspergere sulla nostra testa il sangue di Cristo.
S. Caterina da Siena (1347-1380), Lettera 155
Il sacramento della penitenza ci fa entrare in questa intenzione di Gesù crocifisso per un altro motivo ancora; ci associa a Gesù penitente per i suoi fratelli:
Essendosi Gesù caricato dei nostri peccati, ha fatto continuamente penitenza, per onorare la giustizia di Dio suo Padre, e per soddisfare i desideri dell’amore che portava alle nostre anime.
Jean de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il cristiano interiore, libro IV, cap. 7
Queste confessioni nelle quali, in fondo, non portiamo molto, possono sembrarci meschine se non addirittura scrupolose? Ma nel sacramento è meno importante quello che vi diciamo, di quello che Cristo vi opera:
Essendomi confessata, non avendo avuto che un Gloria Patri per mia penitenza, mi venne in mente, in una maniera che mi fece grande impressione, che non ci sono affatto piccole penitenze, quando esse sono unite alle sofferenze di Gesù, che per esse ha fatto penitenza davanti a suo Padre, per i nostri crimini. Mi sembrava che anche una sola Ave Maria inabissata nelle sofferenze del Figlio di Dio, che sono di un merito infinito e che soddisfano infinitamente il Padre eterno, diventasse una penitenza per soddisfare in modo ammirevole per i nostri peccati. La mia anima fu consolata da questa verità, e non ebbe altro in vista se non unire le sue piccole croci a quella di Gesù.
Idem
Certamente, fino a che la grazia è viva nell’anima, la penitenza conosce altre vie rispetto a quella della sua celebrazione sacramentale. Ma il movimento della Tradizione da più di un millennio sottolinea l’importanza di quest’ultima via, e sarebbe piuttosto temerario pretendere di farne a meno. Invece, confessarsi frequentemente vuol dire offrire a Cristo contemporaneamente l’occasione di dire a noi il suo perdono al centro della nostra vita quotidiana, riprendere regolarmente alla radice gli impegni battesimali, unirci a Gesù penitente, e approfittare del ministero della direzione spirituale che è associato da secoli alla confessione. Allora, amico lettore,
Apri dunque bene il tuo cuore per farne uscire i peccati tramite la confessione; perché a misura che ne usciranno, il prezioso merito della divina Passione vi entrerà per ricolmarlo di benedizione.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla vita devota, I, cap. 1
«La lectio divina può sostituire l’orazione? Qual è il loro rapporto? Come praticare la prima in vista della seconda?».
“L’ineffabile dolcezza della vita beata, la lettura la cerca, la meditazione la trova, la preghiera la domanda, la contemplazione la gusta”. (Guigo il Certosino, Scala per il Paradiso, I). Ecco esattamente il posto della lectio divina nella vita d’orazione: ne è il punto di partenza, o almeno uno dei punti di partenza possibili. Abitualmente, l’espressione si applica soprattutto (ma non esclusivamente) alla lettura biblica, mentre la lettura spirituale si applica piuttosto ai testi dei Padri della Chiesa e ai maestri della Tradizione spirituale. In ogni caso, l’una e l’altra mirano a risvegliare i nostri affetti, cioè il movimento della nostra volontà verso Dio, più che la nostra intelligenza, come invece si propone la teologia propriamente detta, almeno nell’epoca moderna. In effetti, all’incirca dal dodicesimo secolo in poi, la teologia non è più direttamente ordinata alla vita spirituale, ma alla messa in ordine intellettuale dei dati della Rivelazione, cosa che, di fatto, ha creato un sempre più profondo fossato tra la Chiesa orante e la Chiesa docente.
Nell’epoca moderna non parleremo, dunque, di lectio divina o di lettura spirituale se non nell’intenzione principale di nutrire una vita di orazione, per distinguerla da una lettura svolta con l’intenzione principale di studiare per insegnare o predicare. Tenendo conto di questi limiti, la lettura spirituale avrà due funzioni che bisogna distinguere, anche se non è sempre netto il loro confine:
1) Acquisire una cultura spirituale di fondo, per comprendere quello che Dio opera in noi tramite la grazia, perché “è cosa dura e penosa per l’anima, in certi momenti, non comprendersi, né trovare chi la comprenda”, direbbe Giovanni della Croce. Così che, non prestandosi all’azione divina, “queste anime, anziché affidarsi a Dio e a farsi aiutare da lui, frappongono ostacoli con le loro azioni imprudenti e le loro opposizioni, proprio come i bambini che, quando le loro madri vogliono portarli in braccio, pestano i piedi e piangono, ostinandosi a camminare da soli. In questo modo impediscono ad esse di procedere e le costringono a camminare a piccoli passi.” (Prologo de La Salita del Monte Carmelo).
Una tale lettura dovrebbe accompagnare ogni vita cristiana, perché dichiarando santi, e talvolta “dottori”, degli autori come Francesco di Sales o Teresa del Bambin Gesù, la Chiesa ce li dona come direttori spirituali, almeno in senso lato, garantendoci che i loro scritti non possono farci smarrire:
Leggi tutti i giorni un poco, con grande devozione, come se leggessi delle lettere missive che i santi ti avrebbero inviato dal cielo, per mostrarti il cammino e donarti il coraggio di intraprenderlo.
Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla vita devota, II,17
2) Entrare nell’orazione propriamente detta, poiché la lettura serve ad orientare la nostra attenzione verso Dio che sappiamo essere là, ma che i nostri pensieri dispersi non arrivano immediatamente ad accogliere; talvolta, questa lettura, fatta con la più grande attenzione possibile, sarà anche la sola orazione di cui noi saremo capaci, perché lo stress nervoso, il rumore o molto semplicemente l’aridità interiore ci privano di ogni raccoglimento, o quasi:
Per quelli che non possono riflettere, è importante e appropriato applicarsi alla lettura…; questo li aiuterà molto a raccogliersi, e ciò sarà per loro anche necessario. E anche se ciò che leggono è poca cosa, ciò sostituirà l’ orazione [puramente] mentale di cui non sono capaci… Per diciotto anni, tranne dopo la comunione, non osavo cominciare l’orazione senza un libro. La secchezza sopraggiungeva sempre quando non avevo alcun libro, e allora la mia anima partiva per non so dove, con i miei pensieri. Invece con il libro, cominciavo a raccogliere i miei pensieri e davo coraggio alla mia anima. Molto spesso, mi bastava aprire un libro, altre volte leggevo un poco o molto, secondo la grazia che Dio mi faceva.
Teresa d’Avila (1515-1582), Autobiografia, 4
Come comportarci?
– scegliere un testo spiritualmente nutriente, “un libro che tocchi il cuore, più che non diverta lo spirito” (Imitazione di Cristo), un libro in cui “non si cerchi soltanto la conoscenza delle realtà spirituali, ma piuttosto il loro gusto e il loro amore” (Alvarez de la Paz). Una guida sperimentata in questo tipo di letteratura è preziosa per farci guadagnare tempo;
– non cercare di ottenere un risultato intellettuale, ma di entrare nella coerenza dell’amore che ha presieduto alla scrittura del testo:
Nella lettura della Sacra Scrittura, spesso la nostra curiosità ci nuoce, volendo esaminare e comprendere, quando occorrerebbe semplicemente passare. Se vuoi ottenere dei frutti, leggi con umiltà, con semplicità, con fede, e non cercare di passare mai per bravo.
Tommaso da Kempis (1379-1471), Imitazione di Gesù Cristo I, 5
Così Dio ci troverà disponibili non appena verrà a visitarci:
Qualche volta, nel mezzo di una lettura, venivo presa, all’improvviso, dal sentimento della presenza di Dio. Mi era assolutamente impossibile dubitare che non fosse dentro di me o che non fossi inabissata in lui.
Teresa d’Avila (1515-1582), Autobiografia, 10
In pratica,questo vuol dire che occorre leggere tranquillamente, ma senza temere di sospendere la lettura o la riflessione, se il testo suscita in noi un certo raccoglimento, che fa venire la voglia di restare là, molto semplicemente, con il Signore, e soprattutto di fare la sua volontà. E, poco a poco, la nostra attenzione si porterà sempre meno sul libro e sempre più sul Signore, e, in modo impercettibile, la contemplazione si sostituisce alla meditazione. La lettura spirituale non avrà rimpiazzato l’orazione, ma l’avrà iniziata e alimentata, e anche se in proporzioni variabili, ogni vita d’orazione è un miscuglio di parole e silenzi, di meditazione e contemplazione, di lettura e raccoglimento.
«S. Teresa D’Avila, nel suo Libro delle fondazioni , ripete che “ non c’è alcun cammino che conduca più velocemente alla suprema perfezione se non quello dell’obbedienza». Qual è il posto dell’obbedienza in una vita di orazione?
L’obbedienza è una categoria “mistica”, molto più che morale, o semplicemente spirituale: il valore dell’obbedienza religiosa, formalizzata o meno nel voto tradizionale proprio alla vita consacrata accanto a quelli di povertà e castità, è di conformarci all’obbedienza di Gesù a suo Padre: «egli pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce» (Fil 2, 6s). Così che
L’obbedienza è un olocausto, in cui l’uomo tutto intero, senza togliere niente di sé, si offre nel fuoco della carità al suo Creatore e Signore tramite le mani dei suoi ministri.
Ignazio di Loyola (1491-1556) Lettera del marzo 1553
Questi ministri, per esempio i superiori religiosi, prendono dunque il posto di Dio stesso per quelli che obbediranno loro, e più ancora direttamente, il posto di Cristo nella sua volontà di obbedire al Padre:
Non considerare la persona di un superiore in quanto uomo soggetto agli errori e alle miserie; ma vedi colui a cui obbedisci nell’uomo, che è Cristo, Sapienza suprema, immensa bontà, carità infinita, che non può ingannarsi e non vuole ingannarti, come sai bene.
Idem
Ora, riconoscere Cristo nel superiore è possibile solo nella fede, e in primo luogo nella fede nella Chiesa, depositaria dell’autorità di Gesù che l’ha esplicitamente affidata agli apostoli: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Lc 10,16), dice loro. Ecco perché l’obbedienza religiosa, anche se è cieca nel senso in cui la fede è cieca, non è lasciata all’arbitrio dei superiori, ma è inquadrata molto esattamente dai successori degli apostoli, nel “Diritto Canonico” e in particolare nelle costituzioni degli ordini religiosi. Così:
L’obbedienza cieca ha tre proprietà o condizioni, di cui: la prima è che essa non guarda mai il volto dei superiori, ma solo la loro autorità; la seconda è che non si informa mai né sulle ragioni né sui motivi per cui i superiori comandino questa o quella cosa, poiché le è sufficiente sapere che essi l’hanno comandato; e la terza, che non si informa affatto dei mezzi necessari per fare quello che le è comandato, essendo sicura che Dio, per l’ispirazione per cui le viene dato quell’ordine, le darà bene il potere di compierlo; e invece di informarsi su come portarlo a buon fine, si metterà all’opera.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Veri colloqui spirituali, XI
Tuttavia l’obbedienza non consiste solo nell’eseguire un ordine impartito da un terzo, cosa che riguarderebbe solo la parte “meccanica” della nostra anima; ma poiché essa mira all’unione a Cristo obbediente, cerca di entrare, per quanto possibile, nell’intenzione stessa di colui che dà l’ordine:
Poiché essa consiste in un abbandono totale di sé, tramite il quale ci si espropria completamente di se stessi per essere posseduti e governati dalla Provvidenza divina attraverso il superiore, non si può certamente dire che l’obbedienza riguardi solo l’esecuzione nell’agire e l’accettazione della volontà, ma riguarda anche il giudizio, in modo tale che si entri nell’intenzione di quanto è ordinato dal superiore, per quanto ci si possa portare con la forza della volontà… L’uomo che obbedisce, si trasforma allora in ostia viva e gradita alla sua divina Maestà, non serbando nulla di se stesso.
S. Ignazio di Loyola, Lettera del 26 marzo 1553
Questa la portata “mistica” dell’obbedienza religiosa. Certo,
Non possiamo impedire di pensare che la nostra opinione sia giusta, altrimenti non sarebbe la nostra opinione. Non è sempre possibile o giusto, provare a cambiarla per essere d’accordo con un superiore. Ma è sempre giusto sottometterla e abbandonarla, credendo che l’opinione di un superiore sia una circostanza divinamente ordinata, alla quale non solo dobbiamo rassegnarci, ma dobbiamo accettare pienamente.
John Chapman (1865-1933), Lettera del 2 settembre 1932
«Che dire del voto di obbedienza, di alcuni, al direttore spirituale?»
Un tale voto è tradizionale, il direttore svolge, infatti, il ruolo del superiore religioso per quelli che non ne hanno. Non è essenziale alla direzione spirituale, e si intuisce che non è sempre facile da vivere. In ogni caso, si tratta ancora di un’obbedienza nella fede, legata alla sua finalità mistica, e non all’autorità umana o alla supposta competenza del direttore, poiché tutto il valore di questo voto consiste nel favorire la conformità del diretto a Cristo obbediente:
Per essere perfettamente uniti alla volontà di Dio, dobbiamo essere liberi della nostra volontà. Facendo delle piccole mortificazioni per piacere a Dio, tu abbandoni qualcosa che ami, ma fai la scelta tu stessa mentre obbedendo al tuo confessore, abbandoni totalmente la tua volontà, mortificando te stessa più di quanto non avresti fatto, abbandonando di tua volontà, certe soddisfazioni. Il piccolo “sacrificio” che fai volontariamente per Dio con qualche mortificazione che hai scelto, non è nulla al confronto di piacere a Dio tramite l’ “obbedienza” ad un uomo che lo rappresenta… Quel che egli ti dice è la volontà di Dio per te, qui ed ora.
John Chapman, Lettera del 28 giugno 1933
E quando non si ha né superiore religioso, né un direttore spirituale, un’obbedienza ancora più radicale è quella di fare molto semplicemente come se ciascuno dei fratelli fosse un superiore o un direttore:
Non basta assistere il prossimo con le nostre comodità temporali, non basta impiegare la nostra persona a soffrire per questo amore: ma occorre passare oltre, lasciandoci usare dagli altri tramite la santissima obbedienza, e così fare ciò che il prossimo vorrà, senza mai resistergli. Perché quando ci impegniamo da noi stessi, e per scelta della nostra volontà o elezione, questo arreca sempre molta soddisfazione al nostro amor proprio ma lasciarci utilizzare in cose che gli altri vogliono e noi non vogliamo, cioè che non scegliamo, è proprio lì che risiede il massimo grado dell’abnegazione.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Veri colloqui spirituali, X
«Molta gente pretende di aver incontrato Gesù, e di averne ricevuto direttamente dei messaggi molto chiari. Ma dall’uno all’altro, questi messaggi fanno dire a Gesù delle cose contraddittorie. Come sapere se vengono realmente da lui?».
“Ma se anche noi stessi oppure un angelo del cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema! L’abbiamo già detto, e ora lo ripeto: se qualcuno vi annuncia un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!” (Gal 1, 8-9). Ecco il criterio, e si vede che agli occhi di s. Paolo è assoluto, salvo a uscire dalla fede degli apostoli. E viceversa, “nessuno può dire “Gesù è Signore”, cioè annunciare veramente questo vangelo, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12, 3).
Ma perché degli uomini tra Dio e noi? Perché Gesù non parla a noi“direttamente”? Gli apostoli non sono tra Gesù e noi, ma sono testimoni di Gesù per noi: “Noi, gli Apostoli siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute” (At 10, 39). Certo, siamo direttamente in contatto con Gesù, “presente in tutto quello che di più intimo a me stesso” (Henri Brémond), ma la sua parola ci giunge dall’esterno, anche se possiamo riceverla solo tramite dei portavoce che lui stesso ha designato per questo: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10, 16) dice agli apostoli; e fra loro affida a Pietro il compito di autenticare, in ultima istanza, questa parola: “ma io ho pregato per te perché la tua fede non venga meno…e tu conferma i tuoi fratelli” (Lc 22, 32)
Ormai, Dio si rivela a noi attraverso i circuiti della nostra conoscenza umana, sensibilità e intelligenza, e ciò genera una Tradizione (tradizione viene da tradere, consegnare, rimettere), rivelazione umana di Dio, di cui il primo anello è molto semplicemente la Sacra Scrittura, fulcro dell’insegnamento degli apostoli.
Come autenticare questa Tradizione aldilà di questo primo anello, contemporaneo di Gesù? La Scrittura stessa ci mostra che tra gli altri mandati, gli apostoli hanno ricevuto da Gesù quello di perpetuare il loro collegio tramite altri uomini che s’ integreranno a loro. Per esempio, quando bisogna sostituire Giuda all’interno di questo collegio, la designazione di Mattia mostra bene che gli altri apostoli lo considerano interamente uno di loro, lo considerano scelto da Dio stesso: “Mostraci Signore, quale di questi due tu hai scelto per questo ministero e apostolato” (At 1, 24- 25). È così che a poco a poco, il collegio degli apostoli conduce ai 4000 vescovi che garantiscono oggi la fede dei cristiani.
Come avviene questa autenticazione? Il mezzo tramite cui la Chiesa ha convalidato il canone delle Scritture nel sec. IV è un caso esemplare: altri vangeli oltre a quelli poi sanciti, erano in circolazione, a partire dal contenuto dei testi, era impossibile discernere i veri dai falsi. I vescovi hanno allora interrogato l’insieme della Chiesa, essendo ogni fedele un “sensore” tramite la propria fede, della Rivelazione, e dopo diversi tentativi, hanno raggiunto l’accordo sui quattro che noi conosciamo. In altri termini, è la fede viva, e non l’archeologia che seleziona nel tempo ciò che testimonia autenticamente Gesù.
Nasce qui una domanda nella domanda: «Siete sicuri di non scegliere i vostri amici quando parlate di insieme della Chiesa? Si sa bene che i protestanti, per esempio, non riconoscono la stessa Rivelazione dei cattolici, e tuttavia pretendono altrettanto di aver dato la loro fede a Cristo!». Qui, non c’è che un modo per dirimere la questione: interrogare il contenuto della Rivelazione sancito dagli uni e dagli altri, e vedere qual è il più coerente. Dio, infatti, si è fatto uomo, e per essere cristiano, occorre per prima cosa essere uomini, e ammettere che due più due fa quattro:
Un articolo di fede non deve essere contro la ragione naturale, perché la ragione naturale e la fede attingendo alla stessa sorgente e uscendo dallo stesso autore, non possono essere in opposizione.
S. Francesco di Sales, Controversie, I
Tutto lo sforzo ecumenico sta qui. Richiede una grande esigenza intellettuale, ma se ne vede la posta in gioco spirituale: poter avanzare nella fede con certezza, in modo tale che “non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quell’astuzia che trascina all’errore” (Ef 4, 14).
Le rivelazioni private sono dunque impossibili? E Lourdes e Fatima? A Lourdes o a Fatima, le rivelazioni non hanno altro contenuto se non il Vangelo, e del resto, proprio per questo sono state autenticate dalla Chiesa. E in realtà, quello che è accaduto a Lourdes o a Fatima non è fondamentalmente differente da quello che accade in ogni vita cristiana: Dio s’incarna in coloro che gli donano la loro fede, e in ciò la Chiesa, corpo di Cristo, cresce e continua a rivelare la Parola di Dio:
Siamo nei secoli della fede; le anime sante sono la carta, le loro sofferenze e le loro azioni sono l’inchiostro. Lo Spirito Santo, con la penna della sua azione, scrive un Vangelo vivente; che potrà essere letto soltanto nel giorno della gloria quando, dopo essere uscito dalla tipografia di questa vita, sarà pubblicato.
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), L’abbandono alla divina Provvidenza, cap. XI
Nei “messaggi” evocati dalla vostra domanda, c’è qualcosa d’inquietante che consiste nel fare regolarmente a meno di questa umanità di Dio. In fondo, il peccato originale, ci dice s. Bernardo, non fu tanto un peccato contro Dio, quanto un peccato contro questa umanità:
Nel suo orgoglio, l’uomo scambiò la sua somiglianza con Dio, con una somiglianza con la bestia. Occorre dunque evitare l’ignoranza a tutti i costi, per paura di cadere in mali ancora più grandi.
Sermone 35 sul Cantico
Il rimedio? “Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli!” (Mt 18, 3). Diventare come bambini, è mettersi umilmente in ascolto di colui che ha detto: “Io sono la Verità”; e non: “Avete la Verità”. In altri termini, mettersi in orazione.
«Gli autori che lei cita, soprattutto Francesco di Sales, ci invitano spesso all’abbandono. Ma come sapere se questo abbandono non è semplicemente la tiepidezza di un’anima che, con il pretesto di lasciar fare al Buon Dio, è in realtà indifferente a Gesù?»
Non confondiamo la tiepidezza con l’impressione di tiepidezza: la sola cosa da esaminare per sapere se amiamo o no il Signore, è la conformità della nostra volontà alla sua, quali che siano peraltro le nostre impressioni di amarlo o di non amarlo:
In materia di perfezione, non c’è che una cosa da fare, è quella di lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio senza avere altro scopo né altro proposito se non quello di volere eseguire la sua adorabile volontà, in modo che non si senta più quello che si vuole o non si vuole, ma solamente ciò che Dio vuole.
Claude-François Milley (1668-1720), Lettera del 1710
Così occorre distinguere bene tra la noncuranza, atteggiamento negativo di abdicazione e di ripiegamento su di sé, e l’abbandono vero, atteggiamento positivo di fiducia in qualcuno, di relazione con una persona:
Non è precisamente alle cose volute da Dio che bisogna abbandonarsi; è a lui e solo a lui che ci si deve abbandonare.
Charles Gay (1818-1892), Sulla vita e le virtù dei cristiani, II, Sull’abbandono
Mediante ciò saremo contemporaneamente in uno stato di abbandono, eppure più attivi che mai:
Il bambino che si abbandona nelle braccia di sua madre, si consegna tramite la stessa a tutti i movimenti che sua madre riterrà utili che faccia con lei.
Idem
Questo fa sì che quando si è abbandonati a Dio:
Si mette una buona e ragionevole previdenza nell’ordinare ogni cosa come si conviene, per noi e per il prossimo, per il nostro servizio e per quello della carità comune, a fare ordinatamente e con intelligenza tutto quello che si presenta: lo stesso bene divino che si cerca nella passività, si deve cercare anche in ogni attività, che si lavori, che si parli, che si mangi, che si beva, che si dorma o che si vegli.
Giovanni Taulero (1300-1361), Sermone 62
Mentre accade l’inverso per quelli che sono falsamente abbandonati:
Non cercano Dio con un amore effettivo né con una libertà sovrannaturale … Hanno stabilito che il più alto grado di santità è quello dell’uomo che segue in ogni modo la sua natura ed è senza vincoli, così che possa, in se stesso, seguire l’inclinazione del suo spirito verso la tranquillità e nel contempo seguire, all’esterno, i piaceri del corpo in ogni suo movimento nonché la soddisfazione della carne.
Jean Ruusbroec (1293-1381), Il libretto della Spiegazione
Questo è il falso abbandono che è stato condannato sotto il nome di “quietismo” nel 1687 da papa Innocenzo XI nella bolla Cœlestis Pastor ; ecco l’essenziale delle affermazioni a cui si riferisce, e nelle quali si riconoscerà l’indifferenza a Gesù che si veste, talora, in modo improprio con il nome di abbandono:
La vita interiore consiste nell’annientare le potenze dell’anima… Essa è senza conoscenza né amore … Dio vuole agire in noi senza di noi (Proposizioni 1 e 2)… L’anima giunta alla morte mistica non può più volere altro da quello che Dio vuole, perché non ha più volontà, avendogliela Dio tolta ( Proposizione 61).
Sulla stessa linea gli stessi affermano che:
Chi ha consegnato il suo libero arbitrio a Dio non deve più preoccuparsi di nulla, né dell’inferno, né del paradiso, né della sua salvezza (Proposizione 12).
Cosa che distrugge il cuore stesso della fede cristiana, nella quale, certo, non ci si preoccupa più della salvezza, ma perché si è nelle braccia del Salvatore:
Ma chi si prenderà cura della mia salvezza? – E andiamo! Ancora ignorate che il modo più sicuro per riuscirvi, è di lasciarne la cura a Dio, per non occuparsi più che di lui, come farebbe un uomo che, al servizio di un grande re che l’avrebbe legato a lui, si abbandonerebbe totalmente a lui per la sua sussistenza, non pensando più se non al servizio e agli interessi del suo padrone?
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera del 1735
Quello che è condannato e condannabile nel falso abbandono è dunque una distruzione dell’anima, là dove gli autentici discepoli di Gesù parlano al contrario della sua maturazione:
In funzione di questo abbandono completo, aderiamo perfettamente alla sua divina azione e, tramite questa perfetta adesione, partecipiamo alla perfezione del suo spirito di santità che agisce in noi e, grazie a questa incomprensibile partecipazione, la santità di Gesù si espande nella nostra anima e la rende santa.
François Liberman (1802-1852), Lettera del 12 agosto 1837
Se ne riconosceranno le conseguenze nella vita d’orazione: là dove il falso abbandono pigro fa sì che:
Poiché la rassegnazione e l’orazione sono la stessa cosa, se ci si addormenta nell’orazione, essa continua lo stesso.
Cœlestis Pastor, Proposizione 25
La pace profonda dell’anima abbandonata in Dio è al contrario l’armonia di un’anima corrispondente e attenta alla sua volontà:
Occorre trovare questa tranquillità, non perché è madre di soddisfazione, ma perché è figlia dell’amore di Dio e della rassegnazione (= consegna fiduciosa ) della nostra volontà.
S. François di Sales (1567-1622), Lettera del 16 luglio 1608
Per dirla in altro modo, l’orazione abbandonata convoglia tutte le energie dell’anima verso l’ “attenzione semplice ed amorosa di Dio” (definizione di contemplazione secondo s. Giovanni della Croce ), mentre l’orazione oziosa è senza alcuna energia, e si preoccupa sempre meno di far la sua volontà.
«Si parla spesso di “offrire” le nostre preoccupazioni, dolori, e altre prove al Buon Dio, come se questo gli facesse piacere, o ancora di privarci di questa o quella cosa piacevole per offrirla in sacrificio a Lui: il buon Dio ama veramente vederci soffrire?».
No, certamente! Un’espressione come “offrire le nostre preoccupazioni a Dio” è effettivamente spiacevole, se sottintendesse che Dio troverebbe un certo piacere nei nostri dispiaceri, e che essere cristiano dovrebbe essere spiacevole. In realtà, noi abbiamo sempre e solo una cosa da offrire a Dio: noi stessi! Il resto, è lui che ce lo offre. Quindi, piuttosto che donargli le nostre preoccupazioni, sarebbe meglio donarci a Dio nelle nostre preoccupazioni.
Le nostre preoccupazioni sono, in effetti, un’occasione privilegiata di progresso spirituale. Perché? Perché la nostra dipendenza da Dio diviene evidente quando la vita ci sfugge e il corso delle cose ci impone quello che non avremmo scelto:
Perché quando ci adoperiamo noi stessi, e con la scelta della nostra volontà o della propria elezione, questo dona sempre molta soddisfazione al nostro amor proprio; ma lasciarci usare nelle cose che gli altri vogliono e noi non vogliamo, cioè non scegliamo, è lì che sta il sommo grado dell’abnegazione… o meglio vale sempre, senza paragoni, quello che ci fanno fare (intendo ciò che non è contrario a Dio e che non l’offende affatto ) piuttosto che quello che facciamo o scegliamo di fare da noi stessi.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Veri Colloqui spirituali, IV
Per questo, peraltro, l’obbedienza, ufficializzata per voto o meno, è il più grande mezzo per il progresso spirituale:
L’obbedienza è il sacrificio che Dio esige essenzialmente da ogni anima che aspira alla perfezione. Sì, lo esige come una condizione senza la quale non può esserci per lei né santità né virtù vera. Qualunque cosa faccia, se seguisse la sua volontà, se si dirigesse da se stessa, se pretendesse di restare padrona delle sue azioni, non potrebbe piacere a Dio, perché l’amor proprio, lo spirito proprio, contaminerebbe le sue opere. Tramite l’obbedienza, l’uomo dona se stesso, e si dona per intero; infatti, cosa rifiuta a Dio chi gli immola la sua libertà, e vuole dipendere da lui in ogni cosa?
Jean Nicolas Grou (1731-1803), Manuale delle Anime interiori. L’obbedienza
In fondo, avere l’emicrania o un mal di denti ci mette in situazione di vivere radicalmente l’obbedienza: non ci possiamo nulla, e piuttosto che ribellarci contro quello che, in ultima analisi, dipende solo da Dio, accettare questa situazione, è confessare con san Paolo che «Dio è fedele, e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione, vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1 Cor 10,13).
«Oltre che offrirci a Dio quando non possiamo fare altrimenti, bisogna fare un passo in più, rinunciando intenzionalmente a qualcosa di piacevole, cioè quello che si chiama “fare un sacrificio”? Dio chiede ciò?».
A proposito di questa “ mortificazione che ci priva” si è già avuto modo di dire (cf Semi n° 127) che Dio non lo comanda, ma invita ad essa. Qual è la differenza? Facciamo una piccola digressione.
Il minimo richiesto dalla carità è di avere con il proprio prossimo delle relazioni corrette; il massimo è di mettersi sistematicamente al suo servizio regolandosi secondo il suo beneplacito. Questa è tutta la differenza tra i “comandamenti di Dio” e i “consigli evangelici”. I comandamenti fanno sì che una madre deve, come minimo, dare un’ alimentazione corretta al proprio figlio, ma una mamma fa infinitamente più, e darà la sua parte di torta al suo piccolo per dirle il suo amore. E se questo si chiama un “consiglio”, non vuol dire che si tratta di una semplice raccomandazione, perché non si può costringere una madre a essere anche una mamma: l’amore è un dono, o non è.
“Fare un sacrificio”, offrendo qualche cosa a Dio o a un fratello, fa passare da una logica egoistica (“io tengo la torta per me”) ad una logica di relazione, di unione (“io ti offro la torta, e in te ne trarrò vantaggio”). Questa logica è quella dell’amore, sempre in espansione: più doniamo, più scopriamo delle occasioni per donare, questo è il regime normale di una vita cristiana, questo è quello che Francesco di Sales chiama una “vita devota”:
Quando la devozione risiede in un certo grado di eccellente carità, non solamente ci rende pronti, attivi e diligenti nell’osservanza di tutti i comandamenti di Dio; ma oltre ciò, ci provoca a fare prontamente e con applicazione il maggior numero di opere buone che possiamo, anche se non sono in nessun modo comandate, ma solamente consigliate o ispirate.
S. Francesco di Sales, Introduzione alla vita devota I, 1
Quando le occasioni di sacrificio dipendono da noi (“io posso rinunciare a un buon piatto”) o meno (“ho mal di testa”), noi possiamo, certamente, cercare di evitarle, dimenticarle, o sopprimerle, ma possiamo anche dimenticarci di più di noi stessi e fidarci di più di Dio, trasformando così in amore la tristezza quotidiana:
– Ecco, mio Dio, mi cercavi? Che vuoi da me? Non ho niente da donarti. Dopo il nostro ultimo incontro, non ho messo niente da parte per Te. Niente… non una buona azione, ero troppo stanca. Niente…non una buona parola, ero troppo triste. Niente se non il disgusto di vivere, la noia, la sterilità.
– Il Signore: DONA!
– L’impazienza, ogni giorno di vedere finire la giornata, senza servire a niente; il desiderio del riposo lontano dal dovere e dalle opere, il distacco dal fare il bene, il disgusto di Te, o mio Dio!… I turbamenti, gli spaventi, i dubbi…
– Il Signore: DONA!
– Signore! Ecco come uno straccivendolo, Tu vai raccogliendo gli scarti, le immondizie. Che ne vuoi fare, Signore?
– Il Signore: Il Regno dei Cieli!
Marie Noël (1883-1967), Note intime
«In fondo, qual è lo scopo della vita spirituale? È l’orazione? L’unione con Dio? Vivere quaggiù secondo la volontà di Dio?»
«Deus ipse finis est» dice s. Tommaso d’Aquino, cioè: Dio solo è lo scopo, Dio solo è il compimento di ogni cosa, e la vita spirituale non è altro che la vita di Dio in noi. Poiché questo fine che è Dio, è inscritto in ogni uomo, in fondo, tutti hanno un solo e unico desiderio: Dio, come lo testimonia l’universalità del fatto religioso. Questo desiderio, nel linguaggio cristiano, si dice: amare.
Ecco per qual motivo, poiché l’amore è lo scopo, basta a se stesso:
L’amore non cerca ragioni, non cerca vantaggi all’infuori di sé. Il suo vantaggio sta nell’esistere. Io amo perché amo; amo per amare. Grande cosa è l’amore se risale al suo principio, se ritorna alla sua origine, se riportato alla sua sorgente. Di là sempre prende alimento per continuare a scorrere.
S. Bernardo (1180-1242), Sermone 83 sul Cantico
Ma cos’è l’amore, cos’ è questo movimento perpetuo che si nutre di se stesso e rinasce senza fine nei nostri cuori? Amare è volere, fondamentalmente, essere uno con chi si ama, scomparire in lui; o meglio, poiché l’amore non è fusione, è solamente essere se stessi in lui:
Amare è, per prima cosa, essere attratti, sedotti, catturati. Il primo atto libero e meritorio che ci viene chiesto, è quello di cedere a questa seduzione, a questa attrazione di lasciarsi prendere, di lasciarsi “possedere”, di lasciarsi fare. È qualcosa di semplicissimo che si accende nel nostro cuore senza sapere né perché né come …
Marie-Dominique Molinié (1918-2002), Ritiro predicato nel 1969
Ma
Se tu cerchi da dove viene che l’uomo ama Dio, troverai soltanto che Dio ci ha amati per primo. Colui che noi amiamo, ha donato se stesso, ha donato quello per cui lo avremmo amato. Ciò che ha dato per questo, ascoltiamolo, chiaramente esposto dall’apostolo Paolo: «L’amore di Dio è riversato nei nostri cuori». Da dove viene ciò? Da noi stessi? No, di certo. Ma allora? «Dallo Spirito che ci è stato dato» (Rm 5,5).
S. Agostino (354-430), Sermone 34
“Lo Spirito Santo che ci è stato donato”: ecco la vita spirituale. Non ha altro scopo che questo, nessun’altra ricompensa; non serve a niente, e tutto è al suo servizio. Dio non ha altra volontà se non questa, non ha altro desiderio, e prima di indicare l’organizzazione della nostra relazione con lui, l’orazione è innanzitutto questo movimento d’amore che tende a unirci a lui, come chiede Gesù a suo Padre per noi: «Quelli che tu mi hai donato, che siano una sola cosa in noi, come, Padre, tu sei in me, ed io in te; che siano uno come noi siamo uno» (Gv 17,21 ss).
Ora, se parliamo dell’orazione in quanto pratiche che mirano a coltivare questa relazione, ad alimentare questo movimento d’amore – e questo è il significato a cui tende la parola orazione dalla fine del Medio Evo in poi – vediamo che essa non è lo scopo, ma il nutrimento della vita spirituale. L’errore sarebbe quello di aspettarsi qualcos’altro dall’orazione stessa, cercandovi un mezzo per fare cadere il cielo sulla terra. A una novizia che credeva di far bene chiedendo un maggiore tempo da dedicare all’orazione di quello previsto dalla Visitazione, Francesco di Sales fa rispondere:
Le dirò qualcosa sulla difficoltà di questa brava figlia: sbaglia moltissimo credendo di perfezionarsi con l’orazione senza l’obbedienza, che è la cara virtù dello Sposo, nella quale, tramite la quale e per la quale è voluto morire. Sappiamo dalle Relazioni e dall’esperienza che molti religiosi e altri, sono diventati santi senza orazione mentale; ma senza obbedienza, nessuno.
… Bisogna amare l’orazione, ma occorre amarla per amore di Dio. Allora chi l’ama per amore di Dio, ne vuole tanto quanto Dio ne vuol dare, e Dio ne vuol dare tanto quanto è permesso dall’obbedienza … Così bisogna unire la propria volontà, non al mezzo per servire Dio, ma al suo servizio e al suo beneplacito.
Alla Madre Favre, primavera 1617
La vita spirituale è una vita da artista. Un artista dipinge o suona il violino per diletto, e appena entra nel giro commerciale, la sua arte ormai “ufficiale” non produrrà più che cattive copie. Non vi è niente di più triste di una vita cristiana che vuol dare lezione, aver ragione e convertire le folle. Certo, l’artista lavora in modo metodico, ma per unire e rivelare, non per produrre il capolavoro che sente misteriosamente nascosto nel più profondo di sé. Così nell’orazione o in ogni altra pratica religiosa, «se bisogna attaccarsi a un metodo per fissare lo spirito, non bisogna pertanto esserne schiavi » (Don Claude Martin in Semi n°106).
Non esiste altra ricetta per riuscire una vita spirituale se non quella di aprirsi allo Spirito Santo, senza preoccuparsi della riuscita, né chiedersi a che punto si è arrivati; proprio come il violinista che suona bene solo quando non ha più bisogno dello spartito. Vuoi diventare un santo o un grande contemplativo? «C’è qualcosa di meglio da fare, se vuoi essere gradito a Dio: trascurare e dimenticare tutto, per pensare solo a Gesù e occuparti solo di Gesù» (François Libermann, Lettera dell’8 agosto 1837). Questa naturalezza dell’artista, è proprio ciò che la Tradizione chiama “santo abbandono”, nel quale riceviamo tutto quello che noi non potremmo mai produrre:
L’abbandono è un semplice lasciarsi cadere tra le braccia di Dio, come un bambino tra le braccia di sua madre. L’abbandono perfetto arriva fino ad abbandonare l’abbandono stesso Ci si abbandona senza sapere che ci si è abbandonati; se si sapesse, non sarebbe più abbandono. L’abbandono si riduce, non a fare grandi cose di cui vantarsi con se stessi, ma nel sopportare la propria debolezza e la propria infermità, nel lasciar fare … Niente prepara ad abbandonarsi fino in fondo, se non l’abbandono attuale in ogni momento. Preparare e abbandonare sono due cose che si distruggono a vicenda. L’abbandono è abbandono, solo se non prepara niente. Bisogna abbandonare tutto a Dio, perfino l’abbandono stesso.
François de la Mothe-Fénelon (1651-1715), Lettera CLXVII (ed. Briand)
«I santi, e in primo luogo Gesù stesso, ci invitano a portare la nostra croce. Questa è una conseguenza del peccato? La Santa Vergine l’ha provato? Senza peccato originale, Adamo ed Eva avrebbero conosciuto la croce? Eva avrebbe evitato i dolori del parto?»
In primo luogo alcuni elementi evidenti. Ben prima che l’uomo apparisse sulla terra, l’archeologia ci dice che i dinosauri si mordicchiavano allegramente. Dunque, non cadiamo nelle semplificazioni del tipo: “Non c’erano dolori nel paradiso terrestre, dove del resto i leoni mangiavano erba” (stando attenti a togliere prima le lumache)”. Atteniamoci alla Parola biblica nella sua chiarezza: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona» (Gen 1,31). “Quanto aveva fatto”, compresi i microbi, i virus e le altre bestioline che non amiamo affatto.
Allora, come comprendere quello che ci insegna il catechismo: «Finché fosse rimasto nell’intimità divina, l’uomo non avrebbe dovuto né morire né soffrire» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 376). Si trattava di una grazia (quella della “intimità divina”), e non di una proprietà naturale che avrebbe fatto dell’uomo un’eccezione nel regno animale: «L’uomo era mortale per la sua condizione di corpo animale, ma immortale per un dono del suo Creatore» (s. Agostino). Per dirla in altri termini, l’uomo viveva simultaneamente su due piani ordinati l’uno all’altro: su quello della natura egli provava il logorio proprio di ogni creatura materiale; sul piano della grazia, questo logorio lo stabiliva sempre più nella dipendenza dal suo Creatore. Così durante la nostra esistenza terrena,
Noi saremmo stati sempre in cammino verso l’altra vita: e quando fosse piaciuto alla divina Maestà di ritrarci, lo avrebbe fatto o sul carro di fuoco come per Elia [allusione a 2 Re 2,11] o in altro modo come gli fosse più piaciuto.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Sermone 65
Ma quest’ armoniosa assunzione della condizione materiale della creatura nella condizione spirituale del suo Creatore supponeva che l’uomo si prestasse, cioè che la sua volontà fosse in sintonia con quella di Dio; così che il giorno in cui l’uomo volle attaccarsi alla sua sola condizione materiale, questo movimento di assunzione fu interrotto, e conseguentemente la morte ritrovò i suoi diritti sull’uomo: «Il salario del peccato, è la morte» (Rm 6,23).
In questa nuova situazione, l’uomo si trova diviso tra la sua aspirazione alla vita eterna, sempre inscritta nel suo cuore, e la fatalità della morte che rappresenta il solo avvenire ora che non ha più accesso alla eternità. E oltre il nostro decesso stesso, sono le morti quotidiane delle nostre malattie, infermità e altri fallimenti che rappresentano il “salario del peccato”. Questa lacerazione è la croce. Ma si comprende che essa è tale solo a causa del divorzio tra la nostra volontà e quella di Dio; così accettarla, cioè accettare tutte le nostre morti, l’annullerebbe, poiché quest’ accettazione ci ristabilirebbe nella volontà di Dio:
La croce è di Dio, ma è croce perché non ci uniamo a essa; perché, quando si è fortemente decisi a volere la croce che Dio ci dona, questa non è più croce. È croce solo perché non la vogliamo; e se è di Dio, perché allora non la vogliamo?
S. Francesco di Sales, Lettera scritta verso il 1613
Ora, Gesù ha voluto la croce, non perché fosse, come noi, vittima del peccato, ma per la sua volontà di condividere la nostra condizione umana di peccatori: “La mia vita nessuno me la prende, sono io che la dono”. Allora accettando liberamente la morte alla quale non doveva nulla, Gesù è vincitore della morte alla quale noi eravamo condannati, la nostra vittoria non dipende dunque da altro se non dalla nostra unione a lui, cioè dalla nostra fede in lui.
Ma ritorniamo alla croce: la Vergine Maria l’ha conosciuta? Si, è quello che noi celebriamo sotto il titolo di “Madonna Addolorata”; ma l’ha conosciuta come suo Figlio e perché suo Figlio l’ha conosciuta, e non come una condanna, poiché immacolata dalla sua concezione, ella non le doveva niente:
La Vergine, della quale sappiamo che è morta, è stata obbligata alla morte, non a causa dell’uomo vecchio, ma a causa di quello nuovo; non per il peccato di Adamo, ma per la morte di suo Figlio, al quale doveva assomigliare in tutti i suoi stati. Così gli uomini muoiono a causa del loro peccato originale, Gesù Cristo muore per carità verso i peccatori, e la Vergine muore per conformità e per omaggio a Gesù suo Figlio, umiliato fino alla morte per amore nostro.
Guillaume Gibieuf (1583-1650), Sulla vita e sulle grandezze della Vergine, XVII
Facciamo ancora un passo. In cosa Gesù ha annullato la croce accettandola? Quindi, come facciamo anche noi a vincere la morte, vivendo quello che lui ha vissuto sulla croce? La molla della sua vittoria, abbiamo detto, è l’accordo della sua volontà con quella del Padre; la ripugnanza che noi abbiamo e che egli aveva per questa croce (« Padre, se è possibile, allontana da me questo calice!»), non lo ha trattenuto dal volere quello che la giustizia di Dio implicava, non come una vendetta, bensì esigenza di un amore vero: «Ma che sia fatta la tua volontà, non la mia!» Così ritroviamo su quella croce, che Gesù non aveva meritato, il doppio regime della natura e della grazia, che era la situazione dell’uomo innocente, prima del peccato. Secondo la natura, Gesù sentiva tutti i tormenti fisici e psichici che costituiscono la sua Passione (la crocifissione non ne era che una piccola parte), e secondo la grazia, la vita sovrannaturale continuava a essergli donata dal Padre. Così bisogna pensare alla croce come un luogo di morte e di vita, di dolore e di felicità contemporaneamente, per Gesù come per tutti quelli che sono uniti a lui tramite la fede:
Nostro Signore Gesù Cristo è stato, ogni giorno della sua vita, più privo di consolazione di qualsiasi uomo; è finito nella morte più crudele di cui mai nessun uomo è morto, e nel mezzo di tutte le sue sofferenze, le sue facoltà superiori non erano meno beate di quanto lo siano adesso.
Taulero (1300-1361), Sermone 62
«S. Francesco di Sales ci dice che è l’amore a dare il valore a tutte le nostre opere. Ma l’amore non si sente e non si quantifica! Allora, come sapere se le cose si fanno con molto o con poco amore? E quale posto dare nell’amore ai sentimenti?».
L’amore non si sente, in effetti, e questo perché Dio (che è amore) non si sente, non si vede, non s’intende, etc… così che fare le cose con amore, non è farle provando bei sentimenti:
Ho rilevato più volte che molti non fanno differenza tra Dio e sentimento di Dio, tra fede e sentimento della fede, tutto questo è un grandissimo errore.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Veri trattenimenti spirituali, Sulla modestia
Certo, l’impressione di amare è deliziosa, ma più profonda di questa impressione, è una sorta di fatalità dell’amore, un fascino che fa dire che ci si ritrova “innamorati senza saperlo”, perché l’amore è più forte di noi, talmente più forte che Dio stesso ne sarà vittima sulla croce:
Amare, per prima cosa è essere attratti, sedotti, catturati. Il primo atto libero e meritorio che viene chiesto a noi, è di cedere a questa seduzione, a questa attrazione, lasciarsi prendere, di lasciarsi “possedere”.
Marie-Dominique Molinié (1918-2002) Ritiro predicato nel 1969
Che si tratti di matrimonio, di vita consacrata o di qualunque altra relazione, il punto di partenza dell’amore è questa seduzione, o se si preferisce, questa vocazione. E questa, a poco a poco, ci insegna ad amare e a superare i sentimenti: la cattura diviene relazione, dono di se stessi, la cui autenticità diventa verificabile tramite i suoi frutti, il più chiaro dei quali sarà la messa in pratica concreta del Vangelo, perché «l’amore di Dio consiste nell’osservare i suoi comandamenti» (1Gv 5,3). E tra questi comandamenti il più significativo è quello dell’amore fraterno: «Se uno dice “Io amo Dio”, e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede»(1Gv 4,20).
All’atto pratico, questo ribaltamento corrisponde alla grazia che si sostituisce alla natura, man mano, che si costruisce la relazione:
La natura cerca il proprio interesse e calcola il bene che può ricevere dagli altri. La grazia non considera per nulla ciò che le può causare vantaggio, ma quello che può essere più utile a molti.
La natura à avida e riceve ben più volentieri di quanto non dia; ama quello che le è proprio e particolare. La grazia è generosa e non si riserva niente; evita la singolarità, si contenta di poco e crede che è più felice nel dare che nel ricevere…
La natura agisce in ogni cosa per profitto e per un vantaggio proprio; non sa fare niente gratuitamente, ma obbligando, spera di ottenere qualche cosa di uguale o di migliore, favori o lodi; vuole che si ritenga per molto tutto quello che fa e tutto quello che da. La grazia non vuole niente di temporale, non domanda altra ricompensa che Dio solo e non desidera cose caduche, anche le più necessarie; desidera solo ciò che le può servire per acquisire i beni eterni…
La natura riferisce tutto a se stessa, combatte, discute per i suoi interessi; la grazia riconduce tutto a Dio, da cui tutto ha origine; essa non si attribuisce alcun bene, né presuppone di se stessa con arroganza, non contesta per niente, non preferisce per niente la sua opinione a quella degli altri; ma sottomette tutti i suoi pensieri e tutti i suoi sentimenti all’eterna sapienza e al giudizio di Dio …
Più dunque la natura è indebolita e sconfitta, più la grazia si espande in abbondanza; e ogni giorno, tramite nuove effusioni, ristabilisce dentro l’uomo, l’immagine di Dio.
Tommaso da Kempis (1379-1471),L’imitazione di Cristo, III,54
In breve “amare, è donare tutto, donare tutto se stesso (s. Teresa del Gesù Bambino). Gesù sulla croce è stato vittima di questa fatalità dell’amore, oltre qualunque sentimento.
Questo ci conduce alla seconda parte della domanda: bisogna allora non fidarsi dei sentimenti? Se l’amore non è nei sentimenti, suscita dei sentimenti, altrimenti la vita sarebbe troppo triste! Gesù aveva dei sentimenti nei confronti di Marta, Maria, Lazzaro, Maria Maddalena e tanti altri, perché li amava:
Se consideriamo il Cuore di Gesù Cristo, niente è più dolce, niente è più misericordioso. Mai creatura fu come lui, né sarà simile a lui per dolcezza… Tra tutti gli uomini, il divino Emmanuele ebbe un Cuore tenero alla pietà, e mai nessuno come lui seppe rispondere agli affetti del cuore.
Riccardo di S. Vittore (†1173), Trattato sull’Emmanuele, II, 21
Dunque, non regoliamo la nostra vita spirituale sui nostri sentimenti, ma non abbiamo paura di averne, sapendo bene che l’amore non misura né si verifica tramite questi:
Non si tratta di smorzare la nostra sensibilità, attenuandola, né distruggendola come faremmo per un vizio, ma facendone un uso coraggioso per renderci più amici di Dio e più caritatevoli verso gli uomini. Quello che bisogna evitare è l’errore frequente di biasimare i sentimenti, e non gli inconvenienti che ne conseguono per non aver corrisposto alla grazia.
William Faber (1814-1863), Conferenze spirituali
La storia della santità ci mostra a qual punto l’amore di Dio, ben lontano dallo smorzare i sentimenti, ha provocato le più belle storie d’amore “umano”, o piuttosto ha portato al grado divino quello che chiamiamo tristemente amore semplicemente umano; se si pensa all’affetto di Francesco di Sales e di Giovanna di Chantal, o molto semplicemente all’affetto tra la Vergine Maria e s. Giuseppe:
Lungi dal distruggere gli affetti della sposa e della madre, l’amore di Dio li ringiovanisce e li vivifica; e così ci è rivelato questo ineffabile mistero, che il distacco non è l’insensibilità, e che i veri cuori delle spose, delle madri, delle figlie, sono i cuori delle sante.
(Mons. Bougaud, Su Giovanna di Chantal)
«Le “notti dell’anima” di cui ci parla s. Giovanni della Croce, sono obbligatorie per il progresso della vita spirituale?»
Cominciamo con lo sdrammatizzare queste famose “notti dell’anima”. Giovanni della Croce stesso ne parla come di una “felice avventura” per delle anime scelte che “Nostro Signore vuole mettere in questa notte oscura affinché passino tramite questa, all’unione divina” (Salita del Monte Carmelo, Prologo); se egli ne descrive ampiamente l’aspetto talvolta faticoso nel trattato della Notte oscura, questo è per meglio dirci che se le anime che Dio tratta in questo modo si lasciassero fare, esse non soffrirebbero:
In effetti, anche se è vero che Dio le conduce, esse non si lasciano condurre; e così, di fatto si fa meno cammino poiché esse resistono a colui che le conduce, ed esse non meritano tanto, perché non vi applicano la volontà, e in questo modo esse soffrono di più. In effetti, ci sono delle anime che invece di abbandonarsi a Dio e di lasciarsi aiutare, impediscono piuttosto Dio agendo senza discernimento o opponendosi a lui, divenute simili ai bambini che, mentre le loro mamme vogliono portarli in braccio, strepitano e piangono, intestardendosi a camminare da soli, sulle loro gambe: questo fa sì che non si vada avanti per niente, e se si avanzasse, sarebbe a passo di bambino.
S. Giovanni delle Croce (1542-1591), Salita del Monte Carmelo, Prologo
Queste notti sono anzitutto delle crisi di crescita, e in questo senso, sì, sono obbligatorie per progredire; ma crescere non fa male, e l’atteggiamento giusto è di lasciar fare a Dio, che ci amerà sempre più di quanto noi ameremo noi stessi: quali che siano le nostre prove, “siate certi che quello che il Signore vi invia è un messaggio d’amore e di pace, sebbene ciò sembri una guerra crudele e un castigo” (S. Giovanni d’Avila, Lettera 14). Allora,
Nessuna riflessione, o il meno possibile, su questa sorta di stati; sforziamoci piuttosto di dimenticare noi stessi e il nostro stato, ma con quella dimenticanza d’amore che parte dall’abbandono derivato dal puro amore… Credo di poter assicurare queste povere anime spaventate: mai la loro salvezza è stata più al sicuro come quando, in questo stato in cui tutto fa loro paura, con un amore di preferenza per Dio rispetto a loro stesse, acconsentono ad abbandonarsi al suo beneplacito.
Alexandre Piny (1640-1709), La chiave del puro amore, 1680
In effetti,
È certo che le tenebre spirituali sono destinate al riposo così come quelle materiali… Poiché queste tenebre sono un tempo di riposo, le anime che vi sono dentro, devono restare in pace, finché il divino sole, che le ha causate con la sua assenza, le fuga con la sua venuta tutta nuova… Una sola cosa deve bastare a questa anima, sapere che si è totalmente abbandonata nelle mani di Dio, che gli ha consegnato tutti i suoi interessi, e non gli resta altro se non divenir quel che a lui piacerà, senza volere vedere niente per sé nelle sue vie, né di peggio, né di meglio, né di più perfetto.
Mauro di Gesù Bambino (1617-1690), teologia cristiana e mistica, cap 20
Tutto il dramma viene dal fatto che, in seguito al peccato originale, noi crediamo di sapere meglio di Dio cosa ci conviene:
Chi si occuperà dunque della mia salvezza? – E che! Ignorate anche che il modo più sicuro di ottenerla è quello di lasciarne interamente la cura a Dio, per occuparsi solo di lui?
Jean Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 103
Infatti,
Non è cercando delle certezze che si ha certezza; non ci si salva volendo solo assicurazioni; ma tutto quello che possiamo ottenere in termini di certezze l’abbiamo in Dio tramite l’abbandono a lui, perché lui stesso è la vera salvezza, la luce e la vita, salvezza, luce e vita che si posseggono e si possono avere solamente in lui.
Magdeleine de Siry († 1738), Ritiro del 1708
E per questo abbandono Dio deve strapparci a noi stessi, come il pompiere deve per prima cosa stordire colui che sta annegando per evitare che si dimeni; e questo sradicamento ci fa male, perché teniamo alla schiavitù del nostro peccato, e nei primi tempi, almeno, lo sentiamo come un vuoto, una notte. Eppure, insieme all’angoscia di questo sradicamento, la notte porta una felicità segreta della presenza di Dio, e questo permette all’anima di andare avanti a tentoni, pur tuttavia nella certezza, “senza altra luce nel guidarmi che quella che bruciava nel mio cuore” (s. Giovanni della Croce, Poema della Notte oscura):
Il santo stesso è sbigottito dalla stranezza di Dio. Eppure, ama e gode di essere preso da Dio…Dio non spezza l’anima per il piacere di romperle le ossa. Egli vuole solo rendere possibile questa libertà di cui l’anima deve godere per essere capace di ricevere nella gioia ogni azione divina in lei. Quello che spezza l’anima non è altro se non l’amore di Dio che vuole al suo cospetto, come partner del suo amore, un essere libero come lui.
Yves Raguin (1912-2000), Cammino di contemplazione, 11
Aggiungiamo che, se ogni uomo è chiamato alla crescita spirituale, l’intensità delle notti non sarà la stessa per tutti: nella loro forma estrema, riguardano quelli che Dio chiama ad una unione particolarmente stretta con lui. L’intensità dipenderà anche dalle zone più o meno profonde della nostra vita mentale che la luce di Dio fa passare da un funzionamento naturale a quello sovrannaturale: così classicamente si distingue la notte dei sensi, avvertita come una perdita del gusto che provavamo nell’esercizio della nostra sensibilità, dalla notte dello spirito, avvertita come una perdita dei sensi che mettevamo nell’esercizio naturale delle nostre facoltà superiori, quelle che ci permettono di conoscere e volere. Ma per il momento, riteniamo semplicemente che se queste notti dell’anima sono inevitabili, esse sono penose solo in proporzione alla resistenza che noi vi opponiamo, e la loro intensità dipende contemporaneamente dalle disposizioni nelle quali Dio ci trova, e dal punto verso il quale vuole condurci.
«La devozione al Sacro Cuore, con ciò che evoca di sensibile e di sentimentale, non è in concorrenza, se non addirittura in contraddizione, con la fede pura e semplice alla quale i santi non cessano di invitarci?».
Riconosciamo che abbiamo tutti visto troppe immagini del Sacro Cuore, e che non abbiamo affatto voglia di somigliare a questo Gesù desolato con il cuore insanguinato. E tuttavia, «abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi» (1 Gv 4,16): ecco perché venti secoli di devozione cristiana si riassumono in venti secoli di devozione al Sacro Cuore, «questo Cuore che ha tanto amato gli uomini, da non risparmiare niente fino ad esaurirsi e consumarsi per testimoniare loro il suo amore» (Gesù a Margherita Maria Alacoque nel giugno del 1675).
Ma se tutti gli innamorati del mondo associano il cuore ai sentimenti e alla tenerezza, non è questo principalmente nella tradizione cristiana; il cuore biblico, è prima di tutto la forza, l’energia, la volontà:
Ecco la tempesta del Signore, il suo furore si scatena; una tempesta travolgente turbina sul capo dei malvagi, Non cesserà l’ira ardente del Signore, finché non abbia compiuto e attuato i progetti del suo cuore … (Ger 30, 23-24).
Tuttavia, dopo che Dio si è fatto uomo, “il nostro Dio è un Dio dal cuore umano” (s. Francesco di Sales), e questa forza e questa volontà vengono a noi tramite il cuore di Gesù al servizio dei suoi fratelli: «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Ma io che sono il Signore e maestro ho lavato i piedi a voi…» (Gv 13,13). Da questo cuore “mite e umile” di Gesù (Mt 11, 28) scaturirà per noi la vita eterna: «uno dei soldati gli aprì il fianco e subito gli uscì sangue e acqua» (Gv 19, 34), acqua del battesimo e sangue dell’eucarestia, comprenderà secondo tutta la Tradizione, che irrigheranno tutta la vita cristiana, perché.
Sulla sua croce il suo cuore bruciava come un braciere, come una fornace, le cui fiamme si espandono da ogni parte. È così che Gesù era infuocato d’amore per tutta la terra.
Maestro Eckhart (1260-1327), Sermone sulla Passione
Ben lontano dall’opporsi alla fede pura, la devozione al Sacro Cuore la suppone, perché mette in gioco il mistero stesso dell’Incarnazione, ricordandoci che ogni preghiera cristiana si fonda su Cristo nella sua umanità:
In questa devozione, si rende, per l’esattezza, onore alla persona stessa di Gesù. In effetti, non diciamo che si onora il Cuore materiale di Gesù ma Gesù stesso. E quando diciamo che si onora il Cuore di Gesù, questa locuzione non significa affatto che si onora questo Cuore per se stesso, ma che in lui è onorata la persona.
Felix Anizan (1878-1944), Cos’è il Sacro Cuore?
Così l’espressione stessa del “Sacro Cuore” ci porta alla sorgente dell’amore di Gesù per noi:
È questo Cuore che è il primo principio di ogni bene e la sorgente originaria di tutte le gioie e di tutte le delizie del Paradiso. È da lì, o mio dolcissimo Gesù, cioè dal tuo divin Cuore, come da una sorgente prima, principale e inesauribile, che scaturisce nel cuore dei figli di Dio ogni felicità, ogni dolcezza, ogni serenità, ogni riposo, ogni pace, ogni gioia, ogni contentezza, ogni soavità, ogni felicità e ogni bene… Oh! Quale vantaggio attingere in questa divina sorgente ogni sorta di bene! Quale felicità bere ed essere inebriato dalle acque deliziose di questa fontana di santità…! Fa’ scorrere in abbondanza, dunque, nel più intimo del mio cuore, o Dio d’amore, il buon odore dei tuoi divini profumi, che sono le virtù ammirabili del tuo santo Cuore.
S. Jean Eudes (1601-1680), Il Cuore ammirabile, libro XII, cap XVIII
Questo tocca l’essenza stessa della vita cristiana; là dove molto spesso restiamo sul piano morale della virtù e della generosità, il Sacro Cuore ci ricorda che il Vangelo è prima di tutto una dichiarazione d’amore, e che essere cristiani è un affare di cuore tra Gesù e noi:
Vedete, o mia Filotea, è certo che il cuore del nostro caro Gesù vedeva il vostro dall’albero della Croce, e l’amava, e per questo amore otteneva tutti i beni che mai voi potreste avere …Ah, mio Dio, dovremmo profondamente ricordarci bene questo: è possibile che io stato amata e così dolcemente dal mio Salvatore, che pensava a me in modo particolare; proprio come se non vi fosse stata altra anima al mondo a cui pensare?
S. Francesco di Sales (1567-1622), Introduzione alla vita devota, V, 14
Ecco perché:
O figlia mia! Se guardate questo cuore è impossibile che non vi piaccia; perché questo è un cuore così dolce, così soave, così accondiscendente, così innamorato delle creature fragili, purché esse riconoscano le loro miserie, così colmo di grazia verso i miseri, così buono verso i penitenti! Eh! Chi non amerebbe questo Cuore regale, così paternamente materno verso di noi?
S. Francesco di Sales (1567-1622),Lettera a una religiosa, 18 febbraio 1618
Offrendoci così all’amore di Cristo, andando a bere a questa sorgente, i fiumi di acqua viva promessi da Gesù sgorgheranno proprio dal nostro cuore, rendendoci capaci d’amare come egli ci ha amati:
È una grande cosa che l’amore, se risale al suo principio, ritornando alla sua origine e rituffandosi nella sua sorgente,vi attinga senza sosta ciò di cui necessita per fluire continuamente.
S. Bernardo (1090-1153), Sermone 83 sul Cantico
Quindi,
Avvicinati, o anima mia, a questo Cuore molto nobile, a questo Cuore nascosto, a questo Cuore silenzioso, a questo Cuore divino che ti apre le sue porte. Eletta da Dio, penetra in questo Cuore; perché resti fuori? La sorgente di vita è aperta per te, la via della salvezza, l’arca celeste da cui emana un profumo abbondante. Ecco la sorgente del fiume divino che placa la sete delle anime arse.
Tommaso da Kempis (v.1380-1471), Preghiere e meditazioni sulla vita di Cristo
«I testi di Semi ci invitano spesso a vivere secondo il “beneplacito” di Dio e a seguire le sue “ispirazioni”. Ma come conoscere questo beneplacito, al di là dei dieci comandamenti? Come sapere, per esempio, se una decisione, come quella di fare un ritiro durante le mie vacanze, quando nessun comandamento me la impone chiaramente, sia proprio “ispirata” da Dio?».
Bisogna distinguere in effetti, tra i comandamenti di Dio e il suo beneplacito, che è l’oggetto delle sue ispirazioni, o ancora dei suoi consigli. Paragoniamo la nostra relazione con Dio alla vita comune di due sposi. Vivere il matrimonio suppone il rispetto delle regole che si impongono a tutti (indissolubilità, monogamia, etc,…), ma se queste regole sono necessarie, esse non sono sufficienti: non soltanto un buon marito osserverà il 6° comandamento di Dio non tradendo sua moglie, ma cercherà sistematicamente di farle piacere, per esempio portandola ad un ristorante il giorno del suo compleanno. Ma questo, nessuna legge lo imporrà mai, e fortunatamente, perché è proprio il fatto di non esservi obbligo, il fatto di volerlo per amore, che darà il fascino a quella serata di compleanno. Lo stesso vale per il beneplacito di Dio:
Non siete obbligato per l’osservanza rigorosa della Legge a dare a tutti i poveri che incontrate, ma solamente a quelli che ne hanno un grandissimo bisogno; ma non lasciate per questo, secondo il consiglio del Salvatore, di dare volentieri a tutti gli indigenti che troverete, per quanto la vostra condizione e le vere necessità dei vostri affari lo permetteranno.
S. François di Sales (1567-1622), Trattato sull’Amore di Dio, VIII, IX
È obbligatorio vivere secondo il beneplacito di Dio? L’episodio, nel vangelo, del giovane ricco mostra chiaramente che si può andare in cielo senza di esso: «Maestro cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?» Gesù risponde: «Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti!». Quindi, riprende Gesù «se tu vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, e dallo ai poveri, e seguimi!» (Mt 19,16ss). Dalla vita eterna (= andare in cielo) alla perfezione, c’è tutta la differenza che corre tra l’osservanza corretta della legge, e scegliere, per amore, il beneplacito di Dio. La domanda allora è: vi basta essere in regola con il maestro, o volete condurre la vita comune con colui che vi dichiara il suo amore nel Vangelo?
Questo ci mostra qual è scopo della vita cristiana, quale è la sua perfezione: non andare in cielo, ma seguire Gesù perché è Gesù, molto semplicemente. Questo non è obbligatorio, non saremo puniti se ci accontenteremo di non uccidere né di rubare, ma non avremo conosciuto la felicità di condividere tutto con lui, la felicità di essere cristiani.
Allora, come individuare il beneplacito di Gesù, poiché questa è la sua domanda? Riprendiamo l’esempio dei due sposi. Se ciascuno cerca non il minimo, ma il massimo di quello che farà piacere all’altro, con il passare del tempo, il loro amore si approfondirà, e ciascuno indovinerà, comprenderà, riconoscerà sempre meglio i desideri del coniuge, o se lo si preferisce, il suo beneplacito. La stessa cosa vale per la nostra relazione con Gesù: aldilà del comandamento “Non rubare”, il suo discepolo comprende sempre meglio il suo consiglio “Beati i poveri”. Qualche ora prima di tradirlo, s. Pietro credeva di avergli donato tutto, e si dichiarava pronto a seguirlo fino alla morte. E non è quello che abbiamo detto il giorno del nostro battesimo? Ci resta da scoprire, poco a poco, come s. Pietro, che amare Gesù non è ammirare la sua dottrina e i suoi miracoli, ma «lasciarci portare dove non vogliamo» ( Gv 21,18). Questo è quello che s. Francesco di Sales chiama “devozione”, la quale “ci provoca a fare prontamente e affettuosamente il maggior numero possibile di opere buone, anche se non sono in alcun modo comandate, ma soltanto consigliate o ispirate”. (Introduzione alla vita devota, I,1).
Passare dall’osservanza dei comandamenti a quella del beneplacito di Dio, suppone allora una familiarità con lui che presuppone a sua volta tutto il tempo e tutta l’attenzione all’ altro che si investe in una relazione autentica di amore. Ecco in cosa l’orazione è il motore del progresso di una vita realmente cristiana: è nella ricerca dell’intimità con Dio che la caratterizza, che si comincia a percepire le preferenze di Dio per noi; le cose insignificanti diventano significative, proprio come gli sposi trasformano sempre più le piccole cose in espressione del loro amore. Ma poiché si tratta ogni volta di una storia unica, non c’è una regola assoluta per determinare teoricamente quello che Dio preferisce: l’uno coglierà in modo più specifico la povertà di Cristo, e questo darà un Francesco di Assisi, un altro percepirà la sua carità fraterna, e questo darà un Vincenzo de Paoli, etc…
Dio comanda, nella creazione, alle piante di portare frutto, ciascuna secondo il suo genere; così comanda ai cristiani che sono le piante vive della sua Chiesa, che producano frutti di devozione, ciascuno secondo la sua qualità e vocazione. La devozione deve essere differentemente esercitata dal gentiluomo, dall’artigiano, dal maggiordomo, dal principe, dalla vedova, dalla donna nubile, d quella sposata; e non solo questo, ma bisogna adattare la pratica della devozione alle forze, agli affari e ai doveri di ciascuno.
S.François de Sales, (1567-1622), Introduzione alla vita devota, I, 3
Allora come sapere se il beneplacito di Dio è che io faccia un ritiro durante le mie vacanze? Domandandoglielo, cioè mettendomi in orazione, in modo tale da non decidere in funzione di un meglio puramente teorico e che in fondo, sarebbe la propria preferenza, ma in funzione del desiderio di Dio stesso che non manca di parlare a coloro che lo ascoltano. E così questa o quella decisione mi apparirà coerente all’interno della volontà di seguire Gesù, mentre prima non mi diceva niente; questo a motivo dell’illuminazione (la via “illuminativa” è quella del progresso nella contemplazione), o se si preferisce “dell’ispirazione” di Dio.
«Lei ci invita spesso a non scoraggiarci davanti al tedio, alle distrazioni e ad altre aridità dell’orazione; ma nonostante le buone intenzioni non noto nessun miglioramento, e dopo anni, io sono sempre così stanco, distratto e arido…: non è piuttosto segno che non sono fatto per questo?».
Dopo anni, dite? Ma se provate a pregare da anni, questa è la prova che siete fedeli alla preghiera da molti anni! Se non foste fatti per questo è da molto che non ne parlereste più. Allora, perché questo muro invalicabile delle “notti” dell’anima? Pregare è voler pregare, e nient’altro, perché “non sappiamo come pregare in modo conveniente” (Rm 8, 26). Adesso immagino l’obiezione: «Sì, ma anni di distrazione non sono anni di preghiera!». Proprio al contrario: sono preghiera allo stato puro, sono quei “gemiti inesprimibili dello Spirito” di cui parla s. Paolo a proposito dei figli di Dio che apprendono a parlare con il Padre. Non dubitate. Poiché quelle ore di fatica non vi procurano alcuna soddisfazione, è chiaro che vi siete fedeli solo per amore di Dio, e quello che vi sembra un invito a rinunciare alla vostra preghiera, testimonia, al contrario, che essa è veramente sovrannaturale:
Contemplare Dio non è pregare con facilità, né slanciarsi con agilità verso di lui, benché ciò sia una cosa eccellente. Gli amici intimi di Dio ritengono di essere assolutamente niente, di non essere capaci di nulla, né di valere alcunché davanti alla Maestà infinita di Dio: ecco quello che sentono e sanno, ecco la loro fede. E la cosa importante nell’intero arco della vita spirituale è di abbassarsi e di ritenersi niente davanti a Dio e a tutte le creature.
Beata Maria Maddalena Martinengo (1687-1737), Massime, XXII, 12-13
La vostra difficoltà viene, infatti, dalla trasparenza di questa fede: più essa è pura, meno si nota. La luce e l’amore di Dio ci arrivano attraverso lei come il raggio del sole si propaga invisibilmente nell’atmosfera quando non è fermato dal pulviscolo:
Da ciò consegue che la contemplazione è chiamata “teologia mistica”, cioè “sapienza segreta di Dio”. In effetti, è segreta anche per l’intelletto che la riceve, ecco perché s. Dionigi la chiama “raggio di tenebre”.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), Salita del Monte Carmelo, II, 8
Se accettaste questa regola molto semplice, la difficoltà sparirebbe; essa è dovuta al fatto che dopo il peccato originale ci irrigidiamo sulle impressioni che le cose suscitano in noi, il che ci svia dalla loro realtà originale. Questo fa sì che preferiamo una preghiera sentita e riuscita, a una preghiera vissuta in tutta trasparenza. Per la decima volta, forse, riportiamo questa osservazione cruciale di s. Francesco di Sales:
Quando diciamo che non possiamo trovare Dio, che ci sembra tanto lontano da noi, vogliamo dire che non possiamo avere un sentimento della sua presenza. Ho rilevato che parecchi non fanno per nulla differenza tra Dio e il sentimento di Dio, tra fede e sentimento della fede; ciò è un grandissimo difetto.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Veri intrattenimenti spirituali, IX
«Si, ma anche questo è poco facile: come distinguere tra una luce invisibile e una pura e semplice assenza di luce? Cosa prova che l’anima stanca e distratta non sia semplicemente pigra?».
Il fatto stesso che riprenda senza sosta il suo slancio per non restare ferma lì. Un vero pigro non farebbe la domanda o almeno non a lungo, non preoccupandosi affatto dell’orazione. Inoltre, così come il raggio invisibile del sole non produce meno il suo effetto di calore e luce là dove è fermato, facendo sbocciare i fiori e maturare i frutti, l’uomo di fede si rivela sempre essere un uomo di carità. La domanda che dovete fare a voi stessi quando la preghiera sembra bloccata nella vostra vita, non è tanto di sapere come controllare gli stati della vostra anima (cosa che, in fondo, concerne solo il “sentimento di Dio” e produrrebbe al massimo solo una concentrazione mentale tutta naturale), ma di verificare la vostra fedeltà ai vostri doveri di stato, la vostra precisione nel vivere il vangelo, la vostra generosità nel servire il prossimo. In breve, occorre domandarsi se si sta crescendo nell’amore per Dio e per i fratelli.
Bisogna allora volere la preghiera più noiosa possibile? No certamente; ma poiché la nostra parte nella preghiera è quella di formare al meglio l’atto di fede che ci pone di fronte a Dio per ascoltarlo e parlargli, è a questo che bisogna sempre ritornare. Formare un atto di fede, vuol dire tentare di conoscere quel Dio che cerchiamo di amare. La preghiera di cui vi lamentate, è piena d’amore, però manca di conoscenza, manca di luce, come una stufa si spegne quando manca il tiraggio. Quando la vostra orazione è sul punto di spegnersi, mettete allora un poco di ossigeno, aumentate il tiraggio riprendendo molto dolcemente la Parola di Dio, una lettura evangelica fatta molto lentamente, o un libro di raccoglimento (cfr. Semi n° 135), senza rimproverare voi stessi di trovarvi probabilmente un certo agio: è la stufa che ritrova il suo regime. Forse sentirete che questa preghiera più “fluida” vi priva di qualcosa che non avevate notato durante la vostra aridità: una segreta, ma evidente presenza di Dio nelle tenebre. Allora, non cercate più di aumentare il tiraggio, e ritornate alla vostra secchezza ma questa volta in modo rilassato e senza preoccuparsi della poca fiamma. Se, però, non notate niente di simile, continuate la vostra lettura, aumentando poco a poco il tiraggio, alternando momenti più attivi ad altri più passivi nella vostra orazione, e finirete per giungere a questa preghiera permanente che indicherà che avrete trovato l’equilibrio che il Signore vuole per voi:
O fiamma viva d’amore, che ferisci teneramente il centro più profondo dell’anima, …non solo tu non sei più oscura come prima, ma tu sei la luce divina del mio intelletto, tramite cui posso guardarti; e non solo non fai più venir meno la mia debolezza, ma sei piuttosto la forza della mia volontà, con la quale posso amarti e gioire di te, tutta convertita in amore divino; non sei più prova e oppressione per la sostanza della mia anima, piuttosto sua gloria, sua delizia, e suo benessere.
S. Giovanni della Croce, Fiamma viva, I, 26
«La ricerca della solitudine nella vita contemplativa non è forse una mancanza di carità verso i nostri fratelli?».
«Dio è amore» (1Gv 4,8), non c’è altra carità al di fuori della sua. Il contemplativo non cerca la solitudine, ma ricerca questo Dio – carità. La vita che conduce non lo separa dai fratelli, ma gli permette di attingere alla sorgente, la carità con cui li disseterà: «nell’azione la parte dell’uomo è la contemplazione» (Mons. Combes). Lungi dall’essere una fuga, questa contemplazione è dunque la conditio sine qua non della comunione fraterna: il monaco è “solitario, ma non isolato” dice quell’ esperto della solitudine che fu Gugliemo di Saint-Thierry (1085-1148), perché «colui con cui Dio si trova, non è mai meno solo di quando è solo!».
Ma forse questa comunione fraterna non è ciò che ci aspettiamo dalla carità? Forse preferiamo le azioni più visibili e apparentemente più efficaci? In effetti, siamo molto spesso vittime della confusione tra amore e generosità, come se l’amore consistesse nel distribuire merce, e come se la merce potesse renderci felici. Ma no! Quando si ama, “è il gesto che conta”, si dice spesso, e non il contenuto del gesto. Il regalo che ci è donato, vale il prezzo del suo acquisto, ma l’amore con il quale ci viene donato non è né misurabile né quantificabile: è infinito, inesauribile, non producibile, in breve, è Dio, ed è lui che rende felici. Sai bene che la tua fidanzata preferirà sempre un mazzolino di violette raccolte solo per lei, a una splendida azalea offerta dal suo capo per il vostro fidanzamento. Perché? Perché quel mazzolino, prima di essere un mazzo di fiori, rappresenta proprio te. O ancora: un bambino preferirà la semplice torta di compleanno fatta dalla sua mamma, alla più sontuosa festa che potrebbe offrirgli uno sconosciuto: ciò che vuole, ciò che lo renderà felice, ciò che egli desidera al di sopra di tutto, non è il contenuto del piatto, ma quello che esce dal cuore di sua madre.
Interroghiamoci sulla nostra esperienza dell’amore: una sorta di attrazione amorosa proveniente dal cuore di colui che amiamo ci calamita verso di lui facendoci desiderare di essere una sola cosa con lui, provocando un’attrazione simmetrica nel nostro cuore, come due calamite si attraggono irresistibilmente l’una verso l’altra fino ad attaccarsi l’una all’altra. Colui che ama percepisce colui che è amato come una sorgente inesauribile di felicità, sorgente che il filosofo chiamerà “persona”, e di cui il teologo dirà essere a immagine di Dio. E anche se la torta di compleanno è un po’ bruciacchiata, anche se se il nostro mazzolino di violette e qualunque altra opera nostra resta modesta, questa armonia delle persone in Dio è proprio quello che noi cerchiamo quando parliamo d’amore:
Molti insistono nel dire che amare non è solamente questione di sentimenti, che l’amore effettivo consiste nel fare la volontà di Dio. Questo, infatti, è il frutto più sicuro dell’amore, il segno tramite cui lo riconosceremo, e che si esercita nella carità fraterna; ma il segno dell’amore, non è l’amore stesso … Amare, non è in primo luogo essere eroici nel disinteresse: al contrario, questa perfezione viene soltanto alla fine. Amare, per prima cosa è essere attirati, sedotti, avvinti. Il primo atto libero e meritorio che ci è chiesto, è di cedere a questa seduzione, a questa attrazione, lasciarsi prendere, “cascarci” … lasciarsi fare.
Marie-Dominique Molinié (1918-2002), Ritiro predicato nel 1969
“Cascarci”, “lasciarsi fare”: non si ama mai apposta! Si è sempre vittima dell’amore: Dio stesso ne è morto sulla croce.
In realtà, la nostra insistenza sulle opere di amore più che sull’amore stesso, proviene spesso dal bisogno di rassicurarci, dovuto a questa paura di Dio e a questa paura d’amare (il che è la stessa cosa, poiché Dio è amore!) che abita in noi dal peccato originale. Ad ingannarci è il fatto di pensare che Dio deve essere piuttosto soddisfatto delle nostre buone opere, come se occorresse che Dio fosse contento di noi per amarci. In realtà, questa pretesa generosità nasconde il più sottile amor proprio, e ben lungi dall’unirci a Dio e ai nostri fratelli, ci isola da loro radicalmente:
Gli sforzi più gravosi che noi facciamo, sono a volte disperati ed esasperanti, perché procedono molto poco dall’amore, e molto di più dalla volontà di convincere se stessi, che si ama: ciò equivale a voler fare delle opere di amore senza amare. Si cerca di imitare i santi, ci si “gonfia” (come la rana che vuole farsi grossa come il bue) e chiamiamo ciò la perfezione cristiana o religiosa.
Idem
Facciamo ancora un passo prima di concludere. Se Dio è carità, Dio è Trinità. Amare suppone qualcuno che dona, qualcuno che riceve e qualcuno che è contemporaneamente donato e ricevuto. Abbiamo riconosciuto il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. La contemplazione non è un faccia a faccia con Dio, ma un entrare nella sua famiglia, entrare nella comunione dei santi, che è già il cielo sulla terra:
[Dio parla]:I santi partecipano al bene che io possiedo in me stesso, ciascuno secondo la sua misura, e questa misura è quella dell’amore con il quale sono venuti a me. Perché sono rimasti nella mia carità ed in quella del prossimo, e sono uniti vicendevolmente da una carità comune a tutti e particolare a ciascuno, che proviene da un’unica carità, ciascuno gioisce e gode di partecipare al bene di tutti che possiedono insieme…
Questo bene particolare non è solo per colui che lo possiede: tutti gli abitanti del cielo, miei figli diletti, e tutti gli angeli vi partecipano; quando un’anima giunge alla vita eterna, tutti partecipano al suo bene, come essa partecipa al loro. Non è perché la sua capacità o la loro, aumenti o si riempia di più, ma perché provano una felicità, una gioia, un giubilo, un’allegrezza che si rinnovano alla vista di quell’ anima. Vedono che per la mia misericordia, si è elevata da terra nella pienezza della grazia, e così esultano in me per il bene di quell’ anima, ricevuto dalla mia bontà. E quell’anima gioisce in me e nelle anime dei beati, vedendo e gustando in loro la dolcezza della mia carità.
S. Caterina da Siena (1347-1380), Dialoghi, XLI
«Questa lettura spirituale (o lectio divina), che ci raccomanda tanto, è proprio necessaria? La Santa Vergine o la stessa Teresa di Lisieux, per non parlare del curato d’Ars, non ne facevano tanta! E la maggior parte dei suoi lettori non ha fatto studi necessari per leggere gli autori che presenta o, molto semplicemente, non ha il tempo di leggerli perché deve lavorare o dedicarsi ai propri figli…».
Ma che si ricorra alla lectio divina o alla lettura spirituale, la nostra intenzione, praticandole, è di ricevere la Rivelazione, di lasciare che la Parola di Dio si formi in noi, “imprimendosi” allora nella nostra intelligenza, direbbe san Tommaso, rendendola capace di comprendere e di dire con le nostre parole di uomini questa Parola di Dio. Così man mano che leggiamo, comprendiamo ed enunciamo questa Parola, «la Tradizione che viene dagli Apostoli progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo. In effetti, cresce la percezione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro, sia con l’intelligenza interiore data da una più profonda esperienza delle realtà spirituali» (Dei Verbum, 8).
Si vede altresì che la lettura spirituale è strettamente legata all’orazione; ne è costitutiva, poiché è, essa stessa, che introduce in noi quello che mediteremo e poi contempleremo: «Cercate leggendo, e troverete meditando; bussate pregando, e vi sarà aperto con la contemplazione. La lettura porta il nutrimento solido alla bocca, la meditazione lo mastica e lo rimugina, la preghiera ne dona il gusto, e la contemplazione è la dolcezza stessa che rallegra e ristora» (Guigo il Certosino). Tramite la lettura spirituale, riceviamo la Parola di Gesù, non ancora nel silenzio che Dio abita nel più profondo della nostra anima, ma già negli strati superiori di quest’anima, nella nostra sensibilità e nella nostra intelligenza, tramite le parole, le frasi e i libri, nei quali questa parola s’incarna per divenire parola umana. In mancanza di queste parole e di questi libri, la nostra orazione girerebbe in tondo perché questa Parola di Dio resterebbe incomprensibile:
Quando Dio dona a un’anima i primi favori sovrannaturali, ella né li comprende né sa come comportarsi. Soffrirà crudelmente, a meno di trovare un maestro che comprenda il suo stato; e c’è una grande felicità per quest’anima nel vedere il quadro fedele di ciò che prova; riconosce la strada dove Dio la mette, e vi cammina con sicurezza.
S. Teresa d’Avila, Libro della Vita, cap. 14
“Trovare un maestro che comprende il suo stato, vedere il quadro fedele di quello che (l’anima) prova”: ecco esattamente il servizio che rende la lettura spirituale. Permette di “leggere” quello che Dio scrive in noi nell’orazione, come si legge una mappa, e allora, “l’anima cammina con sicurezza”. E in ciò « cosa vi è di tanto straordinario, poiché è lo stesso Spirito che ha dettato le Sacre Scritture, e che le espone e le commenta in un’anima pura per la sua consolazione?» (Walter Hilton, ibidem).
Certamente, si opporrà sempre l’ignoranza del santo Curato d’Ars alla scienza di san Tommaso d’Aquino, dimenticando che il primo si è sforzato di studiare per come le sue capacità limitate glielo hanno permesso, e che il secondo avrebbe voluto bruciare le sue opere alla fine della sua vita, tanto aveva coscienza del loro limite di fronte all’immensità della Sapienza di Dio. La lettura spirituale non è una lettura sapiente, ma amante e pregante, per la quale vi sono testi adatti a tutti i temperamenti, a tutti gli stati di vita, a tutti i cervelli: l’Imitazione di Cristo o l’Introduzione alla vita devota possono essere letti da tutti i lettori di Semi, e non sono meno nutrienti di certe pagine un po’ ardue di sant’Agostino. L’importante non è di leggere molto né di leggere cose difficili, ma di trovare le parole che ci faranno imparare “la lingua che Dio parla” (san Giovanni della Croce). E per questo, non si raccomanderà mai abbastanza la lettura regolare e continua di un grande autore, e i più grandi solitamente sono i più semplici. Per quanto riguarda il tempo che ciò richiede, è certamente inferiore a quello che passiamo leggendo il giornale o guardando la televisione: come per tutto quanto attiene l’orazione, la vera questione è quella di una vera decisione sull’orientamento fondamentale della nostra vita, della serietà del nostro battesimo che ci ha impegnato a seguire incondizionatamente Gesù. In questo modo:
Potete essere sicuri che tutti i lumi che la grazia di Dio dona sui testi della Sacra Scrittura o su altri libri ispirati, non sono nient’altro che dolci lettere scambiate tra un’anima amante e Gesù amato, o, per parlare più esattamente, tra Gesù, il vero amante delle anime, e le anime che l’amano.
Walter Hilton, ibidem
La nostra preghiera in che cosa può essere utile ai nostri defunti? Perché “pregare per le anime del purgatorio”? Dio attende la nostra preghiera per far loro misericordia
Il punto più difficile da intendere, è quello dell’efficacia della preghiera: ha qualche influenza sul corso delle cose, per esempio, sulla sorte dei nostri defunti nell’aldilà? Ripetiamo che la preghiera non mira a cambiare la volontà di Dio, ma a cambiare la nostra; o se si preferisce, a entrare in essa: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»: non domandiamo che Dio faccia ciò che vuole, ma di fare noi stessi ciò che il Signore vuole (Cipriano di Cartagine, † 258, Orazione domenicale, 3).
Se non dipende da noi che la volontà di Dio sia quella che è, dipende però da noi che essa si compia o meno, e Dio ha tenuto conto di quello che noi avremmo scelto nella programmazione della sua Provvidenza su noi. Questo salva, contemporaneamente, l’onnipotenza di Dio e la nostra libertà:
Certo, non si otterrà mai niente che Dio non abbia previsto in anticipo; ma quello che i santi ottengono tramite la loro preghiera, è stato proprio previsto da Dio come ottenuto dalla loro preghiera! Nella sua onnipotenza, Egli ha previsto che gli eletti sarebbero stati tali, tramite la loro fedeltà, in modo che essi avrebbero meritato di ricevere con la loro preghiera, ciò che ha disposto di donar loro prima di tutti i secoli… Dio aveva decretato di moltiplicare la posterità di Abramo, tramite il figlio Isacco e tuttavia Isacco ottenne di avere dei figli, grazie alla sua preghiera.
Gregorio Magno († 604), Dialoghi, I, 8
Applichiamo questo alle anime del purgatorio. La volontà di Dio è il suo amore infinito, ed è ancora quest’amore che spiega il purgatorio o lo stesso inferno. Il purgatorio e l’inferno non sono delle punizioni come il cielo non è una ricompensa: tutti e tre sono effetti differenti dello stesso amore, secondo se esso è pienamente accettato, parzialmente accettato, o pienamente rifiutato. Per questo, nel caso che ci interessa:
Non credo che possa trovarsi una gioia comparabile a quella di un’anima del purgatorio, ad eccezione di quella dei santi in paradiso. Ogni giorno questa contentezza aumenta grazie all’azione di Dio su queste anime; azione che va crescendo man mano che si consuma ciò che impedisce quest’azione divina. Questo impedimento è la ruggine del peccato. Il fuoco [che è l’amore stesso!] consuma progressivamente la ruggine, e così l’anima si scopre sempre più all’influsso divino.
Caterina da Genova (1447-1560), Trattato sul purgatorio 2
Così che queste anime non vedono che una cosa sola: la bontà divina che opera in loro (idem). E la nostra preghiera per loro, è ancora questa bontà che noi vogliamo per esse, domandando che la volontà di Dio si compia in loro.
Ora, se siamo gli unici responsabili della risposta che diamo all’amore di Dio, e quindi responsabili del nostro destino eterno, accettare quest’amore, di fatto, ci mette in relazione gli uni con gli altri. Ecco il mistero della comunione dei santi, dove l’amore di ognuno arricchisce quello di tutti: se apro la finestra di casa mia, tutti quelli che la abitano riceveranno la luce e il calore del sole. Pregare è aprire la finestra; l’efficacia della preghiera è quella del sole che illumina e riscalda. Che i miei fratelli siano in questo mondo o nell’aldilà è secondario: in entrambi i casi, pregare è amare; e amare è essere e mettere in relazione.
Nella comunione dei santi, quello che possiamo fare per i nostri defunti è, in fondo, la stessa cosa che essi possono fare per noi: i miei fratelli mi arricchiscono con il loro amore, mentre io li arricchisco con il mio. Così che pregare per i membri della mia famiglia, è ricevere da loro quanto io dono loro, è vivere le mie relazioni familiari nella loro verità profonda: al di là dei legami di sangue, dell’affetto e di una storia condivisa, è l’amore che ci unisce. Essere padre, madre, fratello o sorella, figlio o figlia, è, prima di tutto, un modo di vivere il mistero di Dio, il mistero dell’Amore; ed è questo mistero che prende carne nella mia famiglia terrena. Così anche se la barriera della morte fisica è invalicabile per quello che possiamo vedere o sentire, queste relazioni non ne sono indebolite, perché non c’è altra relazione al di fuori di quella spirituale: due persone che si amano, non si amano di più, se sono a due metri l’una dall’altra, o a due chilometri o a duemila, che si vedano o non si vedano. Infatti, Dio dice:
I santi partecipano del bene che possiedo in me stesso, ciascuno secondo la sua misura, e questa misura è quella dell’amore con il quale sono venuti a me. Poiché sono stati nella mia carità e in quella del prossimo, e sono uniti gli uni agli altri tramite una carità comune a tutti e particolare a ciascuno, che proviene da un’unica carità, ognuno gode e si rallegra di partecipare al bene di tutti che possiedono insieme.
S. Caterina da Siena (1347-1380), I Dialoghi, XLI
Per dare tutta la sua forza alla comunione dei santi, occorre qui ricordare che la Tradizione cristiana tratta in modo differente la sorte dei defunti, secondo se essi sono cristiani o no. San Paolo non dirà mai di un cristiano defunto che è morto, ma che è «addormentato nel Signore», mentre il pagano sarà dichiarato proprio morto. Il cristiano uscito da questo mondo, resta vivo della vita ricevuta al battesimo:«Chi crede a colui che mi ha mandato, dice Gesù, ha la vita eterna, ed egli è passato dalla morte alla vita (Gv 5, 24)». Pregare per i nostri defunti, è amarli dell’amore di cui Dio ci ama: per questo non c’è bisogno di vederli; sono sicuramente più nel cuore di Dio che nel nostro cuore. Raggiungerli è il cammino più breve per essere uniti a loro, giorno e notte, oltre ogni sentimento, ogni idea, ogni immagine, alla radice di quello che essi sono e che noi siamo. E portandoci alla sorgente di ogni vita, la preghiera ci rende sorgente di vita per loro.
In qualche numero di Semi invitate a non fare e a non cercare altro se non la sola volontà di Dio; ma come conoscere la volontà di Dio?».
Guardare Gesù: come fare?
1)Creandoci a sua immagine, Dio ci ha dotato di una coscienza capace di discernere il bene dal male in funzione dei dieci comandamenti, i quali tracciano come un quadro generale della sua volontà, lo schizzo del volto di Gesù in noi. Certo, questa coscienza è un poco confusa dopo il peccato originale, ma quando Mosè enuncia al popolo eletto (Es 34), i dieci comandamenti nel nome di Dio, ogni uomo è capace di riconoscervi la legge universale di un comportamento veramente umano. Anche se tutte le società hanno largamente tollerato l’omicidio, la menzogna o il furto, nessuna ha preteso di costruirsi su di essi né li ha realmente incoraggiati. Questa legge è già la presenza di Gesù in noi: «non sono venuto per abolire, ma per compiere la legge» (Mt 5, 17).
2) In seguito, quando Dio si fa uomo in Gesù, ci rivela in ciò, la maniera umana di essere Dio, la maniera umana di volere quello che Dio vuole. E aldilà dei suoi comandamenti, Dio ci rivela in Gesù le sue preferenze: «Questi è il figlio mio, prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo» (Mt 17, 5). E se Gesù è venuto a compiere la legge, il beneplacito di suo Padre oltrepassa infinitamente le esigenze della legge: «Avete inteso che fu detto: occhio per occhio, dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra. E a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lasciagli anche il mantello» (Mt 5, 38-40). Questo, nessuna legge al mondo potrà imporcelo, si tratta di una decisione libera, fondata sull’invito personale di Gesù a vivere ciò che lui ha vissuto per amore del Padre e dei suoi fratelli: «Il consiglio [= il beneplacito di Dio] è differente dal precetto, in quanto questo obbliga tutti, mentre quello rimanda alla volontà di coloro che lo vogliono seguire» (S. Francesco di Sales). Perciò, se «il comandamento testimonia una volontà piena e pressante di colui che comanda, il consiglio non presenta che una volontà di desiderio; il comandamento obbliga, il consiglio incita solamente» (J.P. Camus). Molto spesso, abbiamo l’impressione di non conoscere la volontà di Dio, perché in realtà abbiamo proprio l’intenzione di rispettare i comandamenti, ma senza avere veramente scelto, tuttavia, questa logica d’amore. E in effetti, dal momento in cui non si vuole vivere ciò che Gesù ha vissuto, Dio non ha nient’altro da dirci che i suoi comandamenti; e gli unici obblighi per non perdere la vita eterna sono di non uccidere né rubare, ma non per questo avremo fatto la sua volontà:
Ci sono molti che dicono: «Io osservo i comandamenti di Dio». Ebbene, sarai salvato, ecco la tua ricompensa. «Io non sono affatto un ladro». Non sarai impiccato, ecco la tua ricompensa…«Io faccio ciò che so che bisogna fare, per essere salvato». Ebbene, avrai la vita eterna, ecco la tua ricompensa; eppure sarai considerato un servo inutile. Invece, la fede coraggiosa non agisce così; essa serve Dio non come un servo mercenario, ma fedele, perché usa tutta la sua forza, prudenza, giustizia e temperanza nel fare tutto quello che sa e conosce essere gradito al nostro Signore e Maestro.
Francesco di Sales, Sermone del 17 febbraio 1622
Senza dubbio direte che anche volendo seguire al meglio Gesù, molte scelte restano possibili, senza che si sappia ciò che Dio preferisce. Sì, ma più amiamo Gesù, meglio distinguiamo le sue preferenze: la crescita spirituale opera un vero trasferimento della nostra volontà nella sua, come quelle anziane coppie che non hanno quasi più bisogno di parlarsi, perché indovinano già tutto, e non considerano neanche lontanamente la possibilità di separarsi.
Ma quando io devo decidere, senza aspettare questi anni di vita comune, Dio non mi parla in modo più diretto, per esempio attraverso quell’avvenimento che debbo saper leggere come un segno?
Certo, gli eventi sono dovuti alla volontà di Dio: se piove, è perché Dio vuole che piova. Ma per sapere perché Dio vuole che piova, per passare dal segno al significato, bisogna collegare questo evento agli altri, e dunque leggerlo alla luce dei suoi comandamenti e dei suoi consigli, per cui la coerenza è di «ricondurre a Cristo, unico capo, tutte le cose» (Ef 1, 10). Volere un cammino più breve sarebbe cercare il senso di una frase conoscendone soltanto una sola parola:
Niente è più pericoloso, né più soggetto a illusione, quanto il costituirsi giudice delle ispirazioni divine; questo è il modo infallibile di smarrirsi prendendo per volontà di Dio tutto quello che sale nel nostro cuore e attraversa la nostra mente.
Jean-Nicolas Grou, Manuale delle anime interiori, Sull’obbedienza
Abbiamo già risposto alla domanda riguardante le rivelazioni private (cf Semi 121), perché si tratta proprio di questo, facendosi uomo, Dio viene a noi tramite cammini umani e ci parla tramite parole umane, con i tempi e le deviazioni che ne conseguono. Ricordiamo solamente la conclusione di san Giovanni della Croce, che ci invita a guardare Gesù, e solo Gesù, per conoscere la volontà del Padre:
Adesso che la fede è fondata in Cristo e che la legge evangelica si è manifestata in questa era di grazia, non c’è più ragione di interrogare Dio attraverso segni particolari, né Egli parla e risponde come allora [cioè nell’AT]. Infatti, donandoci come ci ha donato suo Figlio, che è la sua unica Parola – e non ne ha altra – ci ha detto e rivelato tutte le cose, nello stesso tempo e in una sola volta, tramite questa sola Parola, e non ha da dire niente di più.
S. Giovanni della Croce (1542-1591) La Salita del Monte Carmelo, II, 22
«Se piove, è Dio che lo vuole!», scrivevate in Semi di qualche mese fa; ma se qualcuno muore in un incidente, o quando si scatena uno tsunami, voi dite che è sempre Dio che lo vuole? Come rispondere a chi si rivolta contro Dio davanti ad eventi del genere?
L’obiezione principale alla visione cristiana di un Dio buono è lo scandalo del male che resterà fino alla fine del mondo. Certo, si può dare una risposta filosofica: un’auto che precipita in un burrone non fa che seguire le leggi della gravitazione universale, che non sono né buone né cattive; ma è chiaro che queste leggi non hanno mai convertito nessuno, e che è il cuore, e non la ragione, che si ribella davanti alla sofferenza dell’innocente. Allora, senza trascurare la ragione, lasciamo parlare il cuore, il cuore dei santi.
Io non so se nell’anno che verrà, tutti i frutti della terra saranno distrutti dalle intemperie: se lo saranno o vi sarà la peste o altri eventi del genere, è molto evidente che è il beneplacito di Dio e pertanto io mi conformo ad esso.
S. François di Sales, Veri trattenimenti spirituali, II, Sulla fiducia
Questo per la ragione. Passiamo al cuore. Supponiamo solamente, ma supponiamolo lo stesso, che sia totalmente abbandonato alla volontà di Dio; il problema del male sarà semplicemente sparito, perché:
Quest’anima abbandonata non fa niente se non rimanere accanto a Nostro Signore, senza preoccuparsi di alcuna cosa, né del suo corpo né della sua anima; perché dal momento che si è posta sotto la provvidenza di Dio, perché deve pensare a cosa accadrà? Nostro Signore, al quale è tutta abbandonata, vi penserà abbastanza per lei.
… È assolutamente vero che bisogna avere una grande fiducia per abbandonarsi così senza alcuna riserva alla divina provvidenza; ma così, quando abbandoniamo tutto, Nostro Signore si prende cura di tutto e conduce tutto.
Idem
In effetti, facile a dirsi! Il dolce Francesco di Sales esige da noi l’atto di fede più eroico che si possa immaginare. Resta il fatto che questo ci permette di impostare bene il discorso sul male: se vedo una macchia nera su un telo bianco, può darsi che il telo sia sporco, ma può darsi pure che le mie lenti siano sporche, in questo caso lavare dieci volte il telo non servirà a nulla. Avrà capito, caro lettore che la nostra lotta contro il male non consiste nel cambiare il mondo, ma nel cambiare il nostro cuore, nel conformarlo a quello di Dio, ritrovando la bontà essenziale di tutto ciò che egli fa; “Dio vide che era cosa buona, sette volte buona”, dice la Bibbia, fin dalla sua prima pagina, per evitare di farci prendere una falsa pista rimproverandogli di aver permesso lo tsunami e gli incidenti stradali. “Dio non ha creato la morte” ci dice ancora la Scrittura (Sap 1,13), ma ha creato i microbi che fanno morire, dunque si tratta di entrare nel progetto di Dio che va assolutamente aldilà di quello che io chiamo “buono” o “cattivo” secondo il mio beneplacito e non secondo il suo.
Dichiarato brutalmente, questo appello alla fede è inammissibile per chi non ha la fede. Non meravigliamoci della rivolta del non credente, poiché se non si ribellasse, sarebbe credente! Ma Gesù non è venuto a giudicarlo, ma a salvarlo (Gv 12,47), è per questo che, poco a poco, prendendosi cura delle nostre debolezze, conforma la nostra volontà alla sua. Questo capovolgimento progressivo, è tutta la storia della salvezza, la storia di Dio che assume la nostra condizione di peccatori “in ogni cosa eccetto che nel peccato” (Eb 4,15), perché il peccato non sia più ostacolo per godere della sua bontà.
La prima tappa di questa storia è quella di Gesù che piange davanti alla tomba del suo amico Lazzaro, e più ancora davanti al suo supplizio nel Getsemani. Egli ha condiviso la nostra rivolta, ed essendo più innocente di noi, ne ha risentito più di noi: «Padre, allontana da me questo calice…». Nello stesso tempo in questo primo atto della sua Passione, ci indica già il suo superamento: «…ma sia fatta la tua volontà, non la mia» (Mt 26,39). Rassegnazione? No, diciamo proprio superamento, superamento positivo di una volontà donata, e non distrutta né trascurata:
Abbandonare la nostra anima e lasciare noi stessi, non è altro che disfarci della nostra volontà per donarla a Dio, perché non ci servirebbe molto rinunciare e lasciare noi stessi, se questo non fosse per unirci perfettamente alla divina Bontà. Perciò, bisogna fare quest’abbandono, il quale, altrimenti, sarebbe inutile e somiglierebbe a quello degli antichi filosofi. Noi, non vogliamo abbandonarci se non per consegnarci alla volontà di Dio.
Idem
Si vede perfettamente quale sia la molla di questo vero abbandono: “unirci perfettamente alla divina bontà”. Tutto consiste nella fede in questa bontà, cioè nell’amore di Dio; essa dipende a sua volta dalla dichiarazione di amore di Dio e infine dipende dall’evangelizzazione di cui avremo beneficiato. Questa prima tappa sarà, spesso, l’unica nei tristi funerali delle nostre chiese affollate da cristiani di lunga data; eppure occorre cominciare da essa a risvegliare la vera speranza, cominciare da questa “nuova evangelizzazione” alla quale i nostri paesi battezzati sono invitati in questo terzo millennio, per poter dire con Francesco di Sales davanti alla bara della sua cara piccola sorella, chiamata a Dio nel fiore della sua giovinezza:
Il mio cuore si è intenerito più di quanto non avessi potuto mai pensare…; tuttavia, al centro del mio cuore di carne che ha sentito tanto questa morte, scorgo sensibilmente una certa soavità, tranquillità e un certo dolce riposo del mio spirito nella divina Provvidenza, che diffonde nella mia anima una grande gioia nei dispiaceri.
François di Sales, Lettera del 2 novembre 1607
In occasione di una povera sepoltura di campagna, chi non mai ha sentito qualcosa di questa dolcezza del cuore, proprio quando la morte di una persona cara risveglia tempeste nella sua anima? Allora può cominciare la lenta risalita dalle tenebre alla luce, e la Storia Santa si rimette in cammino.
«Qual è la differenza tra la meditazione buddhista e l’orazione contemplativa cristiana?»
Avendo una conoscenza poco approfondita della meditazione buddhista, ne tratterò qui, senza dubbio, in modo molto generale, tuttavia in modo sufficiente per mettere in evidenza quello che di irriducibile c’è nell’orazione cristiana.
In primo luogo vedo che il buddhismo non pretende di essere una religione nel senso proprio del termine, ma una saggezza, un’arte di vivere che mette al riparo dalle difficoltà dell’esistenza, simbolizzate dai quattro incontri che convertirono Gautama-Buddha: un vecchio, un malato, un morto, un eremita. Se la parola “religione”, che viene dal latino re-ligere, unire, indica un’apertura fondamentale all’altro, saggezza buddhista e religione cristiana corrispondono a due atteggiamenti opposti: il primo tende sempre ad evitare la vita, il secondo ad affrontarla; Buddha dimenticherà la malattia, Gesù Cristo guarirà il malato.
Il buddhismo non mette in relazione, non mette in preghiera. Tutto lo sforzo del saggio sarà, al contrario, di raggiungere una sorta di levità mentale, mirando letteralmente a dissolvere l’io, a beneficio di uno stato di coscienza scollegato dal mondo esteriore, cosa che sicuramente evita le preoccupazioni dell’esistenza, ma a prezzo di un isolamento che è la negazione stessa di ogni preghiera possibile. La “meditazione trascendentale” e certe forma di yoga sono gli avatars occidentali molto alla moda di tecniche orientali che cercano di ottenere questo stato; da un punto di vista cristiano, si vede immediatamente con quali ambiguità.
Infatti, è proprio questo isolamento che il Vangelo rompe: fin dalla prima pagina, annuncia ai suoi destinatari l’arrivo di qualcuno, di un «Visitatore che viene dall’alto» (Lc 1,78). L’orazione del cristiano consisterà nell’accogliere questo visitatore, come indica la parola stessa: orare, in latino, vuol dire esattamente un “parlare”, derivato da os- oris, bocca. Anche se questo faccia a faccia avviene nella sommità della nostra anima, al di sopra della nostra intelligenza e della nostra sensibilità (“in modo impercettibile”, nel testo seguente), ben lungi da una sospensione, tutta la nostra vita mentale si trova allora mobilitata nell’incontro con il Signore che viene:
A volte accade che Nostro Signore spande in modo impercettibile nel profondo del cuore una certa dolce soavità che testimonia la sua presenza, e allora le potenze, addirittura gli stessi sensi esteriori dell’anima, tramite un certo segreto consenso si volgono verso questa parte intima dove c’è l’amabilissimo e carissimo Sposo. …Come un pezzo di calamita tra molti aghi, all’improvviso attrae tutte le loro punte che si orienteranno verso la loro amata calamita e si attaccheranno ad essa, così quando Nostro Signore fa sentire nel mezzo della nostra anima la sua deliziosissima presenza, tutte le nostre facoltà orientano le loro punte verso quel lato, per unirsi a quella incomparabile dolcezza.
S. Francesco di Sales, Trattato sull’Amore di Dio, VI, 7
È vero che tra la meditazione orientale, ritorno naturale su di sé, e l’orazione cristiana, uscita sovrannaturale da sé, la rassomiglianza esteriore è sufficiente perché possa creare confusione, cosa che spiega il fatto che molti cristiani chiedono allo yoga, ciò che farebbero meglio, certamente, a chiedere a s. Bernardo o a Teresa d’Avila: nei due modi di procedere, il corpo, e poi le facoltà dell’anima, tendono all’armonia e al riposo. Ma in un caso si è attenti a qualcuno; nell’altro, ogni alterità tende a dissolversi e il soggetto a sparire. Poiché si tratta di una scomparsa, il modo di procedere orientale sarà considerato molto severamente dai maestri cristiani, come una sorta di suicidio spirituale. Citiamo soltanto uno tra essi, particolarmente chiaro sui rischi in cui incorrono coloro che confondono la pace che solo Cristo può dare, e l’egoismo inalterabile di colui che si è mentalmente tagliato fuori dal mondo:
Al vertice della loro anima dove si rifugiano, non sentono nient’altro che la semplicità della loro essenza [il punto da cui parte la loro vita mentale] sospesa all’essenza di Dio. Questa assoluta semplicità che posseggono, la prendono per Dio, perché vi trovano un riposo naturale. E per questo pensano di essere essi stessi Dio nel profondo della loro semplicità. In effetti, manca loro la fede vera, la speranza, l’amore. E mediante l’ozio nudo che sentono e possiedono, sono allora senza conoscenza e senza amore, e in assenza di virtù. Per questo si applicano a vivere senza coscienza, qualunque cosa facciano di male. Disprezzano tutti i sacramenti, tutte le virtù e tutti gli esercizi della Santa Chiesa, perché pensano di non averne bisogno.
Ruusbroec l’Ammmirabile, Piccolo libro di spiegazioni
Il dramma di questi falsi cristiani è che proprio mentre si sentono al riparo da ogni aggressione esteriore, hanno chiuso dentro di loro, tutti i demoni entrati nella loro anima con il peccato originale, e che in fretta si risveglieranno, quando la relativa tranquillità della loro meditazione non basterà più a far loro dimenticare che «non siamo fatti per vivere per noi stessi, ma per Colui che è morto e risuscitato per noi» (2 Cor 5,15):
In effetti, quando arriverà il tempo in cui la loro natura è oppressa da amaro dolore e da angoscia davanti alla morte, allora i fantasmi accorrono ed essi sono interiormente sconvolti e spaventati, perdono il tranquillo raccoglimento del loro riposo e cadono nella disperazione; così nessuno può consolarli e muoiono come dei cani arrabbiati.
Idem
Di contro, colui la cui intera esistenza sarà stata aperta a Dio che viene a inondarlo col suo amore, sperimenterà questo ultimo incontro come una nuova dilatazione, poiché la sua morte non sarà più morte, ma esplosione di vita:
Oh fiamma dello Spirito Santo, così intimamente e teneramente tu attraversi la sostanza della mia anima e la cauterizzi tramite il tuo ardore! Poiché tu sei adesso così amabile che ti mostri con la voglia di donarti a me nella pienezza della vita eterna, strappa il sottile velo di questa vita, perché io possa amarti subito, con la pienezza e la sazietà che la mia anima desidera, senza termine né fine.
S. Giovanni della Croce, Fiamma viva, I, 36
«Quando leggo Teresa d’Avila o Giovanni della Croce, o tanti altri autori citati in Semi, ho spesso l’impressione che parlino di cose che non mi accadranno mai, e questo mi scoraggia un po’… “Notti dell’anima”, “unione trasformante”, “matrimonio spirituale”…sono proprio necessari per essere un buon cristiano? La santità è così eccezionale?»
La santità è il condurre una vita comune con Dio, e questo è richiesto a ogni uomo, perché ogni uomo riceve da Dio la grazia sufficiente per questo. Ora, questa vita comune si svolge su vari piani che bisogna ben distinguere, altrimenti ci colpevolizzeremo di non avere visioni o stigmate. Il primo piano, molto semplicemente, è quello della creazione, nella quale Dio non ha messo meno amore che nella redenzione:
Per capire bene quale sia la natura di questa unione di cui sto trattando, bisogna sapere che Dio dimora in tutte le anime, anche in quella del più grande peccatore del mondo, e le permette di sussistere. Questo modo di unione c’ è sempre tra Dio e tutte le creature; in forza di essa, le conserva nel loro essere, di modo che se questa venisse a mancare loro, le creature si annienterebbero subito e non esisterebbero più.
Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, II, 5
Ma Giovanni della Croce aggiunge: “Quando parlo di unione dell’anima con Dio, non intendo riferirmi a quella presenza sostanziale di Dio che esiste sempre in tutte le creature”.
Il secondo piano, che non tratterà neppure, è quello della santità e della vita eterna, cioè della grazia tramite cui siamo salvati, e lì, interviene la nostra libertà, così come quella di Dio:
Arrivare alla vita eterna consiste nel fatto che l’uomo volge la sua volontà verso Dio, vive secondo i comandamenti della santa Chiesa, e di una vita perfettamente ordinata nella pratica dei santi sacramenti e nella confessione della fede… A questa misura, Dio ha invitato e chiamato un certo numero di persone; non domanda loro niente più di questo, e può accader loro di vivere su questa via in tale purezza, che entrano nella vita eterna senza alcuna espiazione in purgatorio.
Giovanni Taulero, Sermone 39, trad. Hugueny
Relativamente a questo secondo piano, i più santi, dopo la Santa Vergine, sono i Santi Innocenti: essi hanno sempre fatto solo la volontà di Dio. Ma questa santità che consiste nel “succhiarsi il pollice” ovvero nel non far nulla, sebbene sia incontestabilmente superiore a quella di santa Teresa d’Avila, noi senza dubbio, non la desideriamo molto. In compenso, quello che ci interessa in lei fa parte di un terzo livello, che si chiamerà contemplativo, o anche mistico quando conosce un certo grado di sviluppo:
Alcuni uomini sono stati chiamati da Dio a un grado e a un fine molto più elevato. Eppure, dovranno passare per il purgatorio, esservi bolliti (!), arrostiti, e soffrirvi un fuoco che non ha misura e di cui nessun cuore può sondare l’ardore. Ma quando avranno sopportato queste sofferenze fino al termine, supereranno i primi di mille e mille gradi.
Idem
“Eppure, essi dovranno passare per il purgatorio”: questi uomini non sono dunque necessariamente i più santi, ciò che Dio vuole per loro è di un altro ordine, ed è proprio quello di cui ci parlano Teresa d’Avila o Giovanni della Croce. Che essi siano stati pure canonizzati, non è essenziale, a quanto ci dicono, perché la grazia che è specifica a loro, è di aver ricevuto una coscienza particolarmente ricca della presenza di Dio nella loro vita, infinitamente più ricca di quella dei Santi Innocenti, grazia caratterizzata così da Henri Brémond:
Noi diveniamo mistici quando prendiamo una certa coscienza di Dio in noi; non appena sperimentiamo, in qualche modo, la sua presenza, non appena questo contatto, d’altronde permanente e necessario tra lui e noi [= la presenza di Dio in noi per creazione], ci appare sensibile, prende le caratteristiche di un incontro, di un abbraccio, di una presa di possesso.
Sull’Umanesimo, III,IV
Questo incontro, questo abbraccio, ecco quello di cui ci parlano i mistici; e poiché sono particolarmente coscienti dell’amore di Dio, possono parlarne meglio degli altri; ciò fa di essi dei maestri spirituali e per questo, spesso, sono autenticati come tali con il titolo di “Dottore della Chiesa”.
Spesso lo sviluppo di ognuno su questo terzo livello è più o meno grande secondo la vocazione propria: dai Santi Innocenti a Teresa d’Avila ci sono tutte le situazione intermedie. In ogni caso, si comprende che, in proporzione a questo sviluppo, la particolare lucidità di un mistico sulle realtà divine ne fa un rivelatore: “in queste anime, Dio parla” ci dice s. Giovanni della Croce ed è lì che s. Tommaso d’Aquino vede l’origine di tutta l’ispirazione biblica così come della Tradizione della Chiesa. La Rivelazione, ci dice all’inizio della sua Summa Theologiae, è “come un’impressione nell’anima della scienza divina”, poiché l’anima si comporta allora come la pellicola fotografica. Ma ci sono delle pellicole più sensibili di altre, e ci diranno che le pellicole mistiche sono particolarmente sensibili. Questo misura il servizio che ci possono rendere questi autori: proprio come la tela di un grande pittore rivelerà a coloro, che non lo sono, quello che avvertono senza potere vederlo bene, i mistici ci permettono di vedere meglio, quindi di avanzare con sicurezza sul cammino della fede.
Siamo tutti un “po’ mistici”, come tutti siamo o meno un po’ pittori, musicisti, così che leggere s. Giovanni della Croce ci aiuterà a comprendere il mistero che Dio ci dona da vivere, specialmente quando la nostra vocazione essendo più contemplativa della media, ci fa uscire da sentieri battuti:
Quando Dio accorda a un’anima i primi favori soprannaturali, non li comprende e non sa come gestirsi… Dovrà soffrire crudelmente, a meno che non trovi un maestro che comprenda il suo stato. È una grande felicità per quest’anima di vedere il dipinto fedele di ciò che lei prova; riconosce la via dove Dio la mette e vi cammina con sicurezza. Dico di più: per fare dei progressi in questi diversi stati di orazione, è d’immenso vantaggio sapere la condotta da tenere per ciascuno di essi.
S. Teresa d’Avila, Libro sulla vita, cap 14
«Una grandissima sensibilità è un handicap in una vita spirituale?»
Se s’intende per “grandissima sensibilità” un’attitudine particolarmente sviluppata ad essere toccati da ciò che riceviamo tramite i nostri “sensi corporei esteriori” (le nostre orecchie, i nostri occhi, etc.) o “interiori” (la nostra immaginazione), si tratta più di un vantaggio: quale artista si lamenterebbe di essere troppo sensibile, e quale contemplativo si lamenterebbe di sentire troppo l’amore di Dio – infatti artisti e contemplativi appartengono alla stessa razza (cf. Semi n° 132)? È peraltro significativo che la Tradizione abbia sempre attribuito a Gesù una sensibilità estrema, e ai santi una grandissima sensibilità, come se il peccato comportasse una sorta di anestesia, e l’uomo nella sua innocenza originale avesse una capacità di gioire e di soffrire, oggi molto attenuata nella maggior parte della gente:
Io sostengo che se tutti i mali della morte e degli altri tormenti, tutti quelli che sono stati, che sono o che saranno dal tempo di Adamo fino al tempo dell’Anticristo, se tutti i mali fossero riuniti, in verità, questo non sarebbe ancora che il male di una puntura, paragonato al male che Gesù Cristo ha patito con una sola puntura di un dardo o di un punteruolo fatto al suo corpo prezioso e venerabile, e ciò in ragione della sua delicatezza, della sua finezza, della sua tenerezza e della sua purezza.
Marguerite Porète († 1310), Lo specchio delle anime semplici, cap. 126
Certamente, la tua domanda fa discretamente allusione ai disturbi psichici che si riscontrano più facilmente che altrove, negli artisti e nei contemplativi: è certo che una bilancia da farmacia è più sensibile, ma più fragile rispetto alla bascula per gli animali. Ecco perché una particolare esigenza di equilibrio nasce da una sensibilità particolare, e in questo senso la santità è più immediatamente necessaria all’artista che al bruto, per avanzare nella vita senza troppo vacillare. Un caso da manuale è quello di s. Teresa del Bambin Gesù, bambina ipersensibile, psicologicamente scossa dalla morte di sua madre quando aveva 5 anni:
Occorre che vi dica che dalla morte della mamma il mio carattere gioioso cambiò completamente; io così vivace ed espansiva, divenni timida e dolce, sensibile all’eccesso. Uno sguardo era sufficiente per sciogliermi in lacrime, occorreva che nessuno si occupasse di me perché io fossi contenta, non potevo sopportare la compagnia di persone sconosciute e ritrovavo il mio buon umore solo nell’intimità della mia famiglia… Ah! Se il Buon Dio non avesse prodigato i suoi benefici raggi al suo piccolo fiore, mai avrebbe potuto acclimatarsi sulla terra…
Teresa di Lisieux (1873-1897), Storia di un’anima, Manoscritto autobiografico, 13 r°
Proprio perché non avrebbe potuto acclimatarsi sulla terra, Teresa sarebbe stata in qualche modo, condannata al cielo, e ciò diventerà in lei la via dell’infanzia spirituale, la via di coloro ai quali Gesù ha promesso il Regno di Dio:
Non son voluta crescere, sentendomi incapace di guadagnare la mia vita, la vita eterna del Cielo. Sono allora rimasta sempre piccola, non avendo altra occupazione se non quella di raccogliere fiori, i fiori dell’amore e del sacrificio, e di offrirli al buon Dio per il suo beneplacito.
Ultimi Colloqui, 6 agosto 1897
Al punto che questa giovane martire potrà dire al tramonto della sua breve vita:
Sì, è proprio così! Infatti, non sono più, come nell’infanzia, accessibile ad ogni dolore; sono come risuscitata, non mi sembra più di essere nel luogo in cui mi si crede … Oh! Non provate pena per me, perché sono giunta ad un punto in cui non posso più soffrire, perché ogni sofferenza mi è dolce.
Idem, 29 maggio 1897
Infatti,
Quando l’uomo che vive sulla croce si abbandona al Signore e gli appartiene interamente, Dio in qualche maniera si abbandona interamente all’uomo e gli appartiene totalmente, e l’uomo possiede la pienezza e non ha più bisogno di niente.
Gerlac Peters (1377-1411), Soliloquio, ed. Strange, pp 33-35
Lo si vede, l’ipersensibilità di Teresa le avrà fatto guadagnare del tempo in questo cammino di fede, e abbiamo già detto (cf. Semi n° 125) che se la fragilità psichica espone a dei rischi nella vita spirituale, comporta pure dei privilegi, perché l’illusione di dominare il mondo, che potrebbe sembrare un privilegio dei forti, è in realtà una debolezza che trattiene spesso dal volgersi verso Dio. A 14 anni, Teresa aveva scoperto quello che la maggior parte delle persone non scopre che sul proprio letto di morte: lasciati a noi stessi, noi non siamo capaci di nulla, e la vera santità non consiste tanto nel fare delle cose per Dio, quanto nel lasciar fare a Dio ciò che vuole di noi.
Allora, se tu ti senti un bambino in un mondo di bruti, non piangere sulla tua sorte, ma fa’ dell’ostacolo un trampolino, e invece di lasciarti andare alla disperazione di non essere abbastanza amato, lasciati andare alla certezza di esserlo infinitamente:
La sensibilità che le è naturale, le lascerà sempre dei tormenti, ma questa sensibilità così spesso e così facilmente urtata, è spesso una fonte di santità… Con questo carattere si gioca di solito a lascia o raddoppia; può portare alla più grande santità, e talvolta può far perdere tutto. Il suo guaio è che con il suo tipo di carattere, le impressioni vengono prima della ragione e indipendentemente dalla ragione, e queste impressioni sono violente, sensibili, laceranti, e portano alla tristezza…
François Liberman (1802-1852), Lettera del 22 ottobre 1847
Allora, come fare di questa tentazione di tristezza una sorgente di santità? Riconducendo la ragione ai suoi diritti, e la nostra sensibilità non vi perderà nulla:
Le ferite del cuore non devono essere annientate, ma rese sovrannaturali. Forse ci è impossibile divenire insensibili, ma sarebbe un enorme torto provarci. Nulla di guadagnato se non un’attenuazione insignificante delle più nobili sofferenze della vita. Non si tratta di smorzare la sensibilità, di attutirla, né di sterminarla come faremmo con un vizio, ma di farne un uso coraggioso per renderci più amici di Dio e più caritatevoli verso gli uomini. Quello che bisogna evitare, è l’errore comune di biasimare i sentimenti, e non gli inconvenienti che ne conseguono per mancanza di corrispondenza alla grazia.
William Faber (1814-1863), Conferenze spirituali, Sentimenti feriti
«Come sapere quando è giunto il momento di non fare più ricorso al direttore spirituale, o di non meditare più, o di lasciare questo o quel metodo d’orazione? Più genericamente, come sapere se ci si può azzardare a “volare con le proprie ali” nella vita spirituale?».
I testi dei maestri ci mostrano che, a un certo momento, le anime sentono come ingombranti tutti quegli aiuti che, in un primo tempo, avevano permesso loro di mettere in asse una vita cristiana risoluta, e poi di proseguirvi. Perché?
La vita spiritualità è in sé semplice. Maria non ha avuto che una parola da dire: Fiat! perché Dio si facesse uomo in lei, cosa che è l’essenza di ogni vita cristiana. Meditazione, metodi, direzione spirituale sono destinati solamente a porre questo atto di fede, e come i ponteggi sono divenuti inutili quando la casa è costruita, così bisognerà lasciarli cadere quando sarà arrivato il momento, cioè quando l’anima si troverà infine distaccata [da se stessa], denudata, pura e semplice, senza alcun modo né maniera, com’è necessario per l’unione (Giovanni della Croce, La salita del Carmelo, II, 16). È il peccato originale che ha deturpato questa semplicità dell’atto di fede, e per ritrovarla, bisogna ricominciare a vivere sotto l’amorosa dipendenza di Dio che era quella di Adamo ed Eva nel paradiso: Non dimenticate che la nostra anima ha lasciato il suo Sposo da numerosi anni, che è fuggita, e che bisogna saperla guidare con molta destrezza per ricondurla alla sua dimora! (Teresa d’Avila, Cammino di perfezione, 43). Riapprendere il paradiso, suppone di prender coscienza della nostra situazione di esilio lontano da Dio, e dalle conversioni necessarie per ritornare a lui: tale è il ruolo della meditazione agli inizi di una vita di orazione. Alla luce del Vangelo, la meditazione ricostruisce tutto l’universo interiore in funzione di questo invito che ci ha fatto entrare nella vita cristiana, perché il nostro spirito non vada correndo qua e là, come quando si chiude in una gabbia un uccello, o meglio come si attacca lo sparviero alle sue cavezze, affinché rimanga sul pugno (Francesco di Sales, Introduzione alla vita devota, II, 4). Una volta che l’uccello è nella gabbia, la nostra meditazione si semplificherà, e raggiungerà questa pura disponibilità a Dio che alcuni teologi chiamano “contemplazione acquisita”, ma che in realtà è soltanto una disposizione alla contemplazione vera e propria, o “contemplazione infusa”, esperienza di Dio che si dona all’anima, mentre la prima sarebbe, piuttosto, quella dell’anima che si dona a Dio. Comunque, per formare quest’atto di fede e arrivare a questa disponibilità, l’anima avrà avuto bisogno della grazia che Dio dona a tutti i suoi figli, e dei mezzi ordinari della vita cristiana, quelli che la Chiesa le fornisce tramite il suo insegnamento e la sua assistenza pastorale abituale. Sarebbe meglio qui evitare di parlare di “direzione spirituale”, perché la Tradizione riserva questa espressione all’assistenza pastorale specializzata di cui parleremo adesso, anche se s. Francesco di Sales, per esempio, la usa in senso molto più ampio. Prima correggiamo ciò che potrebbe dare l’impressione che la contemplazione infusa prenda il posto di quella acquisita: in realtà, l’anima non si sarebbe messa sul cammino di questa disponibilità se Dio non avesse prima fatto sperimentare in qualche maniera la sua presenza infusa, che si manifesta tramite un’attrattiva incoercibile verso l’unione a Qualcuno che si mantiene nascosta nel più intimo di sé, così che dall’inizio alla fine, proprio questa contemplazione è il motore della vita spirituale.
Ritorniamo alla domanda posta: una volta acquisita la contemplazione, è tempo di volare con le proprie ali? Ci sono da considerare due cose: Gesù Cristo ha affidato, tutti, ai pastori della Chiesa, e gli Atti degli Apostoli mostrano che la stessa Vergine Maria ha seguito questa legge generale della vita cristiana (At 1,14); ma è vero anche che una volta stabilita nella fede pura e semplice, fu questo sempre il caso della Santa Vergine, questa vita cristiana non ha più niente di problematico, poiché l’anima non ha più la sensazione di lottare contro se stessa né di dover convertirsi, anche se continua a ricevere dai pastori, i sacramenti e l’insegnamento della Chiesa. Ora, questa risposta è sufficiente solo per l’ itinerario spirituale più comune. In effetti, se Dio ha l’intenzione di sviluppare in un’anima in modo considerevole la contemplazione infusa, che come abbiamo detto, era stata segretamente presente fin dall’inizio della vita spirituale, ecco che adesso ha bisogno di un direttore spirituale, perché sorgono nuovi quesiti, che richiedono un’assistenza pastorale specializzata. Lo ribadiamo: se Dio ha intenzione di sviluppare in modo considerevole questa contemplazione. D’altronde proprio come si parla di direzione spirituale in senso specifico solo in questa situazione, è a essa che si riserva correntemente quella di contemplazione. Nel qual caso vediamo più da vicino, il ruolo del direttore.
Il primo compito del direttore spirituale sarà di convalidare questa contemplazione infusa, perché la sensazione dominante per l’anima che ne è gratificata, è di perdere il controllo della propria vita cristiana, e di non capire più quello che le succede:
Quando Dio concede a un’anima i primi favori sovrannaturali [da intendere: favori contemplativi], ella non li comprende e non sa come comportarsi…dovrà soffrire crudelmente, salvo che non trovi un maestro che comprenda il suo stato. È una grande fortuna per quest’anima vedere la riproduzione fedele di quello che prova; riconosce la via dove Dio la mette e vi cammina con sicurezza.
Teresa d’Avila, Libro della sua vita, cap.14
Il secondo ruolo del direttore sarà di insegnare all’anima come deve, d’ora in poi, lasciarsi condurre da Dio stesso, perché in questo periodo, deve essere condotta secondo un modo totalmente contrario al primo […] poiché ormai i beni non le verranno donati tramite il senso, come prima.
Giovanni della Croce, Fiamma viva, III, 33
«Come sapere quando è arrivato il momento di non fare più ricorso al direttore spirituale, o di non meditare, o di lasciare questo o quel metodo d’orazione? Più genericamente, come sapere se si può rischiare di “volare con le proprie ali” nella vita spirituale?». (Seguito del numero precedente e conclusione)
Abbiamo visto che nella contemplazione, la direzione spirituale serve simultaneamente ad “autenticarla”, e a “liberare” l’anima dalle sue tentazioni di efficienza. In questo duplice cammino,tutta la perizia del direttore sarà nel mantenerla nellalegge di Dio e della Chiesa, dirà s. Giovanni della Croce e di ricondurre sempre il suo sguardosu Gesù quando comincerà ad allontanarsene e a inquietarsidelle tenebre che cominciano a circondarla. Per quel che dipende da lei, d’ora in poi, Dio non le domanda che quest’attenzione semplicee amorosacon la quale Giovanni della Croce definisce ancora la contemplazione. E questo finché non supera una nuova soglia, quella della fede e dell’amore puri, cose nelle quali bisogna “abbandonarsi” completamente. Allora sarà passata dallo stato di quelli che, convenzionalmente da s. Gregorio Magno († 604) in poi, sono chiamatiprogredienti a quello deiperfetti. Ma per questo, un ultimo intervento del direttore è ancora necessario: deve non solo tranquillizzare l’anima a mettere da parte la sua attività primaria, ma obbligarla a tuffarsi nell’oceano dell’amore di Dio, perché vi siasprofondata eimmersa senza che tocchi e senza sostegni(Fiamma viva, III, 64). Ormai, in effetti,
È necessario che lo spirito sia così libero e annientato in tutto, che qualsiasi pensiero, o discorso, o gusto sul quale l’anima vorrebbe allora appoggiarsi, la tratterrebbe, la toglierebbe dalla quiete farebbe rumore nel profondo silenzio che occorre all’anima secondo la sensibilità e secondo lo spirito, per un ascolto così profondo e delicato; infatti Dio parla al cuore in questa solitudine in suprema pace e tranquillità, poiché l’anima ascolta e intende quello che il Signore pronuncia in lei, come dice Davide, perché egli pronuncia questa pace in questa solitudine. Pertanto, quando accadrà che l’anima si sente mettere in silenzio e ascolto, dovrà dimenticare l’esercizio di attenzione amorosa che ho detto, per restare libera per quello che il Signore allora vuole per lei.
Fiamma viva III, 34-35
Alla luce di ciò, il direttore deve essere abbandonato?Vediamo che, di fatto, i santi non l’hanno mai deciso di loro iniziativa, rilevando che molto spesso Dio li obbliga tramite le circostanze, cioè in generale tramite la mancanza di direttori competenti. La nostra guida sarà Giovanni di Saint-Samson:
Sebbene abbiamo detto che non bisogna tentare di guidarsi da sé, se tuttavia non si incontrasse nessuno sufficientemente spirituale da guidare e dirigere in questo genere di cammino, si potrà farlo con una profonda e totale fiducia in Dio, molto filiale e piena d’amore. Si seguirà allora questo esercizio [= il trattato di Jean di Saint-Samson che sta dettando]secondo i diversi gradi e vie che s’incontreranno, dall’inizio fino alla fine.In questo, non c’è dubbio che lo Spirito Santo e la Trinità tutta intera, saranno sempre una guida e un maestro fedele, poiché ciascuna delle tre persone divine compie il proprio ufficio e le proprie azioni per condurre in modo giusto, sicuro, eccellente e perfetto queste anime, se esse osano intraprendere questo cammino con fiducia, appoggiandosi interamente e perfettamente sul loro amore infinito. Ma questo vale solo in mancanza di poter trovare qualcuno a cui rivolgersi convenientemente; in questo caso, dico che la conduzione amorosa di Dio nei confronti di qualcuno è infinitamente perfetta, al di sopra di tutto quello che si può comprenderee dire.
Jean de Saint-Samson, La pratica essenziale dell’amore.
Ecco perché, Maria dell’Incarnazione direbbe che in queste circostanzeapparentemente sfavorevoli,
Si perde esteriormente e in apparenza un grande aiuto spirituale, ma dico esteriormente, perché per la guida interiore, se un’anima religiosa si sa conoscere,confesseràper sua esperienza propria, purché sia fedele alla grazia e alle dolci e frequenti ammonizioni di Nostro Signore, che può fare a meno di sostegno e che non sono le creature a darle il vigore interiore.Èvero che esse [= le creature, e particolarmente il direttore]sostengono qualche volta i sensi con un po’ di pace che si riceve; ma questa pace non è della stessa qualità di quella che Dio dona nel fondo dell’anima: quella passa molto presto conl’assenza della creatura che la causa, ma quest’ultima che viene da Dio, rimane saldamente nell’anima come Dio stesso. Certamente, talvolta, vi sono delle necessità che obbligano a cercare aiuto presso delle persone sagge e illuminate, e in questi incontri Dio vuole che lo si cerchi, e che lo si trovi tramite la creatura.
Beata Maria dell’Incarnazione, Lettera 95
Al di fuori di queste necessità e non trovando il direttore adeguato, bisogna dunque “volare con le proprie ali”? Jean di Saint-Samson ci ha rinviato al suo trattato, e s. Francesco di Sales parla di “direttori morti” a proposito dell’aiuto che possiamo ricevere dagli scritti dei santi. Si constata anche, che da se stesse, alcune anime che si possono, sicuramente, mettere tra i “perfetti” non si sono mai messe nella situazione di farne a meno completamente, ma che in realtà quegli scritti a loro non servivano più a niente.Così Maria dell’Incarnazione, per obbedienza agli usi della sua comunità, ascoltava saggiamente i commentari delle Scritture destinati a guidare ogni mattina l’orazione delle suore, ma lei non ne traeva alcun profitto assolutamente, poiché Dio aveva definitivamente preso il posto degli aiuti umani:
Vi dirò che qualunque argomento d’orazione io possa prendere, sebbene l’abbia letto o ascoltato con tutta l’attenzione possibile, lo dimentico. Questo è solo all’inizio della mia orazione, io non considero il mistero, perché sono nell’impotenza di meditare, ma mi trovo in un momento e senza riflettervi nel mio fondo ordinario, dove l’anima mia contempla Dio, nel quale ella è.
Lettera 274, a suo figlio, 8 ottobre 1671
«Perché Dio permette che i suoi migliori amici siano spesso quelli più provati? Perché l’insieme incredibile di malattie di Marta Robin? Perché le stigmate di Padre Pio? Perché la derelizione interiore di Madre Teresa? Perché alcuni aggiungono ancora dell’altro, flagellandosi, digiunando, dormendo sulla nuda terra?».
Bisognerebbe aggiungere: perché la Passione e la Croce di cui Dio ha caricato il suo stesso figlio?! Perché il mistero è lo stesso, quello del legame tra l’amore e la croce, tra la felicità d’amare e il dolore d’amare. Ribadiamo: la felicità d’amare, perché sarebbeuna falsa pista quella di considerare queste prove come il prezzo da pagare per poter poi essere felici; tutti i santi citati direbbero che nel cuore stesso della loro prova essi erano perfettamente felici e non avrebbero voluto esserne privati; proprio come Gesù insieme sconvolto nell’ora della sua Passione (“Ora, la mia anima è triste…”) e impaziente di viverla (“…ma è per questo che sono venuto in quest’ora!”Gv12,27). In ogni caso la sua domanda è centrale: “Annunciamo un messia crocifisso …, ci dice s. Paolo, e sa bene che ci sarà semprequalcosa d’incomprensibile, se non addirittura d’inammissibile…”scandalo per i giudei, follia per i pagani” (1Cor 1,23). Cerchiamo di comprendere questo mistero incomprensibile, o meglio facciamo qualche osservazione:
1)Solo la fede cristiana pone la croce al centro dell’esperienza spirituale; essa è grande follia e scandalo per le altre religioni. Tutte conoscono delle pratiche ascetiche (digiuni, penitenze, discipline corporali, etc…) per sviluppare la dimensione religiosa dell’uomo, ma le prove di cui parla lei mirano ad altra cosa: l’unione a Gesù nella sua Passione e Croce: “Trovo la mia gioia nelle sofferenze che patisco per voi e completo, nella mia carne, quello che manca ai patimenti di Cristo per il suo corpo che è la Chiesa!” (Col 1,24).
2) Questa unione a Gesù crocifisso si nota di più nei santi citati, ma, in effetti, non è riservata solo alle prove straordinarie: è il modo cristiano di vivere le croci quotidiane; e se le prove dei santi canonizzati sono spesso spettacolari, è perché, come una lente di ingrandimento, mostrano in modo molto ingigantito quello che è vero per ogni vita cristiana.
3) Le prove dei santi ci spaventano, anche se loro, pur non essendo più forti di noi, non le hanno vissuto drammaticamente, al contrario. Nella lettera a suo figlio (29 luglio 1661), dopo aver descritto la malattia che durante mesi le aveva procurato “i dolori più violenti e più insopportabili, Maria dell’Incarnazione conclude:
Questa lunga malattia non mi ha per nienteabbattuta, e grazie alla misericordia del nostro buon Dio, non ho sentitoalcun movimento d’ impazienza; devo tutta la gloria all’amabile compagnia del mio Gesù crocifisso, il suo divino Spirito non mi ha permesso di desiderare un attimo di tregua dalle mie sofferenze, e mi ha messo in una dolcezza che mi manteneva nella disposizione di sopportarle fino al giorno del Giudizio.
Ciò può sembrare inverosimile, addirittura perverso; ma è necessario costatare che lungi dall’essere folle o con la testa fra le nuvole, Maria dell’Incarnazione ha dato prova di un equilibrio incredibile, fondando la Chiesa del Canada, evangelizzando le tribù indigene e lasciando un’opera immensa, confermando la regola generale che p. Libermann dà a proposito della maturità spirituale:
… arriverete al punto che le pene, le contraddizioni, le umiliazioni, il disprezzo stesso, saranno per voi un motivo di gioia, di consolazione e d’amore davanti all’adorabilissimo Signore Gesù, nello stesso tempo, vi spezzeranno il cuore e vi affliggeranno. Questo dolore e quest’afflizione del cuore saranno una gioia per voi davanti a Dio; saranno una piaga dolce e soave.
Lettere, Parigi, 1964, p. 101
4) Il dolore non misura la santità: i più grandi santi sono stati i Santi Innocenti, ai quali Dio non ha mai chiesto altro se non dormire. Del resto si nota che i santi “dolorosi” sono stati particolarmente attenti nel soccorrere i loro fratelli nelle piccole miserie: nel pieno della malattia di cui lei ci parla, vediamo Maria dell’Incarnazione preoccuparsi per la salute di suo figlio che soffre un po’, ma certamente meno di lei. C’è dunque dolore e dolore: uno è frutto della grazia e portatore di felicità; l’altro è portatore di malessere. S. Ambrogio nella sua storia su s. Agnese, ci dice che questa delicata fanciulla piangeva quando si pungeva con l’ago, ricamando, ma ha sopportato con allegria i tormenti del suo martirio!
5) Quale dunque è il dolore cattivo e quello buono? Quello cattivo è quello legato al peccato, quello che faceva piangere s. Agnese, quello che rende il lavoro insopportabile e la maternità dolorosa: “Perché hai mangiato dell’albero di cui ti avevo proibito, tu mangerai il tuo pane frutto del sudore della tua fronte…” (Gen3,17).Non che prima il lavoro o la maternità fossero più piacevoli, ma quello che viviamo ora come un combattimento, sarebbe stato vissuto in questo equilibrio, in questa sintonia con il reale che osserviamo in Maria dell’Incarnazione, e che consiste semplicemente nel conformarsi dei santi alla volontà di Dio che si manifesta nelle leggi della creazione, e il dolore fa parte di queste leggi. Avere male non è necessariamente motivo d’infelicità: scalare l’Himalaya fa molto male, ma rende incredibilmente felici. Così che
… se vuoi veramente sapere se la tua sofferenza viene da te o da Dio, la riconoscerai così: se la sofferenza viene dalla tua volontà, qualunque ne sia la modalità, questa sofferenza ti farà male e sarà difficile sopportarla. Ma se la tua sofferenza verrà da Dio, e da Dio solo, questa sofferenza non ti farà male e non ti peserà, perché Dio porterà tutto il peso.
Maestro Eckhart, Sermone 2
Ecco il dolore buono, il che non vuol dire che sia gradevole, ma non è più motivo di rivolta, e dunque d’infelicità.
«Si afferma sempre che non bisogna avere paura di Dio; ma a forza di voler rassicurare gli scrupolosi, non crede che finiremo per mancargli di rispetto?».
Innanzitutto,vorrei fareun’osservazione importante: potrei citare decine di lettere o conversazioni che rimproverano Semi di predicare troppo l’amore di Dio (cf. Semin° 127), in sostanza nessuna di essegli rimprovera di non predicarlo abbastanza! In altre parole, la mancanza di rispetto ci preoccupa più della mancanza d’amore di Dio, e questo equivale nella nostra vita cristiana a mettere il piede sul freno, piuttosto che sull’acceleratore.Come se i figli rispettassero meno i loro genitori perché li amano di più!
1) Dio stesso ha voluto definirsi come Padre:
Perguadagnare la nostra fiducia e il nostro affetto, Dio non cessa di ripeterci nei nostri sacri libri, che è nostro Padree padre di misericordia. «Ogni paternità sia in cielo che in terra deriva da lui», e nessuno èpadre come il Padre celeste.
Don Vital Lehodey (1857-1948), Il santo abbandono, II, cap. 3
Nella Scrittura si troveranno mille testimonianze di questa volontà divina di trattarci come figli e figlie, con quello che questo comporta di tenerezza, molto prima che vi fossero leggi e regolamenti, proprio come un padre o una madre non potrà esigere da suo figlio quello che innanzitutto gli avrà donato in nome del suo affetto. Ora «che voi siete figli, lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio il quale grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei ancheerede per grazia di Dio» (Gal 4,6-7). Dubitare, non traendone tutte le conseguenze, sarebbe dubitare della Parola stessa di Dio e peccare contro la fede. Non c’è un solo santo canonizzatoné un solo mistico cristiano che non abbia fatto di questa fondamentale tenerezza lo zoccolo duro della sua vita spirituale.
Quindi,
Abituati a parlare a Dio familiarmente e confidenzialmente, come a un tuo amico; e rifletti sul fatto che è un errore e una debolezza della nostra natura cieca, di non essere affatto liberi alla sua presenza, e di comparire davanti a lui soltantocome schiavi timidi e vergognosi davanti a un principe, tremando di paura e pensando solo a fuggire per andare a cercare altrove la nostra consolazione e la nostra libertà.
Michel Boutault (1604-1689), Metodo per conversare con Dio
2) Sappiamo bene che Dio ci ama,eppuresentiamo in noi una certa reticenza nei confronti di tale semplicità:questo perché continuiamo a pagare le conseguenze del peccato originale. In effetti, la prima, e in fondo l’unica, conseguenza del peccato, fu e resta di renderci paurosi davanti a Dio, di farci passare dalla condizione di figli a quella di schiavi: ho sentito il tuo passo, ed ho avuto paura, confessa Adamo a colui che non riconosceva più come suo Padre, ma come suo padrone. E secondo la natura, questa paura è completamente giustificata, perché Dio è immenso e noi siamo molto piccoli: «Dalla parola del Signorefurono fatti i cieli,dal soffio della sua bocca ogni loro schiera…Tema il Signore tutta la terra, tremino davanti a lui gli abitanti del mondo!» (Sal33,6-8). Ma se Dio ci ha creati secondo le leggi della natura e della paura, ci ha chiamati secondo quelle della grazia e della fiducia, ed è questo ciò che Adamo ha perduto nel peccato.
Adesso, se la paura di Dio è una reazione naturale, notiamo che scatta quando Adamo sente i passi di Dio, cioè quando si avvicina, cosa che, ben lungi dal farci paura, dovrebbe invece rassicurarci: «Sono io, non abbiate paura!»dirà Gesù in tutto il Vangelo. Per reimparare ad amare, bisogna e basta aver fiducia in lui, perché amare, è molto semplicemente avere fiducia, rimettersi alla volontà di chi si ama, abbandonarsi tra le suebraccia: «Cos’èche brucia all’inferno, se non la volontà propria?» dice s. Bernardo. «Togliete la vostra volontà, e non ci sarà più l’inferno» (Sermone 3 sulla Risurrezione). In breve, sopprimila diffidenza, elimina la paura, avraisoppresso il peccato e ritrovato il paradiso: cosa c’è di terribile nelle nostre prove, nelle nostre malattie, nelle nostre tribolazioni, se non la paura delle nostre prove, delle nostre malattie e altri travagli? Se Dio è infinitamente nostro Padre, di cosa aver paura?
3) Ma la Scrittura non parla anche del timor di Dio? Maria stessa non fu colta da timore al momento dell’Annunciazione? Molto spesso confondiamo la paura con il rispetto. Quando s. Luca ci dice che Maria fu turbata dalle parole dell’angelo, il termine greco indica una forte emozione, quelsussulto in presenza di Dio che percorre tutta la Bibbia,e richiede la serietà della nostra risposta; ma la paura è altra cosache Gesù non vuole. Per questo l’angelo rassicura subito Maria, come Gesù quando si presenta ai suoi: «Non temere Maria, perché hai trovato grazia presso Dio»(Lc 1, 30).
Abbiamo trovato grazia presso Dio: ecco tutto il mistero cristiano. Noi non ci entriamo per niente, non l’abbiamo meritato, poiché è una grazia. Rimane solo di rallegrarcene, e di cantare con Maria il nostro Magnificat:
Quale parola dirà mai la nostra anima nel rispondere alla volontà di Dio,qualunque essa sia, se non la parola, la dolce parola del rendimento di grazie? […] Non ci sono già abbastanza motivi per darcia un abbandono fiducioso, sereno, filiale? Credi che una creatura possa rendere al suo tanto amato Creatore, omaggio più degno di lui, e che sia più di suo gusto?
Charles Gay (1818-1892), Lettera, I, XVII
Il vero rispetto stalì, nell’amore che risponde al suo amore, senza limite alcuno; invece, fare del rispetto un preliminareall’amore, è mettere in anticipo dei paletti alla misericordia di Dio, e prenderein senso contrario,la via che ha percorso Gesù per salvare non i giusti, ma i peccatori:
Quanto al metodo da usare con le anime, procedi sempre per la via della dolcezza e dell’incoraggiamento: seguirai così l’esempio di Nostro Signore e di tutti i santi. La maggior parte delle anime si perde a causa dello scoraggiamento.
François Lieberman (1802-1852), Lettera 356.
«Credo di avere delle buone abitudini religiose: recito una o due preghiere mattina e sera, vado a messa la domenica, ma non ho fatto mai seriamente orazione. E a forza di leggere questo foglio, mi è venuta la voglia di provare. Allora, come cominciare?»
È proprio questa domanda che ha portato alla scelta del testo di questo mese! Dal testo hai potuto desumere che l’orazione è in continuità profonda con l’insieme della vita cristiana, così che mettersi a praticarla con un po’ di metodo, consiste nel prendere i mezzi per intensificare questa vita tramite una maggiore consapevolezza della presenza amante e agente di Dio in noi, e questo per essere in grado di corrispondervi tramite un comportamento il più possibile conforme alla sua volontà.
Per questo, la prima cosa da fare per condurre una vita d’orazione, consiste nel ripetere bene a se stessi ciò che precede,perché:
Chiunque inizia l’orazione (non dimenticate questo, è molto importante), deve avere l’unica pretesa di faticare, di decidersi, di disporsi, nel modo più diligente possibile, a conformare la sua volontà aquella di Dio; e siate ben certe che questa è la più grande perfezione che si possa raggiungere nella via spirituale. Quanto più osserverete perfettamente ciò, tanto più riceverete dal Signore, e tanto meglio avanzerete su questa via.
Teresa d’Ávila (1515-1582), Il Castello interiore, 2ª dimora, Cap 1
In questo inizio, dunque, niente di tanto mistico, ma semplicemente il prendere sul serio le promesse del nostro battesimo. Ora, per vivere la volontà di Dio, bisogna conoscerla, e per conoscerla, occorre interrogare Lui, e ascoltare la sua risposta; ebbene Dio dimora al centro della nostra anima, così questo dialogo suppone di rivolgerci verso il nostro interiore:
Avete senza dubbio già visto certi libri di orazione consigliare all’anima di entrare in se stessa; ebbene, è precisamente quello di cui si tratta.
Idem, 1ª dimora, cap 1
Perché
Il Verbo dimora nascosto nel fondo dell’anima, in modo tale che non lo si riconosce né lo si intende, a meno che ogni voce e ogni rumore tacciano, per far posto a una limpida calma, al silenzio.
Maestro Eckhart (1260-1327), Sermone 19
Entrare in questo silenzio implica delle misure concrete, che saranno la migliore prova della nostra reale volontà di fare orazione: chiudere la nostra porta, spegnere la radio che sollecita le nostre orecchie, la televisione o il computer che sollecitano il nostro sguardo, allontanare i giornali che sollecitano i nostri pensieri, etc. Nel contesto pagano che generalmente è il nostro, questo comporta spesso una vera conversione, un’inversione del flusso della nostra attività mentale, solitamente proiettata verso l’esterno, per accogliere Colui che arriva dal più intimo della nostra anima:
Faccia silenzio il tumulto della carne, facciano silenzio le immagini della terra, delle acque e dell’aria, i cieli facciano silenzio, l’anima stessa faccia silenzio e passi attraverso di sé senza pensare a se stessa; i sogni e le rivelazioni immaginarie facciano silenzio; ogni lingua, ogni segno, tutto ciò che è caduco, faccia silenzio, tutto ciò sia in grande silenzio, queste stesse parole tacciano, e parli solo Colui che ha fatto tutte le cose: parli non tramite esse, ma da se stesso, e noi ascoltiamo il suo Verbo, lui che noi amiamo in esse.
S. Agostino (354-430), Le Confessioni, IX, 10
Al di là del silenzio dell’orazione vera e propria, è tutta la nostra vita che dovrà riorientarsi dall’esterno verso l’interno, cosa che rimetterà in causa molti degli attaccamenti che,indubbiamente, non abbiamo molta voglia di abbandonare.
Molti vorrebbero fare orazione, ma vogliono anche o vogliono,principalmente,coltivare una vita mondana che il dovere di stato non impone loro, distrarsi più di quanto un legittimo riposo non richieda, arricchirsi più di quanto richiesto dai loro bisogni, etc..: questa conversione necessaria è il primo frutto concreto dell’orazione, prima ancora che sia cominciata.
Ma questo silenzio potrebbe essere soltanto la disperante assenza di rumore di un deserto vuoto; ora, il punto di partenza della nostra orazione è la nostra fede nella presenza amante e operante di Dio, abbiamo detto, anche se invisibile, non udibile, etc. Così occorre innanzitutto, prendere pienamente coscienza di questa presenza e ritornarvi sempre, perché l’orazione è un dialogo con qualcuno, non una riflessione su qualcosa:
Sappiamo bene che Dio è presente in tutte le cose, ma non vi pensiamo affatto, ed è quindi come se non lo sapessimo.Per questo, prima dell’orazione, bisogna sempre suscitare nella nostra anima un pensiero attento e la considerazione su questa presenza di Dio.
François di Sales (1587-1622), Introduzione alla vita devota, II,2
Per nutrire questo “pensiero attivo”, s. Francesco di Sales o s. Teresa d’Avila ci danno delle buone indicazioni nei loro scritti. Non si può che rinviare al piccolo opuscolo Orazione alla scuola dei santi, edito dal Centro S. Giovanni della Croce.
Ma questo Dio presente, vicino a noi come un amico, ci dirà s. Teresa, è proprio colui che ci fa vivere e da cui dipende tutta la nostra felicità ; così è giusto che gli riserviamo per parlargli il momento migliore della nostra giornata e nel posto più favorevole al raccoglimento. Per alcuni questo sarà la mattina nella calma della propria stanza; per altri, la sera in chiesa: non c’è una regola generale, ma lo ribadiamo: occorre scegliere il momento migliore ed il luogo più favorevole.Dare il primo posto a Dio, fa parte della conversione senza la quale non c’è orazione possibile. Certo, il dovere di stato ha i suoi vincoli, ma il primo dei doveri di stato è la preghiera, senza la quale tutto il resto della nostra vita perde la sua ragione di essere .
Ora, sistemati bene, per non essere disturbato dal formicolìo nei piedio nelle gambe o dal mal di schiena: in ginocchio, seduto, anche disteso (è s. Ignazio che lo suggerisce!) o camminando lentamentein un luogo quieto, cosa che libererà il tuo spirito mentre il corpo è occupato. Comincia a leggere il testo di Semi di questo mese: eccotientrato in orazione!
«Angela da Foligno fa dire a Gesù che lei è la sua preferita, lo stesso Caterina da Siena e molti altri! Dio può avere delle preferenze tra i suoi figli? Una maggiore intimità con alcuni piuttosto che con altri?».
E nel Vangelo s. Giovanni definisce se stesso come il discepolo preferito! Dunque, sì, Dio ha delle preferenze tra i suoi figli. Cerchiamo di comprendere.
Ogni amore si sviluppa su due piani che vanno ben distinti. Il primo è quello della carità, che devo a tutti, la cui misura è …senza misura: «Amerai Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le tue forze, e amerai il prossimo tuo come te stesso». Parlare di preferenza non avrebbe qui alcun senso: la carità è illimitata o nonè, è universale o nonè, a prescindere dal gradimento o dal fastidio che vi si trova. Il mio cuore non ha che una porta: se è aperta, potranno entrarvi i nemici come gli amici; se è chiusa, nessuno entrerà; se è socchiusa, i miei amici e i miei nemici vi entreranno, ma con difficoltà.
Il secondo piano è quello dell’eco che quest’amore trova in me, della simpatia, nel senso forte di una profonda corrispondenza di sentimenti, pensieri, etc., tra me e colui che amo. Per questo anche sela carità mi spinge afare tanta fatica per soccorrere tanto il vicinoquanto i miei figli, la mia emozione sarà tuttavia, molto più grande se è mio figlio piuttosto che il mio vicino a rompersi una gamba. Questo non vuol dire che io amo più mio figlio del mio vicino, ma semplicemente che provo più simpatia per mio figlio.
Certamente, l’idea che Gesù possa avere più simpatia per un altro che non sono io, non mi è…simpatica! E questo perché voglio che Dio mi ami totalmente, infinitamente, senza concorrenza con alcuno. E ho ragione! È lui che ha messo nel mio cuore questo:
Lo Spirito di Nostro Signore tocca il nostro spirito e ci interpella così: “Amami come io ti amo e ti ho eternamente amato! E tutte le potenze della nostra anima rispondono: amiamo l’amore senza fondo che eternamente ci ha amate”.
Ruusbroec l’Ammirabile, Le dodici Beghine
Così bisogna rispondere due cose a quest’apparente mancanza di simpatia di Gesù per me. La prima è che…ciò non è che un’apparenza. Se desidero un amore folle tra Dio e me, è perché vi sono effettivamente chiamato; Dio non mette nei nostri cuori dei desideri che non vorrebbe o potrebbe esaudire. “E gli altri, perché non li chiama?” Gli altri non sanno cosa siaquest’amore folle, proprioperché non vi sono chiamati; non si pongono nemmeno la domanda e non soffronodi quello che vi sembra una ingiustizia di Dio nei loro confronti, più di quanto voi non soffritedel fatto che la fidanzata di vostro cugino preferisce lui a voi. Per lui l’indifferenza della sua fidanzata sarebbe atroce, per voi è garanzia di stare tranquilli.
La seconda risposta, è che se la carità è unica, le simpatie sono molteplici, senza per questo entrare in concorrenza: una madre di tre figli non ama tre volte meno ciascuno, ma tre volte di più. Questo perché il suo sguardo su ciascuno si arricchisce di quello che lei volge agli altri due: ella scopre nel primo, quello che ha riconosciuto nel secondo o nel terzo, cosi che, in ciascuno di loro, ama tutti e tre.Questo è il mistero di un amore che si arricchisce moltiplicandosi, è quello della comunione dei santi:
Poiché sono uniti insieme dauna carità generale e particolare, i santi godono e partecipano al bene di ciascuno, e questa felicità si aggiunge a quella universale di cui godono tutti insieme.
Santa Caterina da Siena, Dialogo XLI
Un’immagine molto semplice può illuminarci: quella della ruota di una bicicletta. Il cerchione è collegato al centro, da un certo numero di raggi: più raggi ci sono, più la ruota è solida, poiché ciascuno fruisce della forza degli altri, dando loro la propria forza.Così il segreto del vero amore fraterno sta nell’unione di ciascuno con Cristo:
Siamo allora uniti, per non esserenulla fuori dal nostro centro comune, dove tutto è confuso senza ombra di distinzione. È lì che vi do appuntamento e abiteremo insieme. È in questo punto indivisibile che la Cina e il Canada si congiungono; è ciò che annienta tutte le distanze.
Fénelon, Lettera CLXIX
Ebbene si, Dio ha delle preferenze; cosa che gli permette… di preferirci tutti. La Storia Santa è fatta d’intercessori, cioè di amici di Dio che gli permettono di propagare il suo amore: «Per tua intercessione, Abramo, non distruggerò Sodoma; per tua intercessione, Mosè, non distruggerò il mio popolo…» Per Abramo, Mosè, Maria, tutti i santi, ma prima di tutto per Gesù, nostro primogenito nell’amore di Dio, ognuno di noi diviene figlio di Dio, preferito da Dio:
Questo divino conquistatore dei cuori conosce l’arte di incantare; ha una grazia cui nessuno resiste. Prende ciò che gli sembra buono e non si ha il diritto di domandare perché ne usi così, perché risponderebbe che non deve rendere ragione della sua condotta a nessuno, che tutto può in cielo e sulla terra.
Jean-Joseph Surin, Lettere spirituali, I, p. 123
Il peccato originale ci fa confondere preferenza e concorrenza, trasformando il paradiso in inferno. Ritrovare il paradiso, è rallegrarsi dell’amore di Dio per i nostri fratelli, così come lorosi rallegrano del suo amore per noi:
Non credere che gli eletti godano soli della loro felicità particolare, dice il Signore; ciò è condivisoda tutti i felici abitanti del cielo, dagli angeli e dai miei diletti figli. Non appena un’anima arriva alla vita eterna, tutti partecipano alla felicità di quest’anima, e l’anima partecipa alla felicità di tutti. Quest’anima è felice in me, nelle anime e negli spiriti beati, perché vede e gusta in loro la bontà e la dolcezza della mia carità.
Santa Caterina da Siena, Dialogo XLI
«Dopo essermi entusiasmata per la radicalità di s. Giovanni della Croce (“tutto e niente”), ho trovato subito che questo era difficile: “scegliete sempre ciò che è più faticoso, meno piacevole, etc.!” Allora ho preferito provare s. Teresa del Bambini Gesù, la via dell’infanzia spirituale che sembrava a prima vista più alla mia portata. Anche lì, però, mi sono presto scoraggiata: avendo contato 35 volte la parola “sacrificio” nella sua Storia di un’anima, ho pensato che q
Ho da proporti l’abbandono; ancora e sempre l’abbandono! A un visitatore che le domandava cosa fare quando comunque non riusciva neppure ad abbandonarsi, Marthe Robin rispose: «Abbandonarsi comunque!». Lì è la chiave di ogni vita spirituale. E se anche tu non riesci nemmeno ad abbandonarti, vuol dire che non sei lontano dal Regno dei Cieli:
Si considera l’abbandono come una forza dell’anima, che fa i più eroici sacrifici per generosità d’amore e grandezza di sentimenti. Ma il vero abbandono non assomiglia affatto a questo abbandono lusinghiero. L’abbandono è un semplice lasciarsi andare nelle braccia di Dio, come quello di un bambino tra le braccia di sua madre. L’abbandono perfetto arriva fino ad abbandonare l’abbandono stesso. Ci si abbandona senza sapere di essersi abbandonati; se si sapesse, non sarebbe più abbandono; perché c’è, forse, un più potente sostegno di un abbandono conosciuto e posseduto? L’abbandono si riduce non tanto a fare delle grandi cose da raccontare a se stessi, ma piuttosto a sopportare la propria debolezza e la propria infermità, a lasciar fare.
Fénelon, Lettera 168
Lasciar fare a Dio: ecco il segreto della santità. In realtà, né Giovanni della Croce, né Teresa del Bambino Gesù dicono altro: ci chiedono tutto per liberarci da tutto, perché quando tu ti fermi in qualche cosa, smetti di slanciarti in colui che è tutto (La Salita del Monte Carmelo, II, 13). Se ci dicessero di rinunciare solo al 99% dei nostri beni o al 99% della nostra reputazione, o al 99% della nostra libertà, sarebbe insopportabile: l’ultimo un per cento ci farebbe sentire il peso degli altri 99; ma ci propongono di perdere, e non di risparmiare, di non occuparci più di niente, in breve, di passare dietro le quinte e vivere dall’altro lato: «Chi perde la propria vita, la trova!»
Perdere la propria vita: non sprecarla, non perderla nella speranza segreta di recuperarla, ma dimenticare tutto quello che si chiama rendimento, utilità, merito o ricompensa. Il cielo non è in vendita. Coloro che hanno costruito le nostre cattedrali non guardavano l’orologio e sapevano bene che sarebbero morti prima di aver finito; così i loro capolavori sono eterni, perché Dio stesso li ha messi tra le loro mani. Vedi bene che l’abbandono non è pigrizia, ma semplicemente fiducia: una volta per tutte, Dio si occupa di tutto, allora noi occupiamoci di Dio. Di questo, siamo tutti capaci. Questa è la sola cosa di cui tutti siamo capaci.
In Teresa di Lisieux questo si chiama via dell’infanzia spirituale. La trovi troppo difficile perché usa la parola “sacrificio”. Perché credi che un sacrificio sia ancora qualcosa da fare, mentre si tratta di qualcosa da dimenticare; non sopprimere, ma lasciar morire; non scalare il calvario, ma dormire nella mangiatoia di Betlemme: La dura roccia del calvario offre ancora qualche pastura alla vanità; per quanto spoglia sia, è pur sempre una montagna; nella mangiatoia, tutto l’uomo vecchio muore necessariamente di inedia (Charles Gay). La santità non fa male: è una grazia. E Gesù non è meno a Betlemme che sul Golgota; tutto sta nel tenerlo stretto forte al nostro cuore.
Questa “inedia” della mangiatoia radicalizza ancora di più la via dell’infanzia spirituale: a forza di voler imitare la piccola Teresina, il rischio sarà di farne di nuovo un modo efficace per guadagnare la nostra vita, mentre lei stessa ci chiede di perderla: Anche tra i poveri, si dà al bambino ciò che gli è necessario, ma appena cresce, suo padre non vuole più dargli da mangiare e gli dice: – adesso lavora, puoi bastare a te stesso – . È per non sentire questo che non sono voluta crescere, sentendomi incapace di guadagnarmi la mia vita, la vita eterna del cielo (Ultimi colloqui, 6 agosto 1897). Il fatto che Teresa sia dottore della Chiesa non deve indurci in errore, giacché un successo postumo resta comunque un successo, mentre la croce è un insuccesso; più ancora che una sofferenza, quello che dobbiamo accettare, è di fallire la nostra vita.
Ci manca, però, ancora metà della risposta alla tua domanda. Se tutto si riducesse solo a quest’accettazione della nostra inutilità, l’abbandono sarebbe un atteggiamento puramente negativo, una vigliaccheria più che un atto di fede positivo. Stringere Gesù al nostro cuore. Non dimentichiamo il primo movimento che ti ha portato a Giovanni della Croce o a Teresa di Lisieux che è quello dell’amore. Questa seduzione esercitata dalla persona di Gesù, questa passione per lui che hai riconosciuto in loro, è quello che nonostante tutto, malgrado te, ti ha avvicinato tramite loro al suo seguito. E se le loro imprese sono sopra le tue forze, è perché in qualche modo almeno, Gesù ti vuole più vicino a lui sulla croce, come il buon ladrone, primo classificato ad entrare nel suo Regno. Di cosa ti lamenti? In questo cammino, le nostre lentezze, le pigrizie, il nostro esser nulla diventano vantaggi, e l’intera massa del peccato del mondo viene così in nostro aiuto affinché speriamo da Dio solo la sua misericordia; in modo che dopo aver provato di tutto e aver fallito, diciamo con s. Pietro totalmente dispiaciuto per la sua impotenza d’amare: «Sì, Signore, tu sai che io ti amo».
L’umiltà e l’amore sono le due componenti di ogni vita spirituale. Questa nostra inutilità nutre così l’umiltà, e la nostra affezione nutre il nostro amore. La strada dell’inutilità e dell’affezione, la strada del cuore per quelli che mancano di forza: questa volta, non bisogna neppure essere un bambino per seguirla, basta accettare di non essere niente, nient’altro che quello che Gesù farà di noi quando avremo fallito tutto.
«Avete parlato il mese scorso di una via “di inutilità e di affezione”, aldilà dell’infanzia spirituale e dell’abbandono, “via del cuore per quelli che mancano di forza fisica; potete precisare questa via, mentre i maestri ci consigliano piuttosto di diffidare dei sentimenti nella vita spirituale?».
L’abbiamo già detto e lo ripetiamo: l’amore non è la generosità. L’amore rende generosi, ma perché anzitutto è affezione eporta in sé questa attrazione per l’altro che ci prende corpo e anima,e ci fa desiderare di essere una cosa solacon l’essere amato: “non posso vivere senza di te, voglio essere una cosa sola con te, e infine non posso essere me stesso se non in te!” Sia che si tratti di una madre e del suo bambino, di uno sposo e della sua sposa o di un amico e del suo amico, tale è, e sarà sempre il richiamo dell’amore. E questo richiamo viene da Dio stesso: abitare l’altro, essere se stessosolo in lui, essere se stesso amando, ecco ciò che vive la Santa Trinità, e che i teologi chiamano formare una pluralità di persone nella condivisione di un’unica natura. Lasciare uscire da noi questo grido del cuore, accettarne tutte le conseguenze, tutte le croci e tutte le gioie, è ciò che si può chiamare “via d’inutilità e d’affezione”: inutilità perché l’amore non ha altro scopo che se stesso; affezione perché tutti i sentimenti del bambino, dello sposo o dell’amico convergono verso questa dolcezza e questo riposo che noi presagiamo in questa unità che ricerchiamo e in cui infine saremo noi stessi.
Parlare di “via d’affezione” è lasciare sviluppare questo dolce fascino che colui o colei che amo esercita su di me, svegliando nella mia anima la percezione di un assoluto che l’abita e che nello stesso tempo lo supera infinitamente: è l’amore stesso che si dona, dandomi di amare; così al di là dei miei sentimenti sempre provvisori e dei miei desideri che rinascono sempre, è l’amore stesso che amo, amando colui che amo: L’amore basta a se stesso e piace di per sé; è a se stesso merito e ricompensa. L’amore non cerca altra causa, altro frutto all’infuori di sé: il suo frutto è amare. Io amo perché amo, amo per amare (S. Bernardo, Sermone 83 Sul Cantico). Questo prova il piccolo bambino che si sveglia alla vita, riconoscendo non sua madre, ma “la mamma”, non suo padre, ma “papà”; questo è ciò che porta lo sposo verso la sposa, quello che presiede a tutte le nostre amicizie, e questo per prima cosa ci porta verso Dio, perché abbiamo ricevuto lo Spirito di figli, e spinti da questo Spirito, gridiamo verso il Padre chiamandolo Papà (Rm 8,15). Oltre a ciò, ancora, è questo che ha portato Dio verso di noi, e gli farà preferire la morte sulla croce alla separazione da noi: O Padre Eterno, hai voluto far partecipare l’uomo alla tua adorabile Trinità, e cosa te lo ha fatto elevare a una così alta dignità?È l’amore incomprensibile con il quale hai guardato in te stesso la tua creatura; ti sei appassionato a lei, l’hai creata, le hai donato l’essere, per farla godere di te, che sei il Bene supremo (Santa Caterina da Siena, Dialogo 13).
Parlare di “via d’inutilità” sottolinea che le nostre azioni non valgono ciò che producono, ma l’amore che esprimono.In un secolo che predica la produttività e la competizione, questa via ripudia l’efficienza, perché alla sera della nostra vita, saremo giudicati sull’amore (s. Giovanni della Croce), e in materia d’amore l’abbondanza materiale è un handicap, mentre la sobrietà è una libertà: Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel Regno di Dio! (Lc 18,24) In questi tempi di crisi, ringraziamo Dio di rallentare le nostre macchine per ricordarci che amare non è mai redditizio.
Quale rapporto tra vita affettiva e santità? Il nostro tempo, debole riguardo al corpo, è duro riguardo ai cuori, come mostrano le famiglie che vanno in frantumi, l’aberrazione dei costumi e il moltiplicarsi degli stati depressivi: i nostri cuori non sono più protetti dalle forti strutture del villaggio tradizionale o di una comunità, e la vita sociale si concentra nella coppia e nel piccolo gruppo, per i quali le affinità sentimentali contano molto più delle necessità materiali. Così i nostri affetti diventano essenziali nell’equilibrio della nostra vita naturale e soprannaturale; per questo le nostre affezioni non devono essere annientate, ma soprannaturalizzate. Forse ci è impossibile divenire insensibili, ma sarebbe un enorme torto provarlo. Non avremmo guadagnato niente se non una diminuzione insignificante delle più nobili sofferenze della vita. Non si tratta di attenuare la nostra sensibilità, di smorzarla, né di sterminarla come faremmo per un vizio, ma di farne un uso coraggioso per divenire sempre più amici di Dio e più caritatevoli verso gli uomini. Quello che bisogna evitare è l’errore comune di biasimare i sentimenti, e non gli inconvenienti che ne seguono pernon aver corrisposto alla grazia (William Faber, Sentimenti feriti).
S. Francesco di Sales nell’Introduzione alla vita devota (III,19)ricorda la ricchezza degli affetti vissuti da Gesù che testimonia questa unità che ha voluto tra lui e noi e tra di noi: Come tu, Padre, sei in me ed io in te, che anch’essi siano in noi…perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa.Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità (Gv 17,21-23). Tutto il Vangelo declina quest’ amore di unione che, in seguito, solo in seguito,si esprime nelle opere d’amore, perché con le mie opere ti mostrerò la mia fede (Giac 2,18). Ma le opere dell’amore non sono tuttavia l’amore, e quello che Gesù ha voluto e ci dà di volere, è questa unità che sentiamo all’orizzonte dei nostri più nobili sentimenti, e che è l’ultima parola d’amoree, nello stesso tempo, il culmine della nostra gioia: Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena(Gv 15,11).
«In che modo un amore particolarmente intenso, per esempio, come quello di uno sposo per la sua sposa, o di una madre per il proprio figlio, può contribuire a una maggiore santità? E aldilà, come conciliare la vita cristiana come amore incondizionato per Cristo e i nostri affetti umani?»
Chi risponderà a queste domande farà un grande servizio a tutti quelli che pensano che bisogna scegliere tra Dio e lo sposo o i figli, o gli amici ! E sono gli stessi che spesso si privano di una vita d’orazione sotto il pretesto che il loro dovere di stato non lascia loro del tempo. Molto spesso, in effetti, noi opponiamo i due comandamenti di Cristo, amare Dio con tutto il cuore e amare il prossimo come se stessi, mentre il secondo attinge la sua forza dal primo: poiché Dio è amore, una persona più è unita a Dio, più è piena d’amore ci dirà s. Bernardo (Sermone 26 sul Cantico). Così che i veri cuori di spose, madri, figlie sono i cuori delle sante, scriverà mons. Bougaud nella vita di santa Giovanna di Chantal,così tenera nel suo amore materno quanto amante nel suo amore di sposa.
Costatiamo in primo luogo che i grandi santi hanno, di fatto, vissuto dei grandi affetti dei quali non si sono scusati. Se si pensa a s. Bernardo che piange la morte di suo fratello Gerardo: Durante la nostra vita noi ci amavamo così teneramente, con un amore così dolce e tenero. […] Sì, è proprio una morte, quella che, rapendo una sola persona, ne ha ucciso due in un sol colpo! (Sermone 26). Se pensiamo a s. Francesco di Sales che scrive a Giovanna di Chantal: Sento una soavità straordinaria per l’amore che vi porto, perché io amo quest’amore incomparabilmente forte, ampio,senza misura,né riserva(Lettera del 7 luglio 1607), amore senza misura, senza fine, al di là di ogni comparazione e al di sopra di tutto ciò che se ne può dire … (Lettera del 9 aprile 1615), perché penso che al mondo, non ci siano anime che amino più cordialmente, più teneramente, e per dirla tutta francamente, più amorevolmente di me, perché è piaciuto a Dio fare così il mio cuore (Lettera del 1620).
Questi sentimenti sarebbero una semplice concessione alla debolezza umana? Ma perché chiamare debolezza ciò che tutti sentiamo come la parte più bella della nostra esistenza? S. Bernardo o s. Francesco di Sales non hanno fatto che vivere quello che Gesù ci ha ordinato di vivere: Ecco il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato! E come ci ha amato: Se consideriamo il cuore di Gesù Cristo, niente è più dolce, niente è più ricco di bontà. Nessuna creatura mai potrà essergli paragonabile per dolcezza. […] Il suo cuore, più di ogni altro, fu sensibile alla compassione, perché nessuno ha provato piùdi lui, la tenerezza dell’affetto e della pietà (Riccardo di San Vittore, Trattato sull’Emmanuele, II, 21). E dove trovare una più dolce e una più totale dichiarazione d’amore se non nell’eucarestia, quando il Diletto si dona a noi, corpo e anima aldilà di tutto quello che potrebbero sognare gli innamorati del mondo? Allora perché questa diffidenza così diffusa verso i sentimenti di affetto? Parecchi ti diranno forse che non bisogna avere alcun tipo particolare di affetto e amicizia, poiché ciò occupa il cuore, distrae lo spirito, genera voglie … (Introduzione alla vita devota). Sì, questo può accadere. Ma si deve smettere di nutrirsi con il pretesto che questo può rendere golosi? Certamente amare è pericoloso, e del resto Gesù ne è morto; ma è ben più certo che non amare è ancora più pericoloso. Per questo coloro che sono nel mondo e abbracciano la vera virtù, è necessario che si leghino gli uni agli altri con una santa e sacra amicizia, perché tramite essa si incoraggiano, si aiutano, si orientano vicendevolmente al bene (idem); così che non è una misera consolazione in questa vita di avere qualcuno a cui tu puoi essere unito tramite un affetto molto intimo e un vincolo d’amore molto santo, qualcuno nel quale il tuo spirito possa riposarsi e la tua anima dilatarsi, qualcuno i cui colloqui benefici ti servano da rifugio in mezzo alle tristezze (Aelredo di Rielvaux, Lo specchio della carità, III,39).
Ma l’affetto di s. Bernardo per suo fratello o di s. Francesco di Sales per s. Giovanna, va ben aldilà di questo aiuto fraterno e costituisce tra loro un legame veramente “mistico”, di cui l’unione dei due sposi fornisce un’ immagine ancora sbiadita; in effetti si tratta di quelli che, tramite un patto molto prezioso di un’amicizia spirituale, ci sono uniti in modo molto più intimo e più stretto di tutti gli altri,direbbe Aelredo. Infatti, tu potrai riposare da solo a solo con un tale amico nel sonno della pace, nell’abbraccio della carità e il bacio dell’unità, poiché scorre dall’uno all’altro la dolcezza dello Spirito Santo; e ancora tu potrai essere così unito e legato a lui, al punto che il tuo spirito può essere così mischiato al suo che pur essendo due, ne formate uno solo (idem). “Scorrendo dall’uno altro la dolcezza dello Spirito Santo …”: questa relazione è quella del Padre e del Figlio, nella quale sussiste lo Spirito Santo, nel quale sussiste l’Amore donato e ricevuto contemporaneamente. È a questa unità che si riferiva s. Bernardo o s. Francesco di Sales, e la loro esistenza ci mostra che ben lungi dall’isolarli dal resto del mondo, questa relazione privilegiata li ha aperti a una moltitudine di persone, dal momento che l’amore più intenso è,nello stesso tempo, il più universale.
È questa universalità dell’amore che fa della via dell’affetto una via di perfezione. Certo, se si prende dell’affetto solo quel che va a soddisfare il nostro appetito di essere amati e di sentirselo dire, esso nutrirà la ricerca di sé a scapito di qualcuno di cui non si farà altro se non approfittare. E quando non recherà più questa soddisfazione, perché tutto finisce in questo mondo, questo affetto sparirà. Ma questo ribaltamento dell’amore in egoismo non è fatale, e proprio perché un tale affetto affonda le sue radici molto profondamente nella nostra anima, coltivarlo e non sfruttarlo, comporterà una dilatazione del cuore, una generosità e un’abnegazione che saranno le più potenti molle della crescita spirituale.
«Come conciliare la vita cristiana come amore incondizionato di Cristo e i nostri affetti terreni, come per esempio quello per uno sposo o per un amico?»
Un affetto “secondo Cristo”, lungi dal ripiegare su se stessi coloro che si amano, li apre a una universalità dell’amore generando in loro un sovrappiù di santità. Ma come sapere se un affetto è proprio “secondo Cristo”? In risposta a una domanda simile (cf. Semi n° 110), s. Giovanni della Croce ci ha dato il principio per un tale discernimento: Si riconosce così un affetto che nasce dalla lussuria e non da uno spirito buono: quando pensando a questo affetto, invece di crescere il pensiero e l’amore per Dio,è il rimorso che sale alla coscienza. Invece se l’affetto è puramente spirituale, quando aumenta, anche quello per Dio; più vi si pensa, più si pensa a Dio e più ce ne viene desiderio: aumentando nell’uno, si aumenta nell’altro (Notte oscura, I,4).
Affetto “secondo Cristo” e affetto “per Cristo” si rinforzano dunque vicendevolmente. Anzitutto è un fatto di esperienza. Facciamo un esempio: ho la scelta tra passare un’ora con un amico e un’ora a visitare un malato per il quale non provo lo stesso affetto, ma per il quale la mia visita sarebbe un reale conforto. Se scelgo di stare con il mio amico mentre so che Cristo mi chiede di visitare il malato, in realtà io non proverò la felicità dell’amicizia: non sarò unito né al malato né a Cristo né al mio amico come dice s. Giovanni della Croce.
-Ma a questo punto, certuni chiederanno, se si dovrà sempre scegliere di andare a visitare il malato, non finirà che non si vedranno più i propri amici poiché si è sempre più uniti a Cristo facendo la carità che non facendola?
– Assolutamente no. La carità non è nell’ordine del “fare”, che ne è solo una conseguenza. Anche se dessi in cibo tutti i miei beni, ma non avessi la carità, tutto questo non servirebbe a niente (1Cor 13,3). Il malato sarebbe molto deluso che io lo visitassi per dovere, peraltro questo lo fa molto bene il medico o l’infermiera. La mia eventuale visita non deve essere per obbedire ad un” comandamento” di Dio ( l’obbligo l’avrà l’infermiera a causa del suo dovere di stato), ma per seguire un “consiglio evangelico” o se preferite una “beatitudine”. Una “beatitudine” è sempre una preferenza. Quando Gesù ci dice: beati i poveri in spirito …, non dice solo che la gente che si contenta di poco sarà ricompensata; ma che , nascosta in noi, c’è una ricchezza preferibile a tutte le altre cioè Gesù stesso. Ricchezza percepita solo da quelli che sono uniti a lui, così che può aggiungere … a loro appartiene il regno di Dio. Allo stesso modo, visitare il malato per amore e non rendergli solo i doveri di un infermiere, presuppone questa percezione di Cristo malato che solo Cristo può dare e che donerà solo a coloro che si volgono verso di lui perché è lui, cioè nel raccoglimento della preghiera: non si amano i propri amici in sé e per sé, si amano in Dio e per Dio (Fénelon, Opuscolo XXIII).
Ciò vuol dire che non c’è differenza fondamentale tra l’affetto privilegiato di cui trattiamo e le altre nostre relazioni; ma quando quest’ affetto esiste, si amano i propri amici in Dio e per Dio con un amore vivo, tenero, accompagnato da gusto e sensibilità (Idem). Così questa relazione più lucida e più sensibile apre la via a tutte le altre.
Vuol dire anche che quest’ affetto privilegiato è un dono di Dio, che è interno al nostro amore per Cristo e che ne riveste tutte le caratteristiche. Esso ne avrà le esigenze e quindi le croci così come le gioie. Crea verso chi si ama, dei doveri che non si hanno nei confronti di altri, proprio come l’affetto che si ha per i propri figli impone dei doveri che non si hanno nei confronti di quelli degli altri; nello stesso tempo, amarli così permette di amare meglio quelli degli altri. Facciamo ancora un esempio: siete insegnanti e al momento di andare al lavoro, la volontà di Cristo vi obbliga a lasciare i vostri figli per occuparvi di quelli degli altri, cosa meno piacevole di quanto non lo sia restare in famiglia. In qualche modo“sacrificate” i vostri figli per i vostri alunni; ciò vuol dire che i vostri figli, in quel momento, vi fanno percepire quelli degli altri come i vostri, senza aver fatto alcuno sforzo: li servirete come i vostri, sarete attenti a loro come ai vostri, perché in realtà saranno divenuti vostri. Così l’affetto privilegiato che avrete nei confronti dei vostri figli, vi avrà permesso di essere uniti contemporaneamente a Cristo, ai vostri figli e a quelli degli altri.
Abbiamo appena usato la parola sacrificio: vediamo dunque che sacrificare non è distruggere, ma dilatare; in realtà è in questa offerta che l’affetto si apre e diviene unione: ecco perché si tratta di un cammino di santità, perché non è la sensibilità, ma l’amor proprio, che distrugge le nostre amicizie. Allora ci si consegna senza remore a quest’amicizia pura, perché è Dio che la imprime, si ama attraverso di lui senza esserne sviati; è lui che si ama in ciò che fa amare (Fénelon, idem).
E più quest’affetto sarà forte, più si scoprirà che l’unione a colui che si ama così, è interna all’unione con Cristo, perché un sacrificio trascina l’altro e insieme rinforza e apre contemporaneamente questa unione. Il più grande di questi sacrifici sarà molto semplicemente quello di accettare il logorio di tutto quello che di umano c’è in quest’affetto; perché i sentimenti si consumano, proprio come la grazia della giovinezza e tutto quello che avrà sedotto e unito in un primo momento quelli che si amano; ma tutte queste occasioni di sacrifici sono altrettanti motivi per amare di più e non meno, cioè di amare l’altro per quello che è, aldilà della soddisfazione effimera che ci apporta. È questo lavoro del tempo che verifica la qualità spirituale di quest’affetto; se fosse falso,da lungo tempo sarebbe morto; ma se è “secondo Dio”,è in questa spiritualizzazione che si prova la purezza squisita che nasce dal fatto che si ama Gesù solo, anche amando molto e quasi senza misura coloro che si amano in lui e per lui (Mons. Gay, Lettera 25 alla signorina T.C.).
«Fare orazione, è riposare in Dio, abbandonarsi alla sua volontà. Questo riposo non è forse impossibile o meglio non sarebbe forse molto egoista, vedendo l’angoscia e lo stress dei nostri contemporanei vittime dell’ateismo e dell’assurdità di certe ideologie?»
Il solo rimedio all’angoscia e allo stress è la fiducia e la calma: correte dietro a un animale impaurito ed egli correrà sempre più veloce; fermatevi ed egli si fermerà. In un mondo impaurito, il servizio da rendere è quello di fermarsi. Allora la paura scompare e con essa l’infelicità. Perché a ben riflettervi, non c’è altra disgrazia se non quella di aver paura se non quella immaginaria.
Paura di cosa, in effetti? Dio è infinitamente buono e, una volta per tutte, lui solo crea, lui solo fa, per l’esattezza, come lo proclamiamo ogni domenica nel Credo; ecco perché faremo soltanto quello che egli farà in noi; altrimenti saremo nell’illusione di fare, illusione che ha perduto Adamo ed Eva, che hanno preferito prendere la situazione in mano per una buona causa («Sarete come dei!»), invece di lasciar fare Dio:
La nostra attività vuole sempre l’esteriorità e il movimento sotto il pretesto di agire per Dio, ma spesso perché essa non sa riposarsi in Dio, né attendere o discernere l’ordine di Dio per unire l’azione con il riposo…
Di certo, abbiamo facilmente una cattiva coscienza a essere felici mentre tanti dei nostri contemporanei non lo sono. Ma la cattiva coscienza è sempre cattiva consigliera: i contemporanei di Gesù non erano meno angosciati o stressati dei nostri; ebbene,
…Dei trentatré anni vissuti sulla terra, Gesù ne ha passati trenta nell’oscurità di una vita privata e di umile condizione, malgrado lo zelo per la gloria di Dio e per la salvezza degli uomini di cui la sua anima era infiammata, malgrado i disordini e gli innumerevoli scandali che gli trafiggevano il cuore. […] E noi, cediamo ai minimi convincimenti umani, senza consultare molto la volontà di Dio, per impegnarci in opere esteriori e ministeri pericolosi, o piuttosto ci lasciamo sedurre dal nostro amor proprio che ci persuade, spesso senza molto fondamento, che dobbiamo consegnarci a loro e che siamo in grado di riuscirvi!
A. de Lombez, Trattato sulla pace interiore, IV, 8
Come spiegare quest’apparente passività di Gesù? Come spiegare che la patrona delle missioni è una carmelitana morta a 24 anni senza essere mai uscita dalla clausura? Se non perché l’orazione non è un ritirarsi dall’azione, ma al contrario un “allacciamento” al creatore del cielo e della terra, infinitamente agente ed efficace, “atto puro”, direbbero i filosofi, eppure perfettamente immobile: Dio è sempre agente e sempre tranquillo; l’anima unita a Dio partecipa ugualmente alla sua azione e al suo riposo; agisce sempre anche quando non se ne accorge (Jean-Nicolas Grou), proprio come si legge tranquillamente il giornale, andando a 300 all’ora sul treno ad alta velocità. È quello che ha fatto,di s. Teresa del Bambino Gesù, la patrona delle missioni: Madre mia, scriveva alla fine della sua breve vita, dal momento che ho compreso che mi era impossibile fare qualcosa da me stessa, […] ho capito che l’unica cosa necessaria era di unirmi sempre più a Gesù e che il resto mi sarebbe stato donato come sovrappiù (Storia di un’anima). Un buon esperto commenta: Solo per questa scoperta si dovrebbe consacrare il suo autore come modello e dottore dei contemplativi. Chi ha mai osato dire, con tanta semplice determinazione: la parte dell’uomo nell’azione è la contemplazione? Si unisca sempre più a Gesù: il resto, cioè l’azione stessa, gli sarà donato come sovrappiù! (A. Combes, Theresiana).
Allora come sapere se Dio ci attende in chiesa o in una situazione più apparentemente efficace? Con s. Teresa e tutti i santi, l’unica domanda da porsi è quella della nostra unione con Lui, tanto efficace quanto riposante:
Bisogna essere pieni di zelo, ma di uno zelo pieno d’amore e di fervore. Lo zelo non deve mettervi in un’agitazione e in un’attività che vi gettino senza tregua nel turbamento e nel disordine. Per una riprova di uno zelo vero e buono, bisogna che troviate più fervore interiore, più raccoglimento e desiderio di piacere a Dio, impegnandovi nelle opere che iniziate, di quanto ne avreste se non le faceste.
François Libermann, Lettera del 16 giugno 1842.
«Ho una regola personale che prevede un tempo di orazione quotidiana di circa mezz’ora. Agli inizi vi ero fedele al minuto; adesso ho l’impressione che questa precisione sia un po’ artificiosa. È così importante che la durata dell’orazione sia precisamente rispettata?».
1) Durante secoli, non ci si è assolutamente preoccupati di misurare il tempo di preghiera. Non per mancanza di orologi (orologi e clessidre erano conosciuti da tempi molto antichi) ma perché fino alla fine del Medio Evo si era più attenti alla qualità del tempo che alla sua quantità. Lo stesso quarto d’ora sembra lungo quando si attende alla cassa di un supermercato e breve quando si parla con un amico. Il tempo, in realtà, esiste soltanto nella mente di chi lo sta perdendo!
Inoltre, in una visione cristiana delle cose, la vera misura del tempo è l’eternità: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno, dicono le Scritture (2Pt 3, 8), e la parabola dell’operaio dell’undicesima ora ricorda che il tempo che Dio dona a noi, è fatto meno per produrre e più per amare e convertirsi. In questo senso, secondo la teoria della relatività del tempo, un’ora di orazione non è necessariamente meglio di mezz’ora. Riteniamo che, lunga o breve, la preghiera vale per l’amore che essa accende nel nostro cuore e non per lo sforzo da noi compiuto per “mantenere” il tempo stabilito.
2) Certo, ieri come oggi era necessario orientarsi bene nel tempo o piuttosto nell’eternità; ma ci si contentava di una valutazione molto generale e il ciclo liturgico ha seguito questa impostazione fino a quando la cristianità è prevalsa in Europa, conferendo a ogni istante il suo valore di eternità, poiché non era netta la linea di demarcazione tra sacro e profano: la giornata iniziava con il canto delle lodi del monastero vicino, continuava con quello della prima, cioè della prima ora, poi della terza, della sesta, etc., gli inni propri di ciascuna ora ricordavano l’altezza del sole nel cielo. Inoltre, questo riferimento costante alla luce del sole era variabile secondo le stagioni: le ore del giorno sono corte d’inverno e lunghe d’estate, al contrario quelle della notte. E per tempi brevi, non si parlava di minuti e di secondi, ma del tempo di un’Ave Maria o di un Pater. In forza di questa visione liturgica del tempo, l’orazione è l’intensificarsi della preghiera permanente che costituisce l’essenza stessa della vita cristiana.
Dall’inizio del 1450 tuttavia, il monaco e il suo campanile fanno posto al mercante e all’orologio, presto presente in tutti i crocicchi: ci si mette a voler “guadagnare” tempo. Poiché il tempo non è più percepito spontaneamente come gratuito e sacro, la preghiera presuppone di dover rompere con il corso profano delle cose per riservare ad essa, nella scansione dei nostri orari, dei momenti nei quali ritroviamo la logica contemplativa del tempo santamente perduto. Gli Esercizi di s. Ignazio, grande pedagogo della preghiera moderna, sono impossibili da praticare senza orologio e se siamo tentati di abbreviare un’orazione decisamente troppo secca è proprio perché il Nemico è solito mettere in moto tutta la sua ingegnosità per farci ridurre il tempo che dobbiamo dare alla contemplazione, alla meditazione o alla orazione (12° annotazione preliminare). La prima fedeltà che dobbiamo ormai alla preghiera è proprio la fedeltà al tempo di preghiera.
3) Veniamo alla domanda: questa fedeltà deve essere, per così dire, meccanica? S. Ignazio dice ancora che l’orazione è talmente importante che è meglio prolungarla un po’ piuttosto che abbreviarla: Colui che pratica gli esercizi spirituali, per combattere la desolazione e vincere le tentazioni, deve sempre perseverare un po’ oltre l’ora stabilita. Così, si abituerà, non solo a resistere al nemico ma anche a dominarlo (13ª annotazione). S. Ignazio si rivolge tuttavia a chi sta facendo un ritiro, la cui vita di preghiera è prevedibilmente ancora in fase iniziale e dunque nettamente distinta dal resto delle sue occupazioni, al punto che una rottura forzata con esse è inevitabile. Eppure, quando la preghiera avrà meno bisogno di sforzi, perché divenuta più naturale e di fatto continua, è tutto l’insieme della vita che avrà ritrovato l’equilibrio contemplativo dei tempi della cristianità. S. Giovanni della Croce, del resto, indica quale segno di un’autentica contemplazione il fatto che “l’anima non ha più alcun gusto” ad applicarsi ad altro che non sia Dio (Salita del Monte Carmelo, II, 3). La durata esatta dell’orazione conta quindi meno della permanenza in quest’attenzione amorosa, di cui i momenti propriamente dedicati all’orazione ne sono solo l’intensificazione.
Dato che l’abitudine moderna è però quella di cronometrare tutto, la nostra conclusione, insieme contemporanea e medievale, sarà la seguente: a) Fissiamo un tempo alla durata della nostra orazione, soprattutto agli inizi (Semi n° 129 può essere di aiuto). 2) Quando l’orazione entrerà a far parte della nostra vita stabilmente, non guardiamo più il nostro orologio, tranne che per verificare se stiamo barando: se ci accorgiamo che la nostra orazione tende a diminuire, se non addirittura a scomparire, riprendiamo in mano l’orologio. c) In un equilibrio di vita squisitamente contemplativo, si sperimenta che ci sono dei momenti in cui l’attenzione a Dio, per altro permanente nell’intimo di noi stessi, passa in primo piano, nella nostra coscienza: momenti in cui siamo meno assorbiti dalle occupazioni profane, momenti in cui Dio si impone in un certo modo da se stesso e si mette a “parlarci”, momenti di azione di grazia dopo la comunione, momenti in cui la lettura di un libro spirituale tende ad interrompersi a favore della presenza evidente di Dio, etc. Se percepiamo che questi momenti, di fatto, sono equivalenti al tempo dell’orazione prefissato, allora lasciamo ampiamente alla grazia lo spazio per organizzare l’uso del nostro tempo: l’orazione non è un penoso dovere, ma un momento in cui si gioisce del Diletto in modo tanto disteso quanto egli vorrà.
«Bisogna darsi dei tempi precisi di preghiera? Posso pregare il rosario durante questo tempo o almeno una parte di questo tempo? O meglio questo tempo deve essere riservato alla sola meditazione della parola di Dio?».
Questa domanda del tempo da riservare all’orazione viene riproposta regolarmente e abbiamo già dato qualche risposta (cf Semi n° 129 e 166). Ma, a dire il vero, la questione ci sembra impostata al contrario, perché l’orazione non è una parentesi in una vita pagana, o meglio religiosamente neutra: è tutta la vita di un cristiano che è chiamata a trasformarsi poco a poco in orazione e la sua pratica in un momento specifico non è che la sua applicazione immediata.Certo, la durata di questa pratica è fissata negli orari degli istituti religiosi e dovrebbe essere nel regolamento personale di tutti quelli che prendono sul serio la vita spirituale, ma in vista di questa orazione permanente o meglio, di questa unione permanente della nostra volontà con quella di Dio: volere in ogni momento, quello che Dio vuole, ecco quello per cui Dio ci chiama a vivere e a condividere la sua vita, ecco la ragione d’essere della pratica dell’orazione.
La domanda allora è: come vivere questa orazione permanente, come decidere ed agire in funzione della sola volontà di Dio? Abbiamo visto nel testo precedente che s. Vincenzo de Paoli era contemporaneamente molto esigente sulla fedeltà all’esercizio dell’orazione e molto liberale sul modo di viverlo. L’essenziale, ci direbbe, è che il nostro spirito sia continuamente “elevato a Dio”: Mie care sorelle, è necessario che voi ed io prendiamo la risoluzione di non lasciare mai di fare ogni giorno l’orazione. Dico tutti i giorni, figlie mie, ma se si potesse, direi: non la lasciamo mai e non passiamo mai del tempo senza essere in orazione, cioè senza avere il nostro spirito elevato a Dio.
Su questa accezione molto ampia di orazione, molto illuminante è la risposta di s. Vincenzo allo scoraggiamento di una suora analfabeta (ed erano numerose tra le prime Figlie della Carità),la quale considerava l’orazione come un esercizio riservato agli intellettuali: Sorelle mie, se non sapete leggere, siete un po’ da compatire e ci si dovrebbe augurare che ciò non accadesse affatto…Cosa bisogna fare, dunque, quando questo si verifica? Bisogna ricordarsi della Passione di Nostro Signore nell’Orto degli Ulivi, commuoversi, considerando la sua tristezza e il contenuto di tale orazione, manifestare grande desiderio di imitarlo nella sua rassegnazione e soprattutto pregare Dio quando sarete in qualche difficoltà. Voi che non sapete leggere, non scoraggiatevi affatto, figlie mie; purché abbiate buona volontà, Dio vi darà il dono dell’orazione e tanto più, quantomeno sarete speculative, purché abbiate il desiderio di piacergli. “Ricordarsi della Passione di Nostro Signore”, unirsi a lui nell’Orto degli Ulivi o in ogni altro mistero, è esattamente per questo che si dice il suo rosario: Nessuna di voi è così ignorante da non conoscere la vita di Nostro Signore: come si è incarnato, la sua nascita nella grotta di Betlemme, la sua circoncisione, l’adorazione dei tre re, la sua fuga in Egitto e il resto della sua vita fino alla sua morte. State lì, sorelle mie, voi che non sapete leggere; attaccatevi ai misteri della vita e morte di Nostro Signore…Se rimanete nella secchezza, dite una decina del vostro rosario.Coraggio, sorelle mie, consolatevi; se fate così, io dico che voi farete bene l’orazione e forse anche meglio di quelle che sanno leggere!
Ma abbiamo visto s. Vincenzo de Paoli andare ancora oltre, poiché il servizio ai malati ha la priorità quando una sorella della Carità deve veramente scegliere tra i due: Questo non è affatto abbandonare Dio ma lasciar Dio per Dio, cioè un’opera di Dio per farne un’altra, o di maggiore dovere, o di maggior merito.Tuttavia“avere la priorità” non vuol dire esattamente sostituire, e questo perché s. Vincenzo aggiunge: Se quando sarete di ritorno, avrete modo di fare un po’ di orazione o di lettura spirituale, bene! Ma non bisogna preoccuparsi, né credere di aver mancato, quando la perderete; perché non la si perde quando si lascia per un motivo legittimo.In altre parole, la norma rimane la fedeltà alla regola ma quando accade un imprevisto, voler “riprendere” a qualunque costo il tempo perduto, è ancora una volta perdere il proprio tempo. Pertanto ci sembrerà più sensato, invece di osservare meccanicamente la nostra durata del tempo di orazione, semplicementecontrollare di tanto in tanto se, una volta fissata la nostra regola personale come indicato sopra, la nostra vita progredisce verso questa orazione permanente che definisce la vita cristiana. Se è sì, continuiamo senza inquietudine, se non lo è, senza dubbio dobbiamo rivedere questo regolamento.
E questa docilità si applica anche alla domanda iniziale: l’esercizio dell’orazione deve essere riservato alla sola meditazione della parola di Dio? Molti cristiani sono incapaci a meditare, sia perché sono particolarmente poco intellettuali, sia perché vivono molto semplicemente alla presenza di Dio, “pensare” a lui supporrebbe di ritirarsi da questa presenza, poiché si pensa solo a chi è assente. In entrambi i casi, s. Vincenzo ci indica il giusto atteggiamento: Voi mi direte forse che siete così disperse, anche quando pregate Dio, che non potete stare un quarto d’ora senza distrazione. Non vi stupite…In uno di questi giorni parlavo a un buon prete che mi disse che non aveva spesso né gusto né soddisfazione, tranne quella di dire: «Mio Dio, sono così alla vostra presenza per fare la vostra santissima volontà.Mi basta che mi vediate». Fate lo stesso!
Poiché l’esperienza mostra che una cosa tanto semplice ci sembra in realtà troppo semplice:
Alcuni mi dicono: «Secondo me, non faccio niente, non vedo nessun progresso; niente di quello che si fa o si dice, mi tocca. Vedo le mie sorelle così raccolte nell’orazione e io sempre distratta; se si fa una lettura, esse vi trovano tanto piacere e io mi annoio. Mi sembra che questo sia un segno che Dio non mi vuole qui, poiché non me ne dà lo spirito, come fa con le altre. Sono solo un cattivo esempio». Mie care sorelle, questa è una tentazione dello spirito maligno, che si sforza di nascondervi il bene che voi fate, facendo quello che dovete, pur non provandoalcuna consolazione.
«Nel nostro tempo, gli scandali si moltiplicano all’interno della Chiesa intorno a fondatori per lungo tempo considerati autentici profeti. Come essere sicuri che un maestro spirituale non sia un menzognero e che il suo insegnamento non ci trascini fuori dalla vera fede?»
S. Paolo ci ha prevenuti dicendo (1Cor 13) che nessuno è proprietario dei suoi carismi, cioè dei doni dello Spirito Santo destinati a costruire la Chiesa, e che la sicurezza della fede è assicurata in ultima analisi dai Pastori della Chiesa – ieri gli apostoli intorno a Pietro, oggi i vescovi intorno al Papa. Sono loro che giudicano i profeti e non viceversa. Quindi piuttosto che dire: «Vedete come la Chiesa è debole e come gli uomini di Chiesa sono peccatori!», diciamo piuttosto: «Vedete come è forte la Chiesa, per sopravvivere dopo 2000 anni agli uomini di Chiesa peccatori!». Tocchiamo lì il mistero di Cristo stesso, il mistero dell’Incarnazione: «Perché sogniamo sempre un Cristo-Chiesa trionfante agli occhi degli uomini, non possiamo sempre ricordarci che il mistero di Cristo è il mistero della Chiesa, e fino alla fine dei tempi egli sarà il salvatore umiliato, mimetizzato sotto le sembianze di uomini limitati e peccatori, ed in loro dovremo riconoscerlo» (Madeleine Delbrêl, Noi delle strade).
Nostro Signore si mimetizza; si ha un bel negare, ma si cerca sempre di vederlo, mentre lui ci chiede di credere in lui. Osserviamo con quale cura Gesù ha cancellato tutte le sue tracce, rifiutando ogni potere mondano e scrivendo solo sulla sabbia. In effetti, se i potenti di questo mondo, avessero riconosciuto il Signore della gloria, non lo avrebbero crocifisso (1 Cor 2, 7s), e Gesù sarebbe stato privato di amarci senza nulla in cambio, per puro amore. Proprio perché amore, Dio è invisibile e non si nota più di quanto non si noti la luce che ci illumina. Gesù non smette mai di ricondurci a questa trasparenza della fede, condizione stessa di questo amore: Perché mi hai veduto, credi; beati quelli che crederanno senza aver veduto! (Gv 20,22).
Quindi piuttosto che lamentarci delle debolezze umane della Chiesa, rallegriamoci del fatto che Dio non ha atteso la nostra santità per donarci la sua, così come la messa resta la messa quando il pane “frutto della terra e del nostro lavoro”, è raffermo e il vino un po’ acidulo: In un Borgia, la funzione di papa era intatta, restava il Padre, come un cervello eroso da un tumore resta un cervello e non può essere sostituito da altro. […]. Per noi si tratta di “credere” a queste funzioni vitali assunte dagli uomini. Questo può essere un atto di fede facile o spaventosamente oneroso; in ogni caso, per essere autentico si richiede un superamento di questi uomini e di noi stessi. Senza questo non sarebbe più Fede. […] Si tratta di vivere la verità, di vivere in verità questo mistero prodigioso di Cristo «effuso e comunicato», riceverlo cosi tal quale si dona e come si dona, attraverso quelle che appaiono le peggiori constatazioni (Madeleine Delbrêl, Appunti del 1952).
Gli autori che lei cita, soprattutto Francesco di Sales, ci invitano spesso all’abbandono. Ma come sapere se questo abbandono non è semplicemente la tiepidezza di un’anima che, con il pretesto di lasciar fare al Buon Dio, è in realtà indifferente a Gesù?»
Non confondiamo la tiepidezza con l’impressione di tiepidezza: la sola cosa da esaminare per sapere se amiamo o no il Signore, è la conformità della nostra volontà alla sua, quali che siano peraltro le nostre impressioni di amarlo o di non amarlo:
In materia di perfezione, non c’è che una cosa da fare, è quella di lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio senza avere altro scopo né altro proposito se non quello di volere eseguire la sua adorabile volontà, in modo che non si senta più quello che si vuole o non si vuole, ma solamente ciò che Dio vuole.
Claude-François Milley (1668-1720), Lettera del 1710
Così occorre distinguere bene tra la noncuranza, atteggiamento negativo di abdicazione e di ripiegamento su di sé, e l’abbandono vero, atteggiamento positivo di fiducia in qualcuno, di relazione con una persona:
Non è precisamente alle cose volute da Dio che bisogna abbandonarsi; è a lui e solo a lui che ci si deve abbandonare.
Charles Gay (1818-1892), Sulla vita e le virtù dei cristiani, II, Sull’abbandono
Mediante ciò saremo contemporaneamente in uno stato di abbandono, eppure più attivi che mai:
Il bambino che si abbandona nelle braccia di sua madre, si consegna tramite la stessa a tutti i movimenti che sua madre riterrà utili che faccia con lei.
Idem
Questo fa sì che quando si è abbandonati a Dio:
Si mette una buona e ragionevole previdenza nell’ordinare ogni cosa come si conviene, per noi e per il prossimo, per il nostro servizio e per quello della carità comune, a fare ordinatamente e con intelligenza tutto quello che si presenta: lo stesso bene divino che si cerca nella passività, si deve cercare anche in ogni attività, che si lavori, che si parli, che si mangi, che si beva, che si dorma o che si vegli.
Giovanni Taulero (1300-1361), Sermone 62
Mentre accade l’inverso per quelli che sono falsamente abbandonati:
Non cercano Dio con un amore effettivo né con una libertà sovrannaturale … Hanno stabilito che il più alto grado di santità è quello dell’uomo che segue in ogni modo la sua natura ed è senza vincoli, così che possa, in se stesso, seguire l’inclinazione del suo spirito verso la tranquillità e nel contempo seguire, all’esterno, i piaceri del corpo in ogni suo movimento nonché la soddisfazione della carne.
Jean Ruusbroec (1293-1381), Il libretto della Spiegazione
Questo è il falso abbandono che è stato condannato sotto il nome di “quietismo” nel 1687 da papa Innocenzo XI nella bolla Cœlestis Pastor ; ecco l’essenziale delle affermazioni a cui si riferisce, e nelle quali si riconoscerà l’indifferenza a Gesù che si veste, talora, in modo improprio con il nome di abbandono:
La vita interiore consiste nell’annientare le potenze dell’anima… Essa è senza conoscenza né amore … Dio vuole agire in noi senza di noi (Proposizioni 1 e 2)… L’anima giunta alla morte mistica non può più volere altro da quello che Dio vuole, perché non ha più volontà, avendogliela Dio tolta ( Proposizione 61).
Sulla stessa linea gli stessi affermano che:
Chi ha consegnato il suo libero arbitrio a Dio non deve più preoccuparsi di nulla, né dell’inferno, né del paradiso, né della sua salvezza (Proposizione 12).
Cosa che distrugge il cuore stesso della fede cristiana, nella quale, certo, non ci si preoccupa più della salvezza, ma perché si è nelle braccia del Salvatore:
Ma chi si prenderà cura della mia salvezza? – E andiamo! Ancora ignorate che il modo più sicuro per riuscirvi, è di lasciarne la cura a Dio, per non occuparsi più che di lui, come farebbe un uomo che, al servizio di un grande re che l’avrebbe legato a lui, si abbandonerebbe totalmente a lui per la sua sussistenza, non pensando più se non al servizio e agli interessi del suo padrone?
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera del 1735
Quello che è condannato e condannabile nel falso abbandono è dunque una distruzione dell’anima, là dove gli autentici discepoli di Gesù parlano al contrario della sua maturazione:
In funzione di questo abbandono completo, aderiamo perfettamente alla sua divina azione e, tramite questa perfetta adesione, partecipiamo alla perfezione del suo spirito di santità che agisce in noi e, grazie a questa incomprensibile partecipazione, la santità di Gesù si espande nella nostra anima e la rende santa.
François Liberman (1802-1852), Lettera del 12 agosto 1837
Se ne riconosceranno le conseguenze nella vita d’orazione: là dove il falso abbandono pigro fa sì che:
Poiché la rassegnazione e l’orazione sono la stessa cosa, se ci si addormenta nell’orazione, essa continua lo stesso.
Cœlestis Pastor, Proposizione 25
La pace profonda dell’anima abbandonata in Dio è al contrario l’armonia di un’anima corrispondente e attenta alla sua volontà:
Occorre trovare questa tranquillità, non perché è madre di soddisfazione, ma perché è figlia dell’amore di Dio e della rassegnazione (= consegna fiduciosa ) della nostra volontà.
S. François di Sales (1567-1622), Lettera del 16 luglio 1608
Per dirla in altro modo, l’orazione abbandonata convoglia tutte le energie dell’anima verso l’ “attenzione semplice ed amorosa di Dio” (definizione di contemplazione secondo s. Giovanni della Croce ), mentre l’orazione oziosa è senza alcuna energia, e si preoccupa sempre meno di far la sua volontà.
Ho molto semplicemente la sensazione di perdere il mio tempo nell’orazione: non ho che distrazioni, non mi rende migliore, e durante questo tempo potrei fare delle cose utili al prossimo
1) Durante secoli, non ci si è assolutamente preoccupati di misurare il tempo di preghiera. Non per mancanza di orologi (orologi e clessidre erano conosciuti da tempi molto antichi) ma perché fino alla fine del Medio Evo si era più attenti alla qualità del tempo che alla sua quantità. Lo stesso quarto d’ora sembra lungo quando si attende alla cassa di un supermercato e breve quando si parla con un amico. Il tempo, in realtà, esiste soltanto nella mente di chi lo sta perdendo!
Inoltre, in una visione cristiana delle cose, la vera misura del tempo è l’eternità: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno, dicono le Scritture (2Pt 3, 8), e la parabola dell’operaio dell’undicesima ora ricorda che il tempo che Dio dona a noi, è fatto meno per produrre e più per amare e convertirsi. In questo senso, secondo la teoria della relatività del tempo, un’ora di orazione non è necessariamente meglio di mezz’ora. Riteniamo che, lunga o breve, la preghiera vale per l’amore che essa accende nel nostro cuore e non per lo sforzo da noi compiuto per “mantenere” il tempo stabilito.
2) Certo, ieri come oggi era necessario orientarsi bene nel tempo o piuttosto nell’eternità; ma ci si contentava di una valutazione molto generale e il ciclo liturgico ha seguito questa impostazione fino a quando la cristianità è prevalsa in Europa, conferendo a ogni istante il suo valore di eternità, poiché non era netta la linea di demarcazione tra sacro e profano: la giornata iniziava con il canto delle lodi del monastero vicino, continuava con quello della prima, cioè della prima ora, poi della terza, della sesta, etc., gli inni propri di ciascuna ora ricordavano l’altezza del sole nel cielo. Inoltre, questo riferimento costante alla luce del sole era variabile secondo le stagioni: le ore del giorno sono corte d’inverno e lunghe d’estate, al contrario quelle della notte. E per tempi brevi, non si parlava di minuti e di secondi, ma del tempo di un’Ave Maria o di un Pater. In forza di questa visione liturgica del tempo, l’orazione è l’intensificarsi della preghiera permanente che costituisce l’essenza stessa della vita cristiana.
Dall’inizio del 1450 tuttavia, il monaco e il suo campanile fanno posto al mercante e all’orologio, presto presente in tutti i crocicchi: ci si mette a voler “guadagnare” tempo. Poiché il tempo non è più percepito spontaneamente come gratuito e sacro, la preghiera presuppone di dover rompere con il corso profano delle cose per riservare ad essa, nella scansione dei nostri orari, dei momenti nei quali ritroviamo la logica contemplativa del tempo santamente perduto. Gli Esercizi di s. Ignazio, grande pedagogo della preghiera moderna, sono impossibili da praticare senza orologio e se siamo tentati di abbreviare un’orazione decisamente troppo secca è proprio perché il Nemico è solito mettere in moto tutta la sua ingegnosità per farci ridurre il tempo che dobbiamo dare alla contemplazione, alla meditazione o alla orazione (12° annotazione preliminare). La prima fedeltà che dobbiamo ormai alla preghiera è proprio la fedeltà al tempo di preghiera.
3) Veniamo alla domanda: questa fedeltà deve essere, per così dire, meccanica? S. Ignazio dice ancora che l’orazione è talmente importante che è meglio prolungarla un po’ piuttosto che abbreviarla: Colui che pratica gli esercizi spirituali, per combattere la desolazione e vincere le tentazioni, deve sempre perseverare un po’ oltre l’ora stabilita. Così, si abituerà, non solo a resistere al nemico ma anche a dominarlo (13ª annotazione). S. Ignazio si rivolge tuttavia a chi sta facendo un ritiro, la cui vita di preghiera è prevedibilmente ancora in fase iniziale e dunque nettamente distinta dal resto delle sue occupazioni, al punto che una rottura forzata con esse è inevitabile. Eppure, quando la preghiera avrà meno bisogno di sforzi, perché divenuta più naturale e di fatto continua, è tutto l’insieme della vita che avrà ritrovato l’equilibrio contemplativo dei tempi della cristianità. S. Giovanni della Croce, del resto, indica quale segno di un’autentica contemplazione il fatto che “l’anima non ha più alcun gusto” ad applicarsi ad altro che non sia Dio (Salita del Monte Carmelo, II, 3). La durata esatta dell’orazione conta quindi meno della permanenza in quest’attenzione amorosa, di cui i momenti propriamente dedicati all’orazione ne sono solo l’intensificazione.
Dato che l’abitudine moderna è però quella di cronometrare tutto, la nostra conclusione, insieme contemporanea e medievale, sarà la seguente: a) Fissiamo un tempo alla durata della nostra orazione, soprattutto agli inizi (Semi n° 129 può essere di aiuto). 2) Quando l’orazione entrerà a far parte della nostra vita stabilmente, non guardiamo più il nostro orologio, tranne che per verificare se stiamo barando: se ci accorgiamo che la nostra orazione tende a diminuire, se non addirittura a scomparire, riprendiamo in mano l’orologio. c) In un equilibrio di vita squisitamente contemplativo, si sperimenta che ci sono dei momenti in cui l’attenzione a Dio, per altro permanente nell’intimo di noi stessi, passa in primo piano, nella nostra coscienza: momenti in cui siamo meno assorbiti dalle occupazioni profane, momenti in cui Dio si impone in un certo modo da se stesso e si mette a “parlarci”, momenti di azione di grazia dopo la comunione, momenti in cui la lettura di un libro spirituale tende ad interrompersi a favore della presenza evidente di Dio, etc. Se percepiamo che questi momenti, di fatto, sono equivalenti al tempo dell’orazione prefissato, allora lasciamo ampiamente alla grazia lo spazio per organizzare l’uso del nostro tempo: l’orazione non è un penoso dovere, ma un momento in cui si gioisce del Diletto in modo tanto disteso quanto egli vorrà.
Dopo mesi che mi impegno ad essere fedele all’orazione, ho l’impressione di essere sempre meno fedele all’insieme della mia vita cristiana. E sono giunta al punto di chiedermi se devo veramente continuare …
Avete notato che sono i santi a parlare del peccato, mai i peccatori? In effetti, il peccatore non si cura di esserlo! Allora, senza dubbio non sei impeccabile, però non è il peccato che aumenta nella tua vita, ma bensì la coscienza che ne hai, e questo perché la luce di Dio entra sempre più nella tua anima:
Su ciò devo dirvi che noto in voi una grande grazia sulla quale voi non riflettete: mi sembrate pienamente compenetrata dalle vostre miserie, debolezze, difetti e imperfezioni. Ebbene, ciò accade solo nella misura in cui Dio si avvicina a noi e noi viviamo e camminiamo nella sua luce che, senza nessuna riflessione da parte nostra, ci fa vedere e sentire, conoscere e scorgere dentro di noi un abisso di miseria e di corruzione. Ecco uno dei più grandi segni di progresso nelle vie di Dio e dell’interiorità. A ciò voi avete mai pensato per renderne grazie! Non resta più al momento presente che cercare di vivere in pace, in conformità alla divina volontà nel mezzo di questa voragine di miseria e di debolezza.
Jean –Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 57
Quanto alla vostra tentazione di lasciare perdere tutto, essa indica chiaramente che l’urgenza è di non lasciare perdere! Non dimentichiamo mai che
Coloro che hanno cominciato a esercitarsi nell’orazione non devono mai perdere coraggio con il pretesto che se ricadessero nel peccato, non potrebbero continuarla senza divenire ancora peggiori…La trappola che il demonio mi tese facendomi credere che essendo così malvagia come ero, io non potevo senza temerità continuare a fare orazione, fu la causa per cui la lasciai pere diciotto mesi, o almeno per un anno, non mi ricordo più bene il tempo, e questo solo mi sarebbe bastato per precipitarmi nell’inferno senza che i demoni se ne immischiassero. Quale cecità può essere più grande? E questo nemico mortale degli uomini sa bene ciò che fa, quando si ingegna a spingerci così nel precipizio! Non ignora, il traditore, che un’anima che continua nell’orazione è perduta per lui, e che gli errori nei quali la fa cadere, invece di danneggiarla, le servono con l’aiuto di Dio, ad avanzare nel suo servizio.
S. Teresa d’Avila (1515-1582), Autobiografia XIV (trad. Arnaud d’Andilly)
Per degli anni, prima bambina poi fanciulla, rendevo grazie dopo la comunione con fervore. Adesso, anche con i più bei testi, al massimo dopo cinque minuti, sono assolutamente all’asciutto, distratta, etc.
Proprio perché non sei più un bambino, spiritualmente parlando,
Occorre sapere che, poiché l’anima si volge con determinazione verso Dio per servirlo, di solito Dio si mette a nutrirla spiritualmente e ad accarezzarla come una madre piena di amore fa con il suo tenero piccolo: lo riscalda al calore del suo seno, e lo nutre con latte gustoso e con alimenti delicati e dolci. Ma via via che questo piccolo cresce, la madre comincia a negargli le carezze e, nascondendo la tenerezza del suo amore, mette dell’aloe amaro sul suo dolce petto, e lo allontana dalle sue braccia per farlo camminare sulle sue gambe, affinché perdendo le caratteristiche di bambino, egli si occupi di cose più grandi e sostanziali.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), Notte oscura, I, 1
Allora, invece di desolarti, rallegrati di crescere, perché è così che il Nostro Signore tratta i suoi amici:
Noto che Nostro Signore dice: «Chi vuole venire dietro a me, prenda la sua croce, e mi segua». E non dice affatto: «che sia elevato in orazione»; ma «che prenda la sua croce»…La vita crocifissa è come il fine della vita mistica, che serve con le sue luci e le sue dolcezze solo a fortificare l’anima per portare la croce. Rallegriamoci di vedere nell’orazione il nostro povero spirito tra le spine della secchezza, della freddezza e della vigliaccheria piuttosto che fra le rose di un fervore o dolcezza sensibile.
Jean de Bernières-Louvigny (1602-1659), Il Cristiano interiore, II, 16
Questa aridità ti pesa particolarmente durante il rendimento di grazie dopo la comunione?
Ho notato che molti non fanno nessuna differenza tra Dio e il sentimento di Dio, tra la fede e il sentimento della fede, ciò è una grande mancanza…
S. Francesco di Sales (1567-1622), Veri Intrattenimenti spirituali, IX, Sulla Modestia
Chi può dire ciò che Nostro Signore opera tramite la comunione in un’anima pura? Solo Dio lo sa. La stessa anima nella quale queste meraviglie si operano, non le conosce. Un’anima ben disposta nella comunione riceve un favore incomparabilmene più grande di tutte le visioni e le rivelazioni che tutti i santi insieme abbiano mai avuto.
Louis Lallemant (1588-1635), Dottrina Spirituale, VI, II, II, 3
Bisogna tentare di porre rimedio a questo fastidio tramite un testo? No, perché se il testo ti aiuta nei primi tempi a pregare, esso interromperebbe la tua preghiera; nel tuo stato,
Il tempo della preghiera trascorre nell’atto di desiderare Dio. È uno stato stupido; somiglia alla più completa perdita di tempo…La parola di Dio sembra non voler dire nulla. Se proviamo questa situazione curiosa e paradossale, cominciamo ad avanzare sulla buona via, dobbiamo fare attenzione a non cercare di pensare a ciò che Dio è, a ciò che ha fatto per noi, etc., o a ciò che noi siamo davanti a lui, etc. perché questo ci distoglie dalla preghiera e distrugge l’opera di Dio.
John Chapman (1865-1933), La preghiera contemplativa
Nonostante le buone risoluzioni che prendo, il mio tempo di orazione trascorre a fantasticare. In fondo, io mi domando se ciò sia grave…
Supponiamo che oltre ai vostri buoni propositi, cerchiate sinceramente di essere attenti a Dio presente nella vostra orazione, e che per questo scegliate un momento, un luogo, una posizione che favoriscano questa attenzione; supponiamo ancora che abbiate scelto un testo per nutrire la vostra meditazione, ma che malgrado alcuni piccoli sforzi, questo testo vi disturbi più di quanto vi aiuti ad essere attenti a Dio. In questo caso, scommetto che le vostre «fantasticherie» portano su questo Dio che non sentite, certamente, ma che desiderate, così che vi riconoscerete nel segno che Giovanni della Croce ci dà per verificare l’autenticità della contemplazione:
Il segno più certo è se l’anima gusta di essere sola in un’amorosa attenzione a Dio, senza considerazione particolare, in pace interiore, quieta e rilassata, senza atto né esercizi delle potenze (memoria, intelletto e volontà) per lo meno senza quello discorsivo, il che consiste nel non passare da una cosa all’altra, ma nel rimanere solamente nell’attenzione e conoscenza generale amorosa di cui ho parlato, senza intelligenza particolare e senza comprendere ciò su cui porta.
Giovanni della Croce (1542-1591), La Salita del Carmelo, II,13
Ciò può sembrare vago, soprattutto al di fuori dei momenti dedicati all’orazione vera e propria, perché
È vero, in questo stato Dio non sempre è l’oggetto distinto dei nostri pensieri, ma è il principio di vita che regola le nostre occupazioni. È una certa astrazione durante la quale si è tentati di credere che non si pensa a niente; perché da una parte, non si è occupati dalle cose visibili, e dall’altra, si ha di Dio solo un’idea così generale, una nozione così semplice e oscura che si perde nello spirito, o piuttosto che lo spirito vi si perde e sembra svanire e sfuggire a se stesso. In questo stato, si fa in pace, senza premura e senza inquietudine, tutto ciò che si deve fare, perché lo Spirito di Dio lo suggerisce dolcemente.
Jean Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 88
Questa dolcezza è così impalpabile che ci si potrebbe domandare se si è allora realmente uniti a Dio. Come verificarlo? Colui che, in questo stato, comincerebbe ad allontanarsi da lui, sarebbe richiamato subito all’ordine! Perché
Questo divino Spirito, geloso di essere l’unica guida dell’anima che ha condotto a questo stato, ferma e sospende la nostra azione, appena l’attività dell’amor proprio comincia a mischiarvisi; e allora non c’è che lasciare cadere questa attività, per rimettersi e rientrare nel raccoglimento passivo. Questo raccoglimento, lo vedete, non è altro che il frutto e l’estensione dell’orazione di quiete e di silenzio, che consiste nel tacere interiormente, nel lasciar cadere ogni pensiero, piuttosto che combattere quelli che vengono o cercare quelli che non vengono.
Idem
Infine, per non scivolare verso la pura e semplice siesta nel tempo di orazione quando questa tende a un semplice riposo dell’anima in Dio, vigiliamo un minimo sulla disciplina in questo campo: teniamo sempre pronto un testo da meditare, anche se non ci servirà; prevediamo degli orari e dei luoghi per la preghiera, insomma, non favoriamo la pigrizia sotto il pretesto che assomiglia alla quiete spirituale. Al tramonto di una vita, oh quanto contemplativa, una Maria dell’Incarnazione (1599-1672) restava fedele a queste buone abitudini come al primo giorno del suo noviziato, anche se apparentemente questo non le serviva più a niente:
Quanto a quello che voi mi domandate riguardo al mio stato presente, io vi dirò che per quanto io possa prendere qualche tema di orazione, sebbene lo avessi letto o inteso leggere con tutta l’attenzione possibile, io lo dimentico. Non è che all’inizio della mia orazione, io non consideri il mistero, perché sono nell’impossibilità di meditare, ma mi trovo in un momento e senza farvi riflessione nel profondo del mio essere dove la mia anima contempla Dio.
A suo figlio, 25 settembre 1670
Facciamo, allora, come lei, per il resto non preoccupiamoci più delle nostre “fantasticherie”
Quando voglio fare orazione, le sollecitazioni più ridicole (rimettere altra legna nel fuoco, chiudere una finestra…) mi assalgono, invece mi raccolgo spontaneamente davanti a un bel paesaggio, come se il solo fatto di cercare di pregare mi impedisse di pregare!
Per quelli la cui orazione è chiaramente contemplativa, questo fenomeno ha una spiegazione psicologica molto semplice:
Queste anime sono così capaci di riflettere su un soggetto, di elaborare un’omelia, ma sentono che queste considerazioni non sono la preghiera. Vogliono unirsi a Dio, non ragionare su quello che egli ha fatto per loro o di ciò che esse devono fare per lui. Questo possono farlo in qualsiasi momento nell’arco della giornata. Possono esaminarsi e prendere delle buone risoluzioni, possono pensare ai misteri della vita e della morte di Cristo, alle parole della Santa Scrittura, al cielo o all’inferno, ma quando vogliono pregare, tutto questo svanisce: esse sentono che se pensano, si mettono esse stesse fuori della preghiera; non desiderano dei pensieri su Dio, ma Dio stesso.
John Chapman (1865-1933), La Preghiera contemplativa
Quale sarà il rimedio?
Lasciate venire gli atti. Non forzateli. Essi non devono essere ferventi, eccitati, ansiosi, ma calmi, semplici, senza significato, insensibili. Altrimenti, ci sarà il pericolo che la nostra natura sensibile e la nostra emozione si mescolino alla preghiera. Non deve esserci alcun sentimento. Non dobbiamo sapere quel che vogliamo dire… «Siamo riconoscenti se non restiamo più di venti anni così» (Teresa d’Avila)
Idem, 4
Come sapere se sono chiamato ad una vita di orazione più sviluppata? Più abbondante in ogni caso della media dei cristiani? Devo ricorrere a un direttore spirituale per saperlo?
La questione non è esattamente di sapere a quale orazione si è chiamati, ma di vivere il comandamento che riassume ogni vita cristiana: «Amerai Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, e con tutto il tuo spirito». Alcuni vivono ciò senza molto riflettervi, nell’esecuzione quasi automatica del loro dovere di stato; altri non potranno vivere lo stesso comandamento se non in una coscienza intensa della presenza di Dio, che li obbliga a fermarsi, talvolta per lungo tempo, a raccogliersi, a cercare colui che, ben presto, sarà individuato come il “Diletto” e a coltivare con lui una relazione sempre più straripante. Aldilà di una certa intensità, questi ultimi dovranno anche organizzare la loro vita in modo tale che tutto vi sia ordinato a questa relazione, e per questo essi entreranno in monastero o in altra forma di vita detta “consacrata”. Ma tutti avranno in comune il comandamento dell’amore, e nella loro volontà di esservi fedele si rivelerà poco a poco il grado di contemplazione legato alla loro vocazione, con il procedere “dell’attrazione della grazia di Dio su di loro”:
È certo che nella guida delle anime si deve considerare continuamente, l’attrazione della grazia di Dio su di loro, e un direttore che non cerca questo non farà mai grandi cose per la loro santificazione. Occorre non solamente vedere questa attrattiva e questa impronta della grazia, ma ancora la sua guida, il suo svolgimento, la sua influenza in tutte le azioni dell’anima, lo stato e la maniera di essere in cui la pone.
François Libermann (1802-1852) , Lettera del 15 dicembre 1839
Il resto è solo affare di fedeltà da parte dell’anima, poiché il ruolo del suo direttore non è di indovinare la sua vocazione, ma di mantenerla sulla strada del Vangelo:
Il direttore una volta visto e distinto che Dio agisce nell’anima, non ha altra funzione se non quella di guidarla affinché segua la grazia e vi sia fedele. Egli dovrà per questo mantenerla nel suo stato e aiutarla a togliere tutti i difetti e gli altri ostacoli che impediscono alla grazia di svilupparsi e di santificarla pienamente.
Idem
Così l’anima troverà lei stessa il suo equilibrio spirituale, tanto nella pratica dell’orazione che nel resto della sua vita. Viceversa,
Un direttore deve guardarsi dal volere condurre un’anima; spetta a Dio condurla, e al direttore di fare sì che ella non si opponga a questa guida. Mai deve voler ispirare ad un’anima i propri gusti e le proprie attrattive, né condurla secondo il suo modo di agire o il suo modo di vedere le cose.
Idem
Lei dice spesso che la vita spirituale non è una questione di esserne degni. Ma io sono paralizzato dall’evidenza della mia indegnità… Dei peccatori come me possono veramente fare orazione? Non dovrebbero prima essere un po’ più santi?
Il Buon Dio non viene a ricompensarci, ma a salvarci. La santità non è per quelli che possono far a meno di Lui, ma per quelli che non possono fare a meno di Lui!
L’opera di Dio non si compie in noi se non ci espropriamo di noi stessi, a forza di togliere ogni risorsa di fiducia e compiacenza all’amor proprio. Vorreste sentirvi buona, retta, forte e incapace di ogni male? Se vi trovaste così, sareste tanto più malvagia di quanto vi credereste certa di essere buona! Occorre vedersi povera, sentirsi corrotta e ingiusta, non trovare in sé che miseria, provarne orrore, disperazione di sé, non sperare più che in Dio, e sopportarsi con umile pazienza senza adularsi.
Fénelon (1651-1715), Lettera CXCII
Quindi,
Se tu dunque quando cadi, t’inquieti, ti rattristi e ti senti chiamare a un certo che di disperazione di poter andare più innanzi e di far bene, è segno certo che tu confidavi in te e non in Dio. E se molta sarà la tristezza e la disperazione, molto tu confidavi in te e poco in Dio; infatti colui che in gran parte diffida di se stesso e confida in Dio, quando cade non si meraviglia, non si rattrista, né si rammarica conoscendo che ciò gli capita per sua debolezza e poca confidenza in Dio. Anzi più diffida di sé, assai più umilmente confida in Dio; e avendo in odio sopra ogni cosa il difetto e le passioni disordinate, causa della caduta, con un dolore grande, quieto e pacifico per l’offesa di Dio, segue poi l’impresa e perseguita i suoi nemici fino alla morte con maggiore animo e risoluzione.
Lorenzo Scupoli ( 1530-1610), Il Combattimento spirituale IV
L’errore è sempre di volere essere santo prima, per potere pregare dopo; prendiamo piuttosto spunto dagli sbagli per meglio fare orazione:
Io non mi stupisco per niente del fatto che Dio permette che voi facciate degli sbagli, pure nel tempo del fervore e del raccoglimento, dove vorreste farne meno. La Provvidenza che permette questi sbagli è una grazia che Dio vi fa in quel momento perché Dio permette questi sbagli solo per farvi sentire la vostra impotenza nel correggervi da voi stessi. Cosa c’è di più conveniente alla grazia se non disingannarvi su voi stessi, e ridurvi a ricorrere senza posa in tutta umiltà a Dio? Approfittate dei vostri sbagli, abbassandovi ai vostri occhi vi serviranno più di quanto facciano le vostre buone azioni consolandovi. Gli sbagli sono sempre sbagli, ma mettono in uno stato di confusione e di ritorno a Dio che ci fa un gran bene.
Fénelon, Lettera CXCIII
Cerco da diversi anni un direttore spirituale, e vado da un fallimento all’altro. S. Francesco di Sales, per esempio, ci dice tuttavia che averne uno è indispensabile. Allora, Dio come può lasciarmi così a secco?
Francesco di Sales chiede a Filotea di cercare un direttore spirituale, non di trovarne uno. Tanto più che ci avverte della difficoltà della scelta: «Sceglietene uno tra mille, dice Giovanni d’Avila; e io vi dico tra diecimila! Perché se ne trovano meno di quanto si possa dire, capaci di questo compito» (Introduzione alla vita devota). In ogni caso, poiché Dio non ci domanda niente di impossibile, cosa vuol dire, in effetti, questo “rimanere a secco” di direttore?
Prima di ogni cosa, individuiamo bene il ruolo del direttore:
Quando Dio concede a un’anima i primi favori sovrannaturali, lei non li comprende e non sa come comportarsi… soffrirà terribilmente, a meno che non trovi un maestro che capisca il suo stato. È una grande felicità per questa anima vedere la pittura fedele di ciò che essa prova; riconosce la via dove Dio la pone e vi cammina con sicurezza. Dico di più: per fare dei progressi nei vari stati di orazione, è un immenso vantaggio conoscere la condotta da tenere in ciascuno di esso. A me, a mancanza di questa conoscenza mi ha fatto ho molto soffrire e perdere molto tempo. Così provo una grande compassione per quelle anime, che arrivate a questo grado, si trovano sole.
S. Teresa d’Avila ( 1515-1582), Libro della sua vita, cap. 14
Dio non aspetta dunque il nostro direttore per donarci le sue grazie, ma perché le comprendiamo, e comprendendole, “camminiamo con sicurezza”. L’assenza di un direttore ci espone a tentennamenti, a inquietudine, in breve, a “soffrire terribilmente”, ma ci obbliga così a cercare una nuova strada, confidando in modo ancora più radicale in Dio. Questo è quello che ha vissuto S. Teresa d’Avila, e i più grandi direttori sono stati dei diretti delusi.
In queste circostanze si sperimenta una grande povertà, perché si perde esteriormente e in apparenza un grande aiuto spirituale. Dico esteriormente; perché per la conduzione interiore, se un’anima religiosa sa conoscersi, ammetterà per sua propria esperienza, purché sia fedele alla grazia e ai dolci e frequenti rimproveri di Nostro Signore, che può fare a meno di molti aiuti, e non sono le creature che danno il vigore interiore. È vero che esse [ le creature, e particolarmente il direttore] sostengono qualche volta i sensi per qualche pace che se ne riceve; ma questa pace non è della stessa qualità di quella che Dio dona nel profondo dell’anima. Quella passa presto per l’assenza della creatura che la causa; mentre questa che viene da Dio rimane saldamente nell’anima come Dio stesso. Questo non significa che talvolta non ci sia necessità di cercare aiuto presso persone sagge e illuminate, e in questi incontri Dio vuole che si cerchi, e che si trovi per mezzo di una creatura.
Beata Maria dell’Incarnazione (1599-1672), Lettera 95
In altri termini, l’ideale sarebbe di potere fare a meno del direttore: né Gesù Cristo, né la Santa Vergine ne hanno avuto bisogno. Senza negare che Dio vuole che cerchiamo “ aiuto presso persone sagge e illuminate” quando ne sentiamo la necessità, Maria ci mette in guardia dal rischio di aspettarci una consolazione troppo umana dalla direzione spirituale. In breve, cerchiamo un direttore spirituale se pensiamo di averne bisogno, ma confidiamo in Dio se non permette che lo troviamo:
Riconosco che una guida visibile è una grazia di Dio e un gran sostegno, come occorre che sia. Ma quando la Divina Provvidenza non lo dona o ce lo toglie, se si sa dire allora con tutto il cuore: «Mio Dio, io non ho che voi!», quello che si otterrà da ciò vale molto più di quanto si può avere tramite la via dei direttori; vi assicuro che spesso Dio ci toglie tutto l’appoggio esteriore per avere, solo, tutta la nostra fiducia. Oh! Se sapessimo donarci a lui interamente senza dividerne un solo briciolo con chiunque altro, ci troveremmo bene ricompensati del fatto di mancare dell’aiuto delle creature!
Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), Lettera 10
In ciò, non c’è dubbio che lo Spirito Santo e tutta la Trinità, saranno sempre una guida e un maestro fedele, poiché ciascuna delle tre persone divine adempie il proprio compito e le proprie azioni per una conduzione giusta, sicura, eccellente e perfetta di queste anime, se avranno il coraggio di intraprendere questo cammino con fiducia, appoggiandosi completamente e perfettamente sul loro amore infinito. Ma questo vale nel caso in cui non si riesce a trovare una persona alla quale convenientemente rivolgersi; in questo caso io dico che la guida amorosa di Dio è infinitamente perfetta, al di sopra di tutto quello che si può comprendere ed esporre.
Jean- di Saint-Samson (1571-1636), Esercizio dell’Amore semplice
In conclusione, non ci mettiamo deliberatamente in questa situazione, ma non pensiamo che Dio ci dimentichi quando ce lo impone:
è una grande cosa avere una persona degna della nostra fiducia, alla quale possiamo aprire il nostro cuore; il nostro buon Dio, infatti, permette talvolta che ci arrivi una qualche pena o delle consolazioni per le quali sembra necessario consultarsi. Tuttavia, quando la Provvidenza ci priva di questo aiuto, dobbiamo credere che ciò è per un bene maggiore, e l’amorosa sottomissione alla sua santa volontà, nelle sofferenze interiori, ci è più utile per una più intima unione, della consolazione di alleviarci dicendo il nostro male…Certamente, per chi potrà mantenere il suo spirito in questo sguardo unico rivolto a Dio, aspettando in pace il suo aiuto, io credo che ciò gli basterà; ma spetta alla bontà divina comunicare questa grazia quando le piace.
Santa Giovanna di Chantal (1572-1641), Lettera di gennaio 1637
Quanto tempo si deve riservare ogni giorno all’orazione? Il massimo sarebbe consacrarle tutto il mio tempo libero?
«Pregate incessantemente» ci dice S. Paolo (ITess 5,17 ), ripreso da tutti i maestri. Non si tratta evidentemente di recitare il rosario giorno e notte, ma di guardare Dio presente allo spirito, come si tiene compagnia ad un amico senza cessare per questo di fare ciò che si deve fare:
Questa preghiera è un tendenza perpetua del cuore verso Dio, che viene dall’amore. Questo amore attira la presenza di Dio in noi, e si sperimenta spesso che questa preghiera si fa in noi senza di noi.
Jeanne-Marie Guyon (1648-1717), Discorsi cristiani e spirituali, 1,38
Ma si deduce che questa presenza continua a Dio suppone dei momenti durante i quali ci si occuperà solo di lui:
Quando siamo fedeli a consacrare ogni giorno un tempo più o meno lungo, seguendo le nostre attitudini e i nostri doveri di stato, intrattenendoci con il nostro Padre celeste…, allora le parole di Cristo si moltiplicano, inondando l ‘anima di luce divina, e aprendo in lei, perché lei possa abbeverarvisi sempre, delle sorgenti di vita.
Beato Colomba Marmion (1858-1923), Cristo, Vita dell’anima, II,X,4
E una interazione sempre più ricca si produce allora tra momenti di orazione e orazione permanente:
I momenti che, nella giornata, l’anima consacra esclusivamente all’esercizio formale dell’orazione non sono che l’intensificazione di questo stato, in cui resta abitualmente, ma dolcemente, unita a Dio, per parlargli interiormente e ascoltare lei stessa la voce dall’alto.
Idem
Allora, quanto tempo dare al giorno per “ per l’esercizio formale dell’orazione”?. È Dio che lo dice. Dove parla?
– Prima di tutto nei suoi comandamenti, reperibili per ogni uomo, interrogando la sua coscienza: E là, il primo comandamento ci dice: «Adorerai Dio solo e l’amerai più di tutto». La preghiera non è dunque una occupazione fra le altre, più o meno facoltativa: è la prima e la più necessaria tra tutte. Una vita veramente umana si organizza in funzione della preghiera, come un villaggio si costruisce intorno alla sua chiesa.
– Poi sull’esempio di Gesù: «si ritirò sulla montagna a pregare,…dopo aver pregato tutta la notte,… ritiratosi nel deserto, pregava». Se Gesù ha pregato così tanto, vuol dire che la preghiera rende l’uomo a immagine di Dio, e non un semplice rimedio per l’uomo peccatore.
– Infine nell’esigenze del nostro dovere di stato: se una madre di famiglia pretende di consacrare alla preghiera il tempo che le consacra una carmelitana, è chiaro che non farà la volontà di Dio. A proposito di una novizia che voleva più tempo per l’orazione che quello previsto per la regola, ecco ciò che risponde S. Francesco di Sales:
Sappiamo dalla storia e dall’esperienza, che numerosi religiosi e altri sono stati santi senza l’orazione mentale, ma senza l’obbedienza, nessuno… Bisogna amare l’orazione, ma occorre amarla per l’amore di Dio. Ora, chi l’ama per amore di Dio, non vuole se non quanto quello che Dio vuole donargli, e Dio non vuole donare se non quanto quello che l’obbedienza permette…
Lettera alla Madre
Supponiamo che quanto scritto sopra sia rispettato, dobbiamo consacrargli tutto il tempo libero?
Se la preghiera è la prima tra le nostre occupazioni, essa non è meno misurata dalla carità, ha finito di dirci Francesco di Sales; che non è un’occupazione , ma il fine stesso dell’uomo. Così che è essa stessa che ci guida nel determinare il tempo che dobbiamo consacrarle:
Dobbiamo ricorrere a tutti i mezzi per rimanere ferventi nella carità, e per questo la preghiera ci è molto necessaria per eccitare questo fervore. Dal momento che ci è accordata, siamo pronti a fare ciò che piacerà a Dio, e per questo meritiamo la beatitudine eterna. Per questo dobbiamo sforzarci prima di accendere nel nostro cuore l’ardore della carità. Dopo, basterà prolungare la preghiera fino a quando sarà necessario per ottenere questo fervore e alimentarlo in noi. Quando constatiamo che questo fervore acquistato si raffredda per la fatica del corpo, occorre alzarsi e cessare la preghiera, poi ci si occuperà di qualche altra opera buona.
S. Giovanni Fisher (1469-1533), Trattato sulla preghiera, III
In certe persone scrupolose, il rischio sarà quello di cercare il risultato: la preghiera più lunga sarebbe per forza la migliore. Ora:
Se lasciamo spegnersi questo fervore in noi completamente, non solamente non raggiungeremo lo scopo della preghiera, ma daremo spazio ancora a dei sentimenti contrari…ciò non accadrà, se non cesseremo di pregare prima che questo fervore sia completamente sparito.
…Colui che prega dovrà dunque vegliare accuratamente perché questo fervore, una volta acceso, non si spenga subito, ma fino a che potrà aumentarla o mantenerla, dovrà prolungare la sua preghiera, a meno che la fatica corporale o qualche necessità non lo impedisca… Perché così per tutto il tempo che durerà questo fervore, e finchè niente si opporrà sia per la gloria di Dio, sia per obbligo personale, sia per un servizio al prossimo, io credo che valga la pena restare in preghiera.
Idem
Aggiungiamo che la questione del tempo di orazione deve essere ricollocata nella questione più ampia dell’insieme delle pratiche spirituali: la lettura spirituale specificatamente, i cui confini con l’orazione non sono precisi. Ne tratteremo un’altra volta.
«Dai ritiri spirituali alle sessioni di formazione o nelle scuole di preghiera, mi sono stati proposti molti metodi di orazione … senza successo! In effetti, esiste un metodo e, se sì, è indispensabile?»
Apparentemente, niente è così spontaneo come la preghiera:
Io faccio come i bambini che non sanno leggere, dico semplicemente al buon Dio ciò che voglio dirgli…La preghiera, è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo rivolto verso il cielo, è un grido di riconoscimento e di amore nella prova come nella gioia…
S. Teresa di Gesù Bambino (1873-1897), Storia di un’anima, XI
Ma occorre che nostro Padre prenda l’iniziativa, ci dichiari il suo amore, e «invii lo Spirito del Figlio che grida: Abbà Padre!» (Gal 4,4-7). Altrimenti la nostra preghiera porterà al nulla:
L’elemento essenziale dell’orazione è il contatto sovrannaturale dell’anima con Dio, in cui l’anima attinge questa vita divina che è la sorgente di ogni santità. Questo contatto si produce quando l’anima, elevata dalla fede e dall’amore, appoggiata a Gesù Cristo, si consegna a Dio, alla sua volontà, con un movimento dello Spirito Santo. Nessun ragionamento, nessuno sforzo puramente naturale può produrre questo contatto.
Beato Columba Marmion (1858-1923), Cristo, vita dell’anima, II, X
Ma l’esperienza dimostra che questo “movimento dello Spirito Santo” ha bisogno di essere educato. Perché? Un neonato non apprende ad amare sua madre, ma impara a parlarle, e in mancanza di ciò questo amore resterà infantile. Questa è tutta la questione relativa ai metodi di preghiera, e in generale dell’evangelizzazione: se la preghiera ci mette in relazione con Dio, è il Vangelo che ci dona le parole giuste di questa relazione filiale, e allora le permette di sbocciare. Così che quando i discepoli domandano a Gesù un metodo, lui insegna loro il Padre Nostro: tutti i metodi cristiani di preghiera esistono per dire bene il Padre Nostro, perché:
Sarebbe forse giusto che pronunciando a fior di labbra le parole del “Padre Nostro” noi non ci applicassimo a comprenderle?
S. Teresa d’Avila (1499-1569) Cammino di Perfezione, 45
A partire da ciò, ogni metodo di orazione comincia con la presa di coscienza della presenza di Dio, continua con la rappresentazione mentale di Gesù che sappiamo essere realmente presente a colui che prega, si prosegue con la meditazione di quello che ci dice, aiutandoci con la sua Parola nella Scrittura o nella Tradizione, perché si compia mettendo in pratica questa parola nel nostro comportamento. Ma quando dite che nessun metodo è adatto a voi, senza dubbio volete dire che tutto questo lavoro mentale vi annoia, e in realtà vi distrae da una relazione più semplice con Dio, da una sorta di evidenza che egli è là, che vi mostra ciò che dovete fare, e che non considerate neppure per un istante di non farlo. In altre parole, siete entrati in contemplazione. E lì:
Il segreto tra i segreti, nell’orazione è di seguire le attrazioni con semplicità di cuore … Mi ricordo molto bene che un giorno in confessione, mi diceste come facevate, e io vi dissi che andava molto bene, e che ancora bisognava apportare [all’orazione] un punto [da meditare]; se tuttavia Dio vi attirava a qualche affezione [= a questa relazione semplice] nella quale voi eravate alla sua presenza, non bisognava affatto attaccarsi a quel punto, ma seguire l’affezione; e quanto sarà più semplice e tranquilla, tanto sarà migliore, perché attacca più fortemente lo spirito al suo oggetto. Ma una volta che avete risolto ciò, non vi sollazzate affatto, nel tempo dell’orazione, a voler sapere ciò che fate e come pregate; perché la migliore preghiera o orazione, è quella che ci tiene ben orientati a Dio, non pensando affatto a noi stessi né a ciò che facciamo. Insomma, andare là semplicemente, in buona fede e senza artifizi, per essere vicino a Dio, per amarlo, per unirsi a lui. Il vero amore non ha affatto metodo.
Francesco di Sales (1567-1622), Lettera 1441
In realtà, ci saranno spesso delle alternanze tra l’orazione con metodo e l’orazione più semplice: ogni relazione d’amore alterna parole e silenzi, attività e contemplazione; bisogna lasciarsi condurre dalla grazia:
Vi prego di ben sottolineare che la pratica delle pratiche, il segreto dei segreti, la devozione delle devozioni, è di non essere attaccato a nessuna pratica o esercizio particolare di devozione, ma di avere una grande cura, in tutti i vostri esercizi e azioni, di consegnarvi allo Spirito di Gesù … affinché abbia pieno potere e libertà di agire in voi secondo i suoi desideri, di mettere in voi le disposizioni e i sentimenti di devozioni che vorrà, e di condurvi attraverso le vie che a lui piacerà.
S. Jean Eudes (1601-1680), Vita e Regno di Gesù, VI, 19
Così che
Non ho mai approvato coloro che avendo qualche metodo d’orazione particolare sia di semplice sguardo, sia di ragionamento o altro, cercano di convincere tutti a seguirlo e a lasciare quello che usano loro. Quando un’anima è in una pratica d’orazione dalla quale trae visibilmente vantaggio, non deve cambiare facilmente… Essendo Dio il vero maestro d’orazione, sta a lui donarci il metodo e il movimento … Tutto ciò che porta a Dio e alla virtù è buono e non si può disattenderlo senza temerità. Bisogna attaccarsi ad un metodo d’orazione per fissare lo spirito, ma non bisogna esserne schiavi, in modo che se qualche movimento della grazia ci porta altrove, non bisogna rigettarlo come una cosa malvagia e contraria alla nostra pratica.
Claude Martin (1619-1696), Le Vie della preghiera contemplativa, Solesmes, p.261
Non tormentatevi per i metodi; sono degli impedimenti, quando non sono un mezzo. Purché dopo la vostra orazione vi sentiate più pieni di fede, di speranza, di carità, di umiltà o di contrizione, poco importa il mezzo usato da voi per accrescere queste virtù.
Emmanuel d’Alzon (1810-1880), Lettera del 5 ottobre 1858
Dal momento in cui si fa la volontà di Dio, si è uniti a lui e si è santi; così che in realtà si fa orazione per tutta la giornata! Perché, allora, riservare dei momenti particolari all’orazione?
Questa domanda ne comprende parecchie, le esamineremo allora una ad una. La prima sembra considerare l’esercizio di orazione come la risposta ad un bisogno; ma se l’orazione valesse in sé, e fosse il fine stesso della nostra vita? Rispondiamo subito che l’esempio di Gesù dovrebbe illuminarci: è evidente che egli non fa mai altro che la volontà di suo Padre, e per questo non aveva bisogno di riflettere a lungo né di ritirarsi per fuggire le distrazioni; e tuttavia, gli evangelisti ce lo mostrano alla ricerca continua di solitudine: «se ne andò sulla montagna a pregare, e passò tutta la notte in orazione» (Lc 6, 12 ).
Se ciò è vero per Gesù, lo è a maggior ragione per noi. No, Dio non ci ha messi sulla terra per fare rumorosamente la sua propaganda, ma per vivere la sua intimità:
L’orazione è la perfetta felicità, la sovrana bontà e il vero paradiso della terra. Perché tramite questo divino esercizio l’anima cristiana è unita al suo Dio, che è il suo centro, il suo fine, il suo sommo bene… È lì che Dio prende le sue delizie in noi, secondo la sua parola: «Le mie delizie sono di stare con i figli dell’uomo». (Pr 8, 31)…L’orazione è l’azione e l’occupazione la più degna, la più nobile, la più elevata, la più grande e la più importante nella quale vi possiate impegnare, poiché è l’impiego e l’occupazione continua degli angeli, dei santi, della Santissima Vergine, di Gesù Cristo e della Santissima Trinità, durante tutti gli spazi dell’eternità.
S. Jean Eudes ( 1601-1680 ), La vita e il regno di Gesù, II, 11
Ahimè! Noi pensiamo che “fare” sia più utile di pregare. Mentre Gesù stesso ci ha dato l’esempio inverso:
Vi è adesso molto bene da fare negli altri vescovadi, e qui stesso, in questa città, in diversi luoghi. Dio non vuole per niente che io lo faccia, ciò non è in mio potere; non ne ho perfino la conoscenza in particolare, e non me ne devo preoccupare. Nostro Signore non ha istruito tutto l’universo, néanche tutti i giudei, né tutti gli abitanti di Nazareth; del resto non è detto niente nel Vangelo, se non che vi predicò una volta. Egli dimorava nella casa di Giuseppe come un artigiano, e si dice solo che era sottomesso a Giuseppe e a Maria, cioè obbediva loro. Questo esempio sa per noi insegnamento e consolazione, e ci liberi dalle molte preoccupazioni di cui possiamo ingombrarci sotto il pretesto dello zelo, e che ci procurerebbero inganno, portandoci fuori dai confini della volontà di Dio.
Jean Rigoleuc (1596-1658), Pii sentimenti, § XVII
Ma la parabola dei talenti non ci mostra che abbiamo il dovere di non restare con le braccia conserte, e di fare fruttare i doni di Dio?
Dio, che non merita senza dubbio di aver lasciato solo il rifiuto degli uomini e quelli che non sono buoni a nulla nel mondo, dona spesso i talenti, l’autorità, il credito, come le ricchezze, i piaceri e le comodità della vita, non per usarne, ma per fargliene il sacrificio. E chi oserà dire di essere stato un servo inutile per aver fatto soltanto ciò che ciò che Dio vuole?
Ambroise de Lombez (1708-1778), Trattato della pace interiore, IV, cap. 8, I, VI
Ora, all’interno di questa vocazione fondamentale all’unione divina, come mantenere questa unione fuori dai momenti di orazione, allorché l’azione richiede tutta la nostra attenzione, e molto spesso ci distrae dal pensiero di Dio?
La contemplazione non è che la via semplice ed amorosa di Dio presente tramite l’aiuto della fede, lo spirito non è occupato né da pensieri né da ragionamenti, e non perde la libertà di applicarsi a ciò che gli è necessario conoscere e considerare per i bisogni della vita. Basta allora sentire Dio nella punta dello spirito e rimanere, fuori dalla conversazione e dagli impicci, nella ferma volontà di non perderlo mai, senza che sia necessario averlo così distintamente presente come quando si è nell’oratorio.
François Malaval (1627-1719), Pratica facile della contemplazione, I, II
In pratica, come regolare il nostro tempo di orazione, per fare orazione sempre? Noi lo abbiamo già visto (cfr. Semi n.105 giugno 2009), ma ricordiamo il principio:
Quando siamo fedeli a consacrare ogni giorno un tempo più o meno lungo, seguendo le nostre attitudini e i nostri doveri di stato, a intrattenerci con il nostro Padre celeste…, allora le parole di Cristo vanno moltiplicandosi, inondando l’anima di luce divina, e aprendo in lei, perché lei possa abbeverar visi sempre, delle sorgenti di vita… I momenti che, nella giornata, l’anima dedica esclusivamente all’esercizio formale dell’orazione non sono che l’intensificazione di questo stato nel quale resta abitualmente, ma dolcemente unita a Dio, per parlargli interiormente e ascoltare lei stessa la voce dall’alto.
Beato Columba Marmion (1858-1923), Il Cristo, Vita dell’anima, II, X, 4
Infine, se è vero che l’orazione intesa come un esercizio è centrale nella vita di Gesù e del cristiano, non è ciò nonostante un fine, ma solamente il primo dei mezzi per realizzare la vocazione di ogni uomo: “il fine è Dio stesso” ripete S. Tommaso per definire questa vocazione. E “Dio è amore”, così che l’amore solo sarà il criterio per decidere se è il momento di dedicarci all’orazione o all’azione:
Voi sapete che la contemplazione è meglio dell’azione e della vita attiva; ma se nella vita attiva si trova più unione, essa è migliore. Se una suora stando in cucina, tenendo il tegame sul fuoco, ha più amore e carità di un’altra, il fuoco materiale non la distoglierà affatto, al contrario, la aiuterà ad essere più gradita a Dio. Capita abbastanza spesso che si è uniti a Dio nell’azione piuttosto che nella solitudine; ma infine, io dico sempre: dove c’è più amore, c’è più perfezione.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Veri Colloqui spirituali, Appendice I F
Non riusciamo a pregare insieme in famiglia… È possibile avere una vita di preghiera intensa, quando il coniuge non lo comprende?
In famiglia o altrove, bisogna capire bene che la vita spirituale è essenzialmente non condivisibile:
Tu invece quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Matteo 6, 6
Così non c’è da stupirsi dell’incapacità degli sposi a comunicare su questo piano, e non devono soprattutto colpevolizzarsi. L’unione matrimoniale è segno di un’unione più alta, quella del battesimo, nella quale diventiamo uno con il Cristo, e che da sola esaurisce la pienezza dell’amore. È quella di cui S. Giovanni della Croce può dire:
L’amore produce una tale somiglianza nella trasformazione di coloro che si amano, che si può dire che l’uno è l’altro, e che i due sono solo uno. La ragione è che nell’unione e trasformazione d’amore, l’uno dona all’altro il possesso di sé, e ciascuno si abbandona, si dona e si scambia con l’altro. E così ciascuno vive nell’altro, l’uno è l’altro, e i due sono uno per trasformazione d’amore. La stessa cosa voleva farci capire s. Paolo quando diceva: «Io vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me».
S. Giovanni della Croce (1542-1591), Cantico spirituale 11,6
Questo delimita un giardino segreto che non servirà a nulla voler forzare:
È dello spirituale non esporre agli uomini le sue ricchezze, ma nasconderle nella sua cella e sotterrarle nella sua coscienza, in modo che sempre porta scritto sulla porta della coscienza come su quella della cella: «Il mio segreto è per me, il mio segreto è per me!».
Guillaume de Saint-Thierry (1085-1148), Lettera ai Frati del Monte di Dio, § 300
In cambio, lungi da ogni gelosia, gli sposi possono essere sicuri che il loro amore reciproco non può che rinforzarsi in questa intimità di ciascuno con Cristo:
È una grande cosa l’amore, ma a condizione che risalga al suo principio, ritorni alla sua origine e si immerga nella sua sorgente ricevendone di che continuamente espandersi.
S. Bernardo (1090-1153), Sermone 83 sul Cantico
E perciò,
Bisogna che si distacchi da se stessa e si spogli l’anima degli sposi, l’anima dei fidanzati. Altrimenti non c’è amore possibile, ma un egoismo cercato nell’altro. Alla punta estrema dell’amore si trova l’amore di Dio, dono totale e reciproco dell’uno all’altro. Ma per l’uomo Dio è l’Altro, l’altro che finalmente si rivelerà, nell’amore, l’essere del nostro essere.
Yves Raguin (1912-2000), Cammini di contemplazione
In breve, gli sposi hanno tutto da guadagnare a coltivare la vita spirituale del coniuge, da Lucie-Christine (cfr. Semi n.7/2000) a Jeanne Schmitz-Rouly (cfr. Semi n. 55//2004), per restare all’epoca moderna, non si finirebbe di citare i buoni risultati «mistici» nel matrimonio, poiché la questione sta nel comprendere bene che il matrimonio, essendo un sacramento, è innanzitutto ordinato a questo dischiudersi spirituale del battezzato.
E l’interferenza tra la direzione spirituale e la vita familiare? È delicato confidare al proprio direttore delle cose che non si dicono al proprio coniuge… Il direttore può turbare la vita coniugale o suscitare gelosie?
Riconosciamo che il rischio esiste, se il direttore e il diretto escono fuori da una relazione pastorale e sovrannaturale. Ma da una parte, il direttore coscienzioso non ha da indagare sulla vita privata del diretto più del medico o dell’avvocato, e dall’altra,il suo compito primario sarà di orientare l’anima solo verso Dio:
I direttori sono solo strumenti per dirigere le anime alla perfezione tramite la fede e la legge di Dio, secondo lo spirito che Dio dà a ciascuna.
S. Giovanni della Croce, Fiamma viva, III, 46
Se un maestro spirituale prova dispiacere quando un’anima lo lascia e l’abbandona per un’ altra guida, è segno manifesto che non è distaccato e che non cerca puramente la gloria di Dio, ma piuttosto la sua reputazione.
Miguel Molinos (1628-1696), Guida spirituale, II, 8
Dato che il ruolo specifico dei direttori non è di consigliare …
Tutto il loro compito sarà di non plasmare le anime al loro modo né alla loro condizione, ma di guardare se sanno il cammino verso cui Dio le conduce; e se non lo sanno, le lascino e non le turbino.
S. Giovanni della Croce, ibidem
…ma di discernere e di insegnare, perché
Non sarà un piccolo guadagno per l’anima, di trovare una guida sperimentata, che la conforterà nelle difficoltà estreme e che le darà sicurezza nelle difficoltà continue di questo viaggio. Altrimenti, non raggiungerà il santo e prezioso monte della perfezione, a meno di una grazia straordinaria e singolare.
Miguel Molinos (1628-1696), ibidem
Il vero problema, lo abbiamo già menzionato (cfr. Semi 101/febbraio 2009), è piuttosto quello di trovare l’uomo introvabile, che riunirà tutte queste qualità. E se veramente un’invincibile crisi di fiducia dovesse nascere nel focolare domestico, occorre avere la prudenza di credere che la Provvidenza passa per un altro cammino:
È un gran bene avere una persona degna della nostra fiducia, alla quale possiamo aprire il nostro cuore; perché il nostro buon Dio permette qualche volta che ci accadano delle pene o delle consolazioni sulle quali ci sembra necessario consultare qualcuno. Tuttavia, quando la Provvidenza ci priva di questi aiuti, dobbiamo credere che è per un bene maggiore.
S. Giovanna di Chantal (1572-1641), Lettera di gennaio 1637
Secondo quanto dite, più ci sono secchezze, prove, distrazioni nella vita spirituale, meglio è! Bisogna allora rifiutare tutto ciò che è gradevole?
Certo che no, ma non andare dietro a ciò che è piacevole o sgradevole, regolandosi solo sulla volontà di Dio. I suoi più grandi servitori conoscono le gioie che Dio riversa talvolta nei nostri cuori, ma sanno anche che ciò è solo uno sguardo sulla Terra promessa, e finché dura questa nostra traversata nel deserto, solo la fede deve guidarci:
Il beato Francesco di Sales amava le derelizioni, gli abbandoni e le desolazioni interiori. Mi disse una volta che non faceva attenzione se era nella consolazione o nella desolazione; e quando Nostro Signore gli donava dei buoni sentimenti, li riceveva con semplicità; se non gliene dava affatto, non ci pensava…
S. Jeanne de Chantal (1572-1641), Lettera del 1623 a Don Jean de Saint-François
Questo vi sembra molto triste?
Abbiate un po’ di pazienza! Questo vuoto interiore per ora così penoso da sopportare, sarà un giorno la dimora deliziosa della vostra anima, e riconoscerete tramite la vostra esperienza che proprio in questo vuoto e nella spogliazione da tutte le cose si trova il Paradiso di questa vita.
Jean Rigoleuc (1596-1568), Lettera a una religiosa orsolina
Farai così l’esperienza di un’altra vita, tramite la risurrezione del corpo, dell’anima e dello spirito. E in quest’altra vita, le radici, il tronco, i rami, le foglie e i frutti non saranno come quelli presenti: acquisteranno ciascuno la loro essenziale stabilità.
Beato Pierre Favre (1506-1546), Memoriale, 26 marzo 1543
Attendendo,
Il migliore mezzo per aiutarsi e cooperare con Dio, è quello di rimanere contenti e tranquilli, in qualsiasi stato ci si trovi…, sentendosi l’anima manifestamente contenta, sebbene non goda di Dio.
Constantin de Barbançon (1582-1631), I Sentieri segreti …, II, cap. 11
Così che
Non si mancherà di avere una vera gioia sebbene non ci si senta nella gioia, e sebbene ci si trovi talvolta nella tribolazione e nella tristezza assai grandi quanto al sensibile.
Alexandre Piny (1640-1709), L’Abbandono alla volontà di Dio, Consigli di pietà
Recitare il rosario non è forse un modo di fare orazione?
Estendiamo la vostra domanda: fino a quale punto una preghiera vocale aiuta, impedisce, o eventualmente sostituisce l’orazione? Prima di essere un esercizio metodicamente organizzato dal Rinascimento in poi, non dimentichiamo che l’orazione è fondamentalmente “una conversazione con la quale l’anima s’intrattiene amorevolmente con Dio” (s. Francesco di Sales); e tutti gli innamorati sanno che ci sono dei momenti in cui le parole sono necessarie alla loro relazione, altri in cui divengono fastidiosi, altri infine in cui non dicono più granché, ma aiutano a restare alla presenza l’uno dell’altro. Molti trovano nel rosario le parole che, fissando la loro attenzione sui misteri della fede, li mantengono alla presenza del Signore, mentre senza di ciò, il loro spirito si smarrirebbe lontano da lui:
Conosco una religiosa molto anziana – piaccia a Dio che la mia vita sia come la sua – molto santa, penitente, eccellente religiosa in tutto e che si dedica all’orazione vocale, ma per lei l’orazione mentale è impossibile; tutt’al più si può fermare un poco su qualcuna delle sue Avemaria e dei suoi Paternoster – ed è un santo esercizio. Vi sono altre persone che sono in questa situazione e, se sono umili, io non penso che siano alla fine dell’anno più a mal partito di quelle che hanno numerose consolazioni nell’orazione.
S. Teresa d’Avila (1515-1582), Cammino di perfezione, cap. 27
Ma quelli che sono chiamati ad un’orazione più contemplativa, più “mistica”, sia che non potranno più dire il rosario, sia che lo diranno in modo puramente formale, questa non sarà più una preghiera:
È abbastanza comune per quelli che hanno un certo contatto con la “mistica”, di essere assolutamente incapaci di trovare un qualunque senso nelle preghiere vocali. Se le leggete semplicemente senza pregare, potete capirle come qualsiasi altro libro. Ma se vi girate verso Dio, tutti i pensieri e le comprensioni cessano.
Don John Chapman (1865-1933), Lettera a Norah K. Leckey
Ma molto spesso, il passaggio dalla preghiera vocale all’orazione più contemplativa se fatto con dolcezza, il rosario per esempio, diviene come una musica di fondo che non si ascolta più, ma si sente ancora, e che basta ad orientare lo spirito verso il musicista che incanta la nostra anima:
Io conosco una religiosa che non ha potuto praticare altra orazione se non quella vocale, e mantenendosi fedele ad essa, aveva tutto; ma se non la recitava, il suo spirito si smarriva talmente che ne era torturata. Oh! Possiate tutti praticare l’orazione mentale come lei praticava quella vocale! Per recitare quei Paternoster corrispondenti al numero dei misteri nei quali Nostro Signore ha sparso il suo sangue – e qualche altra preghiera – passava due o tre ore; venne a trovarmi tutta afflitta e mi disse che non sapeva fare orazione, né poteva dedicarsi alla contemplazione, e che sapeva recitare solamente delle preghiere vocali. Era anziana all’epoca, ed aveva condotto una vita esemplare e pia. Le domandai ciò che recitava, e compresi, dalla sua risposta, che il Signore la elevava alla grazia dell’unione quando cominciava a recitare il Pater.
S. Teresa d’Avila (1515-1582), Cammino di perfezione, cap. 52
Si può realmente donare la propria vita a Dio come s. Teresa d’Avila o s. Giovanni della Croce, amando totalmente qualcun altro nello stesso tempo? Amare Dio «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le proprie forze» lascia posto a un fidanzato o a dei figli?
Constatiamo, prima di tutto, che i nostri sentimenti non dipendono da noi; e quello che non dipende da noi, dipende da Dio. Allora, non occorre colpevolizzarsi di provare tenerezza nei confronti dello sposo, di una sorella o di un figlio, così come di suscitarne: «Il Signore mi ha fatto la grazia di essere trovata gradevole ovunque sono stata, così che ero amata da tutti», confessa ingenuamente Teresa d’Avila (Autobiografia, cap. 2).
Osserviamo inoltre, che la Storia abbonda di grandi innamorati di Dio che non per questo non hanno conosciuto il più vivo sentimento nei confronti dei loro fratelli: pensiamo alla tenerezza di Maria dell’Incarnazione per suo figlio, o alla straordinaria amicizia tra s. Francesco di Sales e s. Giovanna di Chantal. Sarebbe stato perfino stupefacente che Dio avrebbe chiesto loro di calpestare i sentimenti che lui stesso aveva messo nei loro cuori!
Detto ciò, non bisogna confondere l’amore e il sentimento d’amore. Se il sentimento ci fa prendere coscienza dell’amore, è l’amore che compie ciò di cui il sentimento ci fa sognare, cioè l’unione con lui che ci rivela:
La compiacenza [ecco il sentimento], è il risveglio del cuore, ma l’amore ne è l’azione; la compiacenza lo fa elevare, ma l’amore lo fa camminare; il cuore spiega le sue ali con la compiacenza, ma l’amore è il suo volo. L’amore, dunque, per parlare chiaramente e distintamente, non è altro che il movimento, il flusso e l’avanzamento del cuore verso il bene.
S. François de Sales (1567-1622), Trattato dell’amore di Dio, I, cap. 7
Così i sentimenti cessano di giocare il loro ruolo quando li cerchiamo per loro stessi, invece di superarli nel dono di noi stessi a coloro che essi ci spingono ad amare:
L’anima che segue il suo appetito si rende cieca, guidando il suo intelletto che vede, con l’appetito che non vede; ciò fa sì che entrambi siano ciechi.
S. Jean de la Croix (1542-1591), La Salita del Monte Carmelo, I, 8
Per vederci chiaro,
Dobbiamo regolare i nostri giudizi su quelli di Gesù Cristo, le nostre affezioni sulle sue, convinti che è stimabile e amabile solo quello che egli stima e ama.
Jean Nicolas Grou (1731-1803), Manuale delle anime interiori, su Gesù Cristo
Come discernere tra un’affezione che porta all’amore vero, ed una che ripiega l’anima su se stessa?
Un’affezione che nasce dalla lussuria, e non da un buono spirito si riconosce così: quando si pensa a quell’affezione, invece di aumentare il pensiero e l’amore verso Dio, è il rimorso che nasce nella coscienza. Mentre se l’affezione è puramente spirituale, quando essa cresce, anche quella di Dio cresce; e più si ricorda di essa, tanto più si ricorda di quella di Dio e la si desidera. Crescendo nell’una, cresce anche l’altra… Al contrario, se quest’amore nasce dalla sensualità, i suoi effetti sono contrari: quando l’uno cresce, quello di Dio diminuisce, insieme con la sua memoria. Perché se quest’amore sensuale cresce, si vedrà subito che si raffredda quello di Dio, che si dimentica, e non si penserà più a lui mentre si penserà all’altro e un certo rimorso entrerà nella coscienza. Viceversa, se l’amore di Dio cresce nell’anima, è l’altro che si raffredderà e cadrà nell’oblio.
S. Jean de la Croix, La notte oscura, I, 4
Si può, si deve incoraggiare un’amicizia come quella di s. Francesco di Sales e s. Giovanna di Chantal?
Ancora una volta, i sentimenti non si decidono. La vera questione non è di incoraggiarli o scoraggiarli, ma di sapere cosa farne quando si presentano. L’esperienza dei santi mostra che un vivo sentimento «umano» cadendo su una persona unita a Dio (caso di Francesco di Sales che incontra Giovanna di Chantal), lungi dal creare un turbamento, diviene una nuova forza per quest’unione con Dio:
Ho riconosciuto chiaramente, tramite le parole e le azioni di questo beato, che il suo amore verso Dio aveva una suprema autorità e reggenza su tutte le sue passioni e affezioni… Parlando, una volta, ad una persona che amava come se stesso [si tratta in realtà di Giovanna stessa], di questo supremo amore che portava a Dio, le disse: «Se Dio mi comandasse di sacrificarvi, come fece con Abramo e suo figlio Isacco, io lo farei». Tramite la sua azione testimoniava che avrebbe fatto questo sacrificio con coraggio e amore non pari alla volontà di Dio.
Deposizione di S. Jeanne de Chantal per la canonizzazione di s. Francesco di Sales
Parlando di questa esclusività di Dio nella sua vita, Francesco di Sales ci dice bene che essa non ci domanda di distruggere i nostri sentimenti per i nostri fratelli…
Io penso che al mondo non ci sia anima che ami più cordialmente, più teneramente, e per dirla tutta in buona fede, più amorosamente di me; perché a Dio è piaciuto di fare il mio cuore così.
Lettera a Jeanne del 1620 o 1621
… ma di investirli nell’amore di Colui che ce li dona:
Per amare Dio con un amore di elezione, bisogna avere la volontà determinata di non conservare e non riservare nessun altro amore che non gli sia soggetto e sottomesso, rimanendo pronti a bandire dal nostro spirito non soltanto tutto ciò che sarà contrario, ma tutto ciò che non servirà a conservare e ad aumentare questo divino amore, che è il solo degno del nome di dilezione.
Sermone del 30 settembre 1618
Da quale età un bambino può praticare l’orazione?
Se si prende la parola orazione nel senso più tradizionale cioè di conversazione familiare con Dio, è chiaro che man mano che il bambino cresce, diviene capace di fare questa conversazione. È impressionante vedere nella vita dei santi che molti di loro, fin dalla più tenera età, avevano coscienza della presenza di Dio e di conversare con lui. Un esempio molto semplice è quello di Maria dell’Incarnazione (1599-1672), all’età di sette anni:
Durante il mio sonno, avendo gli occhi levati verso il cielo, vidi Nostro Signore Gesù Cristo avvicinarsi a me, e il mio cuore si sentì tutto incendiato del suo amore. Cominciai a stendere le mie braccia per abbracciarlo. Allora, lui, il più bello tra tutti i figli dell’uomo, con viso pieno di dolcezza e attrattiva indicibili, abbracciandomi e baciandomi amorevolmente, mi disse: «Vuoi essere mia?». Io gli risposi: «Si».
Relazione del 1654, I
Sogno di una bambina? È probabile che una buona decima parte dei nostri lettori potrebbero parlare di episodi analoghi nella loro infanzia. Non parliamo troppo presto di bambinate! Maria ci precisa che «l’effetto che produsse quella visita fu un’inclinazione al bene», e che senza comprendere a quell’età che «quell’attrazione veniva da un principio interiore», la presenza di Dio non la lascerà più. Sentimento di Dio presente, crescita nella carità, unione a Gesù: tutte le caratteristiche di un’autentica esperienza mistica sono riunite. Ahimè, quanti adulti, divenuti insensibili all’amore, uccideranno la vita spirituale dei loro figli non prendendo sul serio questo genere di eventi, o volgendo in ridicolo qualcosa che in fondo è così normale, una volta dimenticato il peccato originale!
Anche se tutti i bambini non hanno una percezione così chiara dell’entrata di Gesù nella loro vita, «poiché Dio cammina con l’uomo al passo dell’uomo» (s. Giovanni della Croce), si rileva abitualmente che la fioritura spirituale dell’adulto è, in un certo modo, proporzionale all’educazione ricevuta. Ancora l’esempio di Maria dell’Incarnazione è eloquente:
È vero che la buona educazione ricevuta dai miei genitori, che erano buoni cristiani, molto pii, aveva costituito una buona base nella mia anima per tutte le cose del cristianesimo e per i buoni costumi, e quando vi rifletto, benedico Dio per le grazie che gli è piaciuto darmi in quel momento, tanto più che è una grande disposizione per la virtù e per essere veramente disposti ad una vocazione di grande pietà.
Relazione del 1654, III
C’è un metodo specifico d’orazione per i bambini?
S’impara a pregare come s’impara a parlare. In questo senso, anche se è chiaro che un bambino non ha la capacità di attenzione, e quindi di raccoglimento, di un adulto, la sua orazione segue le vie di quella degli adulti, con i limiti di ogni metodo; per i bambini piccoli più ancora che per i loro genitori, ricordiamo che: «l’orazione consiste nel molto amare, e non nel molto pensare» (s. Teresa d’Avila). Così che
Molti s’ingannano grandemente, credendo che bisogna fare tante cose, usare tanti metodi per fare bene l’orazione, come se lo Spirito di Dio fosse così delicato da dipendere dal metodo o dal contegno di chi fa l’orazione… Non c’è che una sola cosa necessaria per far bene l’orazione, cioè di avere Nostro Signore tra le braccia; se è così, è sempre ben fatta, qualunque cosa facciamo.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Sermone XXVIII
Non ci preoccupiamo troppo, dunque, del “contegno” dei bambini che fanno orazione. Il vero problema è altrove: gli orientamenti catechistici moderni mirano a fare del bambino più un militante che un orante. Così gli educatori e, prima di tutto, i genitori devono avere le idee chiare su cosa è una vita cristiana: questo dialogo con Dio che definisce l’orazione e che allora deve essere l’asse di un’educazione cristiana.
Infine, nel campo della vita spirituale come negli altri, i genitori non proiettino i loro desideri sui loro figli: «Lasciate che i piccoli vengano a me» dice Gesù, e non «Costringeteli!». In altre parole, tutti ricevono la grazia sufficiente per essere buoni cristiani, ma non tutti sono chiamati a essere san Giovanni della Croce. Se peraltro l’educazione è cristianamente coerente, il Buon Dio non avrà bisogno dei genitori per dare al bambino il desiderio di raccoglimento e la volontà di perfezione che caratterizzano una vocazione certamente contemplativa.
La pratica della vita di orazione porta alla vita apostolica?
Cosa è la vita apostolica? Si conosce la celebre formula di S. Tommaso d’Aquino, divenuta il motto dei domenicani: «Proprio come è meglio illuminare piuttosto che semplicemente brillare, così è meglio trasmettere agli altri la realtà contemplata piuttosto che solamente contemplarla» (Summa Teologica, II-II, q. 188 a. 6). Ciò vuol dire che non c’è vita apostolica se non c’è prima di tutto una vita contemplativa:
Questo è rilevato dagli Apostoli, che furono confermati in pienezza nello stato permanente di vita e occupazioni apostoliche, solo, dopo l’effusione dello Spirito Santo, che causò in loro un vuoto totale di loro stessi e una così grande docilità a tutto ciò che Dio voleva operare tramite loro, tanto che è detto che non erano loro a parlare, ma lo Spirito del loro Padre celeste che parlava tramite la loro bocca, e s. Paolo diceva che era Gesù Cristo a parlare in lui.
Jeanne Guyon (1648-1717), Discorsi sulla vita interiore, 2, 65
Occorre notare che l’orazione non è fare provviste di grazia che andremo poi a spandere nell’apostolato, ma che la contemplazione è in se stessa apostolica, perché rivelatrice, e quindi evangelizzatrice, poiché ci trasforma in Dio, e rende allora Dio visibile in noi, senza che noi stessi ce ne rendiamo conto:
C’è un modo di vedere che procede da una grazia infusa che io produco nell’anima la quale veramente mi ama e mi serva. Con questo lume, che io posi nell’occhio del suo intelletto, mi vide Tommaso, e così acquistò il lume della molta scienza. Illuminati da essa, Agostino, Girolamo e altri miei santi dottori, intendevano e conoscevano la mia verità fra le tenebre; e allora quello che appariva come oscuro è divenuto perfettamente chiaro per gli ignoranti come per i sapienti.
Tramite questa luce, i santi Padri e i profeti hanno visto anticipatamente la venuta e la morte di mio Figlio; gli Apostoli l’hanno avuta dopo la venuta dello Spirito Santo; gli evangelisti, i dottori, i confessori, le vergini, i martiri ne sono stati tutti illuminati, ciascuno secondo le necessità della loro salvezza, o di quella degli altri e per la comprensione delle Sante Scritture.
Santa Caterina da Siena (1347-1380), Dialogo, 85
Questo è quello che io chiamo vita apostolica, cioè lo stato in cui l’anima morta a tutto e perfettamente annientata, non trattenendo più nulla di proprio, Dio solo dimora con lei ed in lei.
Jeanne Guyon (1648-1717), Discorso sulla vita interiore, 2.65
Per questo la contemplazione dell’apostolo misura esattamente la sua fecondità. Così che:
L’uomo, che da questa elevazione, è inviato da Dio nel mondo, è pieno di verità e ricco di tutte le virtù; non cerca il suo bene, ma la gloria di colui che l’ha inviato. Per questo egli agisce secondo rettitudine e verità in tutte le cose; e il suo fondo è ricco e generoso, e si fonda sulla ricchezza di Dio. E per questo non può non effondersi sempre in tutti quelli che hanno bisogno di lui, poiché la sorgente viva dello Spirito Santo, è la sua ricchezza, e non si può esaurire. Ed è uno strumento di Dio vivo e disponibile, con il quale Dio opera ciò che vuole e come vuole; e non si attribuisce nessun merito, ma ne dona a Dio l’onore. Ecco perché Egli resta disponibile, pronto a fare tutto ciò che Dio gli comanda, forte e coraggioso per patire e sopportare tutto quello che ha stabilito per lui. Egli conduce una vita comune, perché è ugualmente pronto a contemplare e ad agire, ed è perfetto in entrambi.
Ruusbroec l’Admirable (1293-1381), La Pietra Brillante, conclusione
Tutto ciò va a modellare la vita dell’apostolo, che è tale solo se l’orazione è al centro delle sue giornate:
L’esercizio della predicazione è più spirituale che vocale, perché anche se si pratica al di fuori con parole, la sua forza e la sua efficacia vengono solo dallo spirito interiore; così, per quanto alta sia la dottrina predicata, per quanto preziosa sia la retorica, per quanto sia elevato lo stile di cui essa è rivestita, il beneficio che essa opera di solito non sarà superiore allo spirito che contiene.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), La Salita del Carmelo, III, 45
Ci si ammazza a forza di studiare per preparare dei bei sermoni, e però non si producono affatto dei frutti. Da cosa dipende ciò? La questione è che la predicazione è una funzione sovrannaturale, come la salvezza delle anime, che è il fine che si pretende, e occorre che lo strumento sia proporzionato a questo fine. Orbene, non è la scienza, né l’eloquenza, né altri talenti umani, ma la santità di vita e l’unione con Dio, che ci rendono strumenti adatti a procurare la salvezza delle anime. La maggior parte dei predicatori ha sufficiente scienza, ma non ha abbastanza devozione e santità.
Il vero modo per acquisire la scienza dei santi e avere ciò di cui riempire un sermone, una esortazione, un colloquio spirituale, non è tanto di ricorrere ai libri, quanto all’umiltà interiore, alla purezza del cuore, al raccoglimento e all’orazione.
Louis Lallemant (1588-1635), Dottrina spirituale, II, II, cap. VI, 4
Il grande segreto per apprendere la scienza dei santi, per ricevere le più pure illuminazioni del cielo, non sta nel pensare molto, ma nell’amare molto. Tutto è donato all’amore, allo spirito contrito, a un cuore santamente libero.
Henri-Marie Boudon (1624-1702), Il Regno di Dio nell’orazione mentale, I, cap. 3
Così quando l’efficacia non è più un pensiero per l’apostolo, altri uomini riconosceranno in lui il Dio che essi cercavano, lo raggiungono e, poco a poco, danno con lui vita ad una civiltà cristiana:
Considerando i frutti storici del monachesimo, possiamo dire che nel grande sconvolgimento culturale, prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano luoghi in cui veniva formata passo passo una nuova cultura.
Qual era la motivazione delle persone che si riunivano in quei luoghi? … Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era di cercare Dio “quaerere Deum”. Nella confusione di quei tempi dove niente sembrava resistere, i monaci volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane per sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio.
Benedetto XVI, Discorso del 12 settembre 2008 al Collegio dei Bernardini
Infatti, i grandi contemplativi sono stati sempre dei grandi civilizzatori: s. Agostino apre il Medio Evo al centro della disfatta della Antichità, s. Bernardo domina nel periodo più brillante, e Maria dell’Incarnazione farà del Québec un bastione della cultura francese,
Cercare Dio resta, oggi come ieri, la via maestra e il fondamento di ogni vera cultura.
Benedetto XVI, Udienza del 17 settembre 2008
Si può fare orazione durante la messa? Quando il mio dovere di stato non mi permette di aver tempo sufficiente per la messa e per l’orazione, che scegliere?
Messa e orazione s’incontrano a vicenda:
I sacramenti sono dei canali tramite i quali, per modo di dire, Dio discende in noi, come tramite l’orazione noi ci gettiamo in Dio, poiché l’orazione non è altro che un’elevazione del nostro spirito in Dio.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Veri colloqui spirituali, sui sacramenti.
Dio viene verso noi nei sacramenti, mentre noi andiamo verso di lui tramite l’orazione: i momenti di silenzio previsti dalla liturgia, dopo il vangelo, durante l’offertorio, prima della comunione, etc…sono veri momenti di orazione. Essi ci fanno entrare nell’intenzione che presiede alla messa, che è quella di vivere l’unione totale a Cristo che si dona a noi, così come nell’orazione. In questo senso, una vita d’orazione è la migliore preparazione alla comunione:
Io sono l’amico della purezza e tutta la santità viene da me: è il cuore puro che cerco, è lì che trovo il mio riposo. Preparami un grande cenacolo ed io farò presso di te la Pasqua con i miei discepoli. Se tu lo vuoi, io verrò da te e vi dimorerò. Butta via il vecchio lievito, e purifica la casa del tuo cuore. Respingi tutto ciò che è del mondo e tutto il tumulto dei vizi, e come il passerotto solitario sul tetto pensa ai tuoi misfatti nell’amarezza della tua anima. In effetti, chi ama, prepara sempre la casa nel migliore dei modi e nel modo più bello per il diletto, e in questo si riconosce l’affezione che ha per colui che riceve.
Tommaso da Kempis (1379-1471), L’imitazione di Cristo, IV, 12
Allora, la comunione eucaristica compierà quello che l’orazione fa desiderare:
In questo grande e incomprensibile sacramento, l’anima è trasformata in ciò che la nutre, osso delle tue ossa e carne della tua carne, poiché lo Spirito Santo opera in noi, per grazia, ciò che sussiste eternamente per natura tra il Padre e te… Ecco, il faccia e faccia tra te, Signore, e colui che ti desidera; ecco il bocca a bocca tra te e colui che ti ama; ecco il corpo a corpo amoroso tra te e la sposa che sospira verso te dicendo: Il mio diletto è mio come io sono sua, e dimorerà sul mio cuore.
Guillaume de Saint-Thierry (1086-1148), Orazione meditativa VIII
Se l’orazione è la migliore preparazione alla comunione, è ugualmente, sotto forma di azione di grazie dopo la messa, il miglior modo per disporsi a viverla concretamente nelle nostre giornate:
Non basta che tu ti eserciti alla devozione prima della comunione: tu devi anche vigilare su di te con cura, una volta che hai ricevuto il Sacramento. Questa vigilanza non ti è meno richiesta della fervente preparazione. In effetti, è essa stessa un’eccellente preparazione a ricevere una grazia più grande. Viceversa, niente vi dispone meno che il troppo riversarsi subito all’esterno, andando verso delle consolazioni esterne. Diffida dalle parole troppo numerose; resta nascosto per godere del tuo Dio. Lui stesso, in effetti, possiede quello che il mondo non potrà portarti via. Io sono colui al quale tu devi donarti tutto intero, di modo che non sarà più in te, ma in me che tu vivrai senza il minimo pensiero.
Tommaso da Kempis (1379-1471), L’imitazione di Cristo, IV, 12
Si nota dunque che l’eucaristia suppone l’orazione, e che l’inverso non è affatto vero: se l’eucaristia è coronamento della vita cristiana, l’orazione ne è la base. Se dunque occorre assolutamente scegliere tra le due, la priorità dovrà essere data all’orazione, se d’altra parte si sarà fedeli ai comandamenti della Chiesa in materia, e specialmente alla messa domenicale; in effetti, che si tratti di orazione o di sacramenti, la norma per il cristiano è sempre quello che Gesù ci dice tramite la sua Chiesa:
Noi sappiamo dalle Storie e dall’esperienza di molti religiosi e di altri che sono stati santi senza l’orazione mentale, ma mai senza l’obbedienza.
S. Francesco di Sales (1567.1622), Lettera a Madre Favre, primavera 1617
Qual è il tipo di rapporto tra l’orazione e l’ufficio divino? Non si può, contemporaneamente, raccogliersi e pensare a ciò che dicono i salmi che si recitano?
L’intenzione di chi recita o canta le lodi o i vespri per esempio, è, in effetti, notevolmente diversa da chi vuole fare orazione. L’ufficio divino è innanzitutto la preghiera ufficiale della Chiesa, con parole e modi obbligatori, mentre l’orazione è perfettamente libera e tende comunque al silenzio. Però, quello che abbiamo detto del Rosario (cfr. Semi n. 109) è vero di ogni preghiera vocale:
È chiaro che dobbiamo prestare attenzione a ciò che recitiamo; quando dico «Padre Nostro», mi sembra che l’amore vuole che io comprenda chi è questo Padre … Voi dite: questo è meditare, e obiettate che non potete né volete praticare questo esercizio, che voi desiderate soltanto pregare vocalmente, e in un certo senso avete ragione. Ma io vi confesso che non so come possiate separare queste due cose …».
S. Teresa d’Avila (1515-1582), Cammino di perfezione, cap. 40
C’è dunque una continuità profonda tra preghiera vocale e orazione. Anche se l’ufficio divino non permette una certa spontaneità propria dell’orazione, molto presto un certo automatismo farà dimenticare quest’aspetto formale, permettendo alla nostra attenzione di portarsi più su colui al quale ci si rivolge, che a quello che gli si dice:
Nella preghiera dobbiamo portare la nostra attenzione sulle parole, o sul senso delle parole, o piuttosto su Colui che preghiamo? … Se vi si riflette seriamente, non si può dubitare che l’attenzione che si porta su Dio sia la più perfetta e la più meritoria. Molte coscienze deboli e scrupolose, nella recita dell’ufficio divino, preoccupandosi che possa sfuggire la più piccola parola, sillaba,mettono tutte le loro energie ar pronunciare distintamente ogni parola. Io temo che costoro non arriveranno mai, o quasi, a gustare la dolcezza della preghiera …
S. John Fisher (1469-1533), Trattato sulla preghiera, III
«Qual è il posto di Satana nella vita spirituale? Come sapere se non sono vittima dei suoi inganni quando io credo di avere a che fare con Dio?»
Ahimè! Molto spesso siamo più inquieti per le astuzie del diavolo che rassicurati dall’amore di Dio! Francamente,
Io non comprendo questi timori che ci fanno dire: il demonio, il demonio, quando possiamo dire: Dio, Dio, e così fare tremare il nostro nemico!
S. Teresa d’Avila (1515-1582), Vita, cap. 25
Tanto più che
Più si è perseguitati dal nemico, più si è guardati da Dio, la cui cura e vigilanza sono senza paragone molto più grandi per difenderci, delle astuzie del nostro nemico per ingannarci. E questo perché Egli ci ama più di quanto il demonio ci odi, è più forte della debolezza della nostra carne.
S. Giovanni d’Avila (1499-1569), Lettera 59
Dunque, cominciamo con il non dare importanza più del necessario a Satana: è un geloso e come tutti i gelosi, vuole attirare l’attenzione perché ci si occupi di lui. Perciò la sua strategia non è tanto di farci commettere dei delitti, quanto di distoglierci dall’orazione e dall’unione con Dio: «Non ignora, il traditore, che un’anima che continua nell’orazione è perduta per lui» (Teresa d’Avila, Vita, cap. 14) Così preoccuparsi di lui, è già dargliela vinta.
A dire il vero, non ha, peraltro, altra vittoria che questa: nel racconto del peccato originale vediamo nascere la paura e l’inquietudine nel momento in cui i progenitori fanno alleanza con il tentatore; viceversa nel Vangelo, vediamo la pace ritornare a misura che Gesù va verso i suoi: «Sono io, non abbiate paura!». In altri termini, tutto il potere di satana è nella nostra testa: bisogna sapere che dall’’Antichità, gli spiriti angelici, buoni o cattivi, interferiscono continuamente con la nostra vita mentale, e più precisamente con la nostra immaginazione:
È nell’immaginazione che il demone ha l’abitudine di accorrere con le sue astuzie, che siano naturali o sovrannaturali, perché l’immaginazione è la porta e l’ingresso dell’anima.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), La Salita del Carmelo, II, 16
Così sarebbe errato credere che satana sia l’anti-Dio, che eserciti su di noi un’influenza equivalente a quella della grazia. Ma no! Egli non avrà mai altro potere su di noi che quello che noi gli daremo facendoci complici di questo gioco di immaginazione:
La donna come avrebbe potuto credere alle parole del serpente, se già il suo spirito non fosse stato penetrato dall’amore del suo potere e da una certa e orgogliosa presunzione rivelata dalla tentazione?
S. Agostino (354-430), Lettera sulla Genesi, XI, 30
Satana non potrà mai nulla senza che noi lo vogliamo. E nello stesso istante comprendiamo quale sarà il rimedio contro le iniziative di Satana: mettere fuori uso la nostra immaginazione, poiché:
La Sapienza di Dio non comporta né modo né maniera; essa non ricade su niente di intellegibile che sia limitato e particolareggiato, perché essa è totalmente pura e semplice …
Così che
tutto quello che si può cogliere e vedere tramite l’immaginazione, sia falso e proveniente dal demonio, o che si sappia vero e proveniente da Dio, non ci deve ingombrare né nutrire; l’anima non lo deve ammettere né attaccarvisi, ma restare distaccata, nuda, pura e semplice, senza alcun modo o maniera, come si richiede per l’unione.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), La Salita del Carmelo, II, 16
Allora, concretamente, quando Satana comincia a preoccuparci,
Il disprezzo è il mezzo più veloce per disfarsi di un nemico orgoglioso che niente ferisce quanto lo spregio. È un bambino per quelli che lo disprezzano, e un gigante per quelli che lo temono. Nella vita di s. Antonio e di molti altri santi, si vede, che essi mettevano in fuga legioni di demoni con un riso beffardo e una pungente canzonatura.
Ambroise de Lombez (1708-1778), Trattato della pace interiore, IV, 5, VI
Perciò:
Lasciate arrabbiare il nemico alla porta: che batta, colpisca, gridi, urli e faccia il peggio che potrà. Siamo sicuri che non potrebbe entrare nella nostra anima, se non attraverso la porta del nostro consenso. Teniamola ben chiusa, e di tutto il resto non curiamocene affatto, perché non c’è niente da temere.
S. Francesco dei Sales (1567-1622), Lettera a Madame Bourgeois, aprile 1605
«Sì, ma mettendo così tutti fuori, io non rischio di privarmi di una visita di Dio?»
Per nulla, perché supponendo, per esempio, che una visione venga da Dio, essa non sarebbe altro che una rifrazione nella nostra vita mentale della luce della fede, la quale ci arriva direttamente da Dio, al di sopra di tutta la nostra vita mentale:
Le visioni e le altre cose straordinarie, anche quelle vere sono, molto spesso, segni della debolezza di un’anima che si ferma più davanti al dono di Dio che a lui stesso.
Joseph de Beaufort, la vita di fra’ Lorenzo della Resurrezione (1694)
In tal modo ciò che di sostanziale c’è in queste visioni, gioverà alla fede dell’anima se questa,disprezzandole, saprà rinunziare del tutto a quanto in esse vi è di sensibile e di intellegibile e saprà usare saggiamente del fine che Dio si prefigge nel concedergliele.
San Giovanni della Croce (1542-1591) la Salita del Carmelo, II, 16
Come sapere se sono chiamato/a alla vita contemplativa? Come sapere se ho una «vocazione»?
Sicuramente vuoi dire: come sapere se sono chiamato/a alla vita consacrata, nel senso di vita monastica? E sicuramente pensi che occorra una vocazione speciale per condurre una vita contemplativa. La domanda è posta male, perché 1) una vocazione è sempre contemplativa; 2) tutti noi abbiamo una vocazione, e quindi una vocazione contemplativa; se l’uso tende a riservare la parola «vocazione» alla vita consacrata nel senso istituzionale (vocazione al sacerdozio o alla vita religiosa o monastica), tuttavia c’è solo una differenza di grado tra queste vocazioni e quella dei comuni mortali; 3) la vita consacrata nel senso istituzionale è solo un’organizzazione particolare della vita contemplativa, relativa alle epoche e alle circostanze. Riprendiamo questi punti uno per uno.
1) Noi entriamo nella vita contemplativa
…quando prendiamo una certa coscienza di Dio in noi; quando sperimentiamo, in qualche modo, la sua presenza; quando questo contatto, peraltro permanente e necessario tra lui e noi, ci appare sensibile, prende forma di un incontro, di una stretta, di una presa di possesso.
Henri Brémond (1865-1933), Sull’Umanesimo, III
Parlare di vocazione è parlare di questo dialogo con Dio (vocare significa interpellare), rivelando una relazione che c’era, ma che diviene cosciente, che diviene «presa di possesso»: ci s’innamora letteralmente di Dio, e non ci si può far niente.
2) Questa esperienza della presenza di Dio è universale. È propria dell’uomo, caratterizzata dalla ricerca del Bello, del Vero, e del Bene, in breve, dell’Assoluto, e si può dire, per farla breve, che non c’è uomo senza religione, cioè senza contemplazione. Però, l’intensità di questa esperienza varia all’infinito: mettere un cero in una chiesa suppone già un dialogo minimo con Dio, che dà significato a quel gesto; essere invasi dalla percezione del suo amore come Teresa d’Avila, al punto da sentirlo come una freccia che trafigge il cuore, suppone lo stesso dialogo, ma mille volte, più ricco e intenso. Queste due esperienze sono di natura contemplativa, ma s’indovina che la prima non avrà che conseguenze limitate sulla vita quotidiana, mentre la seconda impedirà in pratica di occuparsi di ogni altra cosa: essa rende chi la prova letteralmente incapace di ciò. Proprio a queste esperienze particolarmente intense si riserva abitualmente la parola «vocazione», specialmente perché esse conducono spesso chi ne beneficia a vivere in modo particolare, per esempio in monastero:
Dio conversa con alcuni in modo più familiare che con altri, ed è un privilegio speciale e gratuito che chiamiamo «vocazione». Questa è una ispirazione, una mozione, o una grande affezione impressa nell’anima, che la spinge a questa modalità d’orazione così elevata, e le comunica nello stesso tempo delle attitudini e dei mezzi per seguirla.
Louis du Pont, 1554-1624, Vita del Padre Balthasar Alvarez, XV
Ma d’altra parte, questo non vuol dire che una vita di preghiera elementare non sia già una risposta ad una vocazione, e d’altronde è chiaro che tra la maggioranza dei fedeli e S. Teresa d’Avila ci sono tutti i livelli intermedi.
3) Di fatto, questa è un’esperienza contemplativa forte che conduce il più delle volte in monastero, perché tutto vi è organizzato (cfr. il testo di Cassiano) per permettere al monaco di coltivare l’intimità con colui di cui si è innamorato con un’intensità particolare. Allora, restare nel mondo sarebbe per lui fonte di tensioni dolorose, almeno fino a che non sia chiara la volontà di Dio che debba restarvi nonostante tutto, perché «come ascolterebbe la dolce ed efficace voce di Dio che è nell’intimo, tra milioni di agitazioni e di tumulti delle creature?». (Miguel de Molinos, 1628-1696), Guida spirituale, III, 13
Precisiamo inoltre che ci sono solo differenze minime tra vita consacrata «contemplativa» (monaci e monache), e vita consacrata «apostolica»: nella Tradizione, la vita apostolica scaturisce da «una sovrabbondanza di contemplazione» (s. Tommaso dice ex plenitudine contemplationis ). Nella Chiesa latina, questo è vero ugualmente per il sacerdozio, poiché è riservato a uomini che, prima di tutto, hanno assunto gli impegni di una vita consacrata, specialmente con il celibato.
Si, ma con tutto ciò continuo a non sapere se sono chiamato ad entrare in monastero o in seminario!
Con tutto questo, hai tutti gli elementi per sapere se vale la pena porti la domanda: essa merita di essere posta se l’intensità della tua esperienza di Dio è tale che diviene troppo «ingombrante» per continuare a vivere con disinvoltura nel mondo. Ora, Dio parla prima attraverso il tuo dovere di stato, il tuo temperamento, le circostanze, etc…: se sei padre di famiglia o non sei capace di vivere in modo stabile gli obblighi della vita religiosa, è chiaro che Dio non ti attende al monastero. Nota bene che in tutti questi casi, Dio non ti impedirà la contemplazione (non ha l’abitudine di riprendere i suoi doni), ma ti obbligherà a viverla nelle situazioni meno adatte, e quindi più esigenti, cosa che per contrasto può perfino rafforzarla:
La contemplazione è meglio dell’azione e della vita attiva, ma se nella vita attiva vi si trova più unione, essa è migliore … Capita abbastanza spesso che si è uniti a Dio tanto nell’azione quanto nella solitudine.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Veri Colloqui spirituali, Appendice I F
Ma infine, non dobbiamo anticipare le difficoltà, e per quel che dipende da noi, se ci sentiamo portati ad una vita organizzata per coltivare la contemplazione, vale la pena prenderla in considerazione. A partire da lì, vedremo la prossima volta come una vocazione di questo tipo si consoliderà.
Come sapere se si ha una «vocazione»? (segue)
Ci siamo lasciati sulla necessità di provare l’attrazione per la vita consacrata per prenderla in considerazione serenamente. Al contrario, se questa attrazione non c’ è:
Tutte le circostanze, che d’altra parte sarebbero più che sufficienti per ratificare [la scelta della vita consacrata], non hanno affatto peso, a confronto di questa forte inclinazione e propensione che voi avete [per un’altra vita]; inclinazione che, in verità, sarebbe poco attendibile se fosse debole e fragile, ma essendo forte e certa, deve servire da fondamento per arrivare ad una risoluzione.
S. François de Sales (1567-1622), Lettera 1998
In effetti, una vocazione autentica è portatrice di uno slancio vitale, di un desiderio di superamento senza cui essa non sarebbe che un’idea; non si entra in monastero o in seminario perché è meglio, ma perché in fondo, non si può fare altrimenti:
Io ritengo che la regola da seguire sia questa: «io non sono destinato ad essere religioso, finché Dio non mi forza ad esserlo». In altre parole, se un uomo sente: «io devo», allora è una vera vocazione, altrimenti no. Un semplice desiderio non è sufficiente. Il semplice sentimento di una vita superiore non condurrà oltre il noviziato. Anche un convincimento intellettuale, che poggia su delle premesse ben ragionate:«Questa vita mi conviene e sono fatto per lei», non sarà un motivo sufficientemente forte.
Don John Chapman (1865-1933), Lettera del 29 agosto 1916
In altri termini, finché non si è ben sicuri di essere innamorati, vuol dire che non lo si è, o non ancora, o non abbastanza. Così urge allora attendere con calma che Dio parli chiaramente:
Mi sembra opportuno per un «direttore» scoraggiare le persone che pensano di avere una vocazione. Se questa è reale, supererà tutti gli ostacoli e si affermerà, non come un semplice invito, ma come un imperativo categorico. Attendendo che questa prenda forma, nel vostro caso, penso che voi dovreste semplicemente toglierla dalla vostra mente, non come una tentazione, ma come uno spreco di energia. Molti sono coloro che sprecano le proprie energie immaginando di essere destinati ad essere religiosi e (ahimè!) «cercano la loro vocazione» ripetutamente. Non fanno bene e non ne ricavano alcun bene.
Idem
Occorre dunque un’attrazione. Ma per che cosa? La vita consacrata suppone ad ogni modo di essere attratti dalla solitudine e dal silenzio, ma un silenzio abitato da Dio; occorre che
L’anima gusti di essere sola in una amorosa attenzione a Dio, senza considerazioni particolari, in una pace interiore, nella quiete e nel riposo.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), La Salita del Carmelo, II, 13
E più questa attrazione si affermerà, più distaccherà l’anima da tutto ciò che non è Dio. Potreste forse essere chiamati a una vita contemplativa
Se questo riposo vi distacca da tutte le creature per unirvi al vostro creatore, e vi toglie il gusto di tutte le cose della terra, e di tutto ciò che non è Dio … Se questo raccoglimento vi rende più forte nel disprezzo del mondo e di voi stessi e nella stima e nell’amore per il disprezzo e per le umiliazioni.
Jean Rigoleuc (1596-1658), Lettera XI
Infine, una vocazione è leggibile solo all’interno di una volontà ben ferma nel fare la volontà di Dio qualunque cosa succeda. Se avete questa volontà, allora l’ipotesi di una vita consacrata
vi darà più coraggio e forza per vincervi e mortificarvi, più fedeltà a corrispondere alle grazie di Dio, e più diligenza ed esattezza nell’ assolvere i doveri e gli obblighi del vostro stato.
Idem
Qui, non dimentichiamo che la vita cristiana è una storia, e se ogni passo permette di vedere quello successivo, solo il penultimo permette di vedere l’ultimo, cioè la nostra vocazione ultima. All’inizio, si brancola, e via via che le possibilità si riducono e la nostra fedeltà aumenta, la nostra traiettoria diventa più precisa:
Non bisogna volere che tutti comincino con la perfezione: poco importa come si inizia, purché si sia ben risoluti nel perseguire e finire bene.
S. Francesco di Sales a madre di Chastel, metà marzo 1622
Perché
La buona vocazione è solo una volontà ferma e costante della persona chiamata, di volere servire Dio nel modo e nel luogo in cui la divina Maestà la chiama; questo è il miglior segno che si possa avere per riconoscere quando una vocazione è buona.
S. Francesco di Sales, Veri trattenimenti, XVII
Infatti, non si finisce di scoprire una vocazione se non al suo punto di arrivo, cioè dopo aver risposto giorno per giorno alla chiamata di Dio; allora il senso completo di questo lungo dialogo ci è manifestato, perché siamo compiutamente diventati suoi figli, secondo il modo unico che egli ha previsto per noi da sempre, e che è precisamente la nostra vocazione:
Ci sono alcuni, diceva S. Francesco di Sales, che si rompono la testa e si arrovellano il cervello a forza di meditare e di consultare quale genere di vita devono abbracciare: il celibato, il matrimonio, o il convento, o altra vocazione nel mondo, ritenendo che a forza di considerare o di indagare, scopriranno la volontà di Dio in merito … Egli non voleva tutto questo lavorio, dicendo che tutte le barche sono buone per fare il tragitto da questa vita mortale a quella immortale, e visto che questo passaggio è così breve, non è questione di fare sì grandi provviste di prudenza umana; [diceva] che la cosa principale è di avere attenzione alla grazia e alla Provvidenza di Dio, pregandoLo, qualsiasi condizione abbracciamo, di tenerci per la mano destra, e di condurci alla sua volontà. Lì, infatti, è il vero cammino della gloria e della salvezza di Dio.
Jean-Pierre Camus (1584-1652), Lo Spirito del Beato Francesco di Sales, XIV,25
«Amo molto i testi che ogni mese leggo in Semi. Ma perché non mi hanno insegnato ciò al catechismo? Perché non veniamo educati all’orazione fin dall’inizio della vita cristiana?».
Perché dopo il peccato originale, che ruppe l’unione tra Dio e l’uomo, il Nemico del genere umano cerca soprattutto di impedire che essi si riuniscano. Per questo all’inizio di una vita cristiana, egli si attaccherà sempre più alla nostra orazione che alla nostra virtù:
Questo nemico mortale degli uomini sa bene quello che fa quando s’ingegna a spingerci nel precipizio! Non ignora, il traditore, che un’anima che persevera nell’orazione è perduta per lui.
S. Teresa d’Avila (1515 – 1582), Vita, 19
Poiché tutti i suoi sforzi sono diretti a convincerci che l’orazione è tempo perso e a stroncare sul nascere ogni velleità di vita spirituale, è normale che il catechismo sia un terreno dove porta i suoi attacchi, perché
è un errore e una debolezza della nostra natura cieca, il non essere liberi alla presenza di Dio, e apparire davanti a lui solo come schiavi timidi e vergognosi davanti a un principe, tremando di paura, e non pensando che a fuggire per andare a cercare altrove la nostra consolazione e la nostra libertà.
Michel Boutault, (1604 – 1689), Metodo per conversare con Dio
Imparare questa conversazione familiare con Dio, suppone di apprendere la lingua che Dio parla, cioè la Rivelazione, totalmente intera nella Santa Scrittura e nella Tradizione della Chiesa. È questo apprendistato che definisce una formazione cristiana, di cui la Chiesa ha ricevuto la missione:
Il desiderio di Dio comprende l’amore per le lettere, per la parola, per la sua esplorazione in tutte le dimensioni, …apprendere a penetrare il segreto della lingua, a comprendere le sue strutture e i suoi usi. Così, in ragione stessa della ricerca di Dio, le scienze profane che indicano il cammino verso la lingua, divengono importanti …
Benedetto XVI, 12 settembre 2008
Si vede così delinearsi il programma di s. Ignazio che fonda i collegi gesuiti, erede di Erasmo e dei Fratelli della vita comune nella Europa del Rinascimento. Ne siamo lontani? Allora cominciamo subito:
Guardate questa cosa come la prima, la principale, la più necessaria, la più pressante e la più importante di tutte le altre cose, e liberatevi, per quanto vi sarà possibile, da tutto quel che è meno necessario.
S. Jean Eudes (1601 – 1680), La Vita ed il Regno di Gesù, II, 11
«S. Teresa d’Avila e molti altri ci parlano delle meraviglie del “matrimonio spirituale” e altre situazioni paradisiache per coloro la cui vita spirituale si sarà sviluppata fino al culmine. Una tale felicità è realmente possibile, o questo è solo un modo di dire? E se sì, con quale frequenza? Non bisogna attendere di essere morti per conoscere la vera felicità?».
La nostra prima e più frequente eresia è di credere che il cristiano muore, con o senza paradiso dopo: ebbene, dice Gesù: «Colui che crede in me è già passato dalla morte alla vita…Non morirà mai». Non si tratta di un modo di dire, ma della reale vittoria di Gesù sulla morte. Allora, la crescita della vita cristiana sarà crescita in questo godimento della vita eterna già data e non la sua acquisizione come se fosse una ricompensa per le nostre buone opere. La vostra domanda allora è: questa crescita, quaggiù, può arrivare fino alla felicità piena? Ci limiteremo a citare solo qualche affermazione di un autore particolarmente chiaro su questo punto, padre Jean Surin (1600-1665): dopo, ordinariamente, diverse prove (“le notti dell’anima”),
Dio introduce l’anima nel paradiso, non in quello del cielo, ma in quello che si può sperare sulla terra, che consiste in un’unione così grande con lui e un tale scambio di amore che il mondo non ne ha quasi nessuna conoscenza. Questa è una vita molto felice e santa, con comunicazioni di Dio continue, molto elevate e familiari, che la tengono strettamente legata a lui e come affidata nella perpetua azione vivissima e fortissima verso di Lui, e nell’impiego eccellente verso il prossimo, e generalmente verso tutto quello che egli vuole… Spesso le anime molto buone e sincere se ne scandalizzano, non potendo immaginare che Dio sia fatto così… Quando ella sta lì, è felice.
Lettera 284, del 30 gennaio 1660
Il culmine della vita spirituale non è solamente il cielo, ma in questa vita, uno stato di pace e di gioia, di luci e di sante delizie, con il cuore unito a Dio nel possesso di tutte le virtù; questo è ammirabile e desiderabile più di tutto quello che si può dire.
Lettera 295, del 19 marzo 1660
Il mio Vangelo, è che Dio ci dato suo Figlio che, essendosi fatto uomo per amore nostro e avendoci predicato delle verità che si chiamano evangeliche, ci conduce con la pratica di queste verità non solamente alla beatitudine dell’altra vita, che i predicatori promettono, in suo nome, agli uomini, ma ancora ad uno stato di felicità dove coloro, che lasciano tutto per amore di lui, possono stabilirsi già in questa vita… E questo, come dice Gesù, nonostante le persecuzioni e i travagli del mondo, nonostante le croci che Dio non lascia di dare ai suoi amici, le aridità, il disgusto, le pene interiori, le malattie, e le infermità corporali… Ecco il mio Vangelo… Io, che sono già vecchio, ho visto così tante persone che hanno sperimentato in sé la verità di quel che affermo, che non temo di passare per temerario affermando sulla loro testimonianza che sta a noi farne l’esperienza, e renderci felici già in questa vita.
Lettera 566, del 2 dicembre 1664
C’è una posizione migliore di un’altra per fare orazione?
L’orazione è essenzialmente sovrannaturale, e Dio non aspetta per invitarsi in noi, che stiamo in ginocchio piuttosto che seduti, in procinto di camminare o fermi, in chiesa piuttosto che in auto. Così che tutti i maestri sottoscriverebbero questa risposta generale di S. Agostino:
Quando qualcuno vuol pregare, si metta nella posizione che meglio gli conviene in quel momento per occuparsi della sua anima. E quando il desiderio della preghiera viene da se stesso senza cercarlo, quando giunge all’improvviso nell’anima qualcosa che muove l’affetto con gemiti inesprimibili (cfr. Rom 8, 26 ss), in qualunque situazione ci si trovi, non bisogna posticipare l’orazione, per cercare un luogo ritirato, o mettersi in piedi o prostrati. Infatti, con il raccoglimento l’anima si crea una solitudine, e spesso dimentica in quale luogo o in quale posizione è stata colta all’improvviso da questa ispirazione.
S. Agostino (354-430) A Simplicio, II, 4
Stando così le cose, per quello che dipende da noi, la migliore posizione sarà quella che ci aiuterà di più ad esprimere con il nostro corpo quello che portiamo nella nostra anima: mettersi in ginocchio aiuta ad esprimere l’adorazione, sedersi aiuta ad ascoltare, etc. Per questo:
Non trascurare di metterti in ginocchio. Mettersi in ginocchio rappresenta, infatti, la caduta del peccato, che provoca la confessione. E rialzarsi significa pentirsi, il che richiama la promessa della vita virtuosa. Ma ogni prosternazione sia accompagnata dall’invocazione spirituale a Cristo, affinché, inclinando l’anima e il corpo davanti al Signore, si sia riconciliati con il Dio delle anime e dei corpi.
Teolepto di Filadelfia (1250-1325), Filocalia
Oltre alla posizione del corpo, vi è anche la disposizione dei luoghi, e ancora, tutto il «sensibile» della preghiera:
Gli uomini sono ricorsi a pratiche sensibili, quali prostrazioni, genuflessioni, esclamazioni vocali, e canti, non per scuotere Dio, ma per smuovere loro stessi alle cose di Dio … Noi facciamo questo affinché, tramite queste azioni sensibili, la nostra intenzione sia diretta verso Dio e il nostro amore infiammato …
E questo perché l’uomo è indissolubilmente corpo e anima, nella preghiera come altrove:
… Nello stesso tempo noi confessiamo che Dio è l’autore della nostra anima e del nostro corpo, lui al quale offriamo questi omaggi spirituali e corporali.
S. Tommaso d’Aquino (1224-1274), Contro i Gentili, Libro III, cap. 119
Gli antichi erano molto meno preoccupati di noi per la posizione del loro corpo nella preghiera:
Io comincerò la mia contemplazione ora in ginocchio, ora prostrato, o disteso a terra con il viso verso il cielo, ora seduto, ora in piedi, cercando sempre di trovare quello che io desidero … E se trovo ciò che desidero in ginocchio o prostrato, io non cercherò altra posizione.
S. Ignazio di Loyola (1491-1556), Esercizi spirituali, § 76
Uno si manterrà in piedi, l’altro in ginocchio; quello si prostrerà per tutta la sua altezza, l’altro si metterà supino, l’altro prono; uno metterà il suo viso tra le ginocchia, un altro lo nasconderà tra le mani; uno seduto, si appoggerà sul suo gomito, un altro su entrambi; uno alzerà gli occhi più in alto possibile, un altro li abbasserà, un altro guarderà qui e là, uno sarà fermo, l’altro camminerà. Ognuno segua quello che gli sembrerà più opportuno per agevolare l’accesso alla contemplazione, a meno che non sia legato da una disciplina o da una regola comune all’osservanza di momenti, luoghi e posizioni determinate.
Jean Gerson (1363-1429), Teologia mistica, Trattato II, Considerazione IX
In breve,
La migliore preghiera o orazione, è quella che ci mantiene così ben fissi in Dio che non pensiamo affatto a noi stessi, né a quello che facciamo. Insomma, bisogna stare lì semplicemente, in buona fede e senza artificio, per essere vicino a Dio, per amarlo ed unirsi a lui.
Francesco di Sales, Lettera a Madame de Granieu, 8 giugno 1618
Quello che ci inganna, è che molto spesso tendiamo a misurare il valore dell’orazione con quello che può avere di faticoso, dimenticando che essa vale solo per l’amore che esprime. Ancora una volta, non cerchiamo la prestazione, aumentando a dismisura la durata dell’orazione, né forzando il nostro corpo a delle posizioni di «santi», né confondendo il raccoglimento con la concentrazione mentale. L’orazione deve cercare di essere tranquilla, semplice, in breve, amorosa:
Bisogna sapere che se l’orazione fosse un po’ faticosa, e fosse offerta per espiare i peccati, questo non sarà il frutto principale, ma al contrario il minore; perché paragonata alla luce, al gusto e alle virtù che Dio dà in essa, l’afflizione e l’esercizio del corpo contano ben poco … Pertanto, il corpo deve stare, durante il tempo di questa meditazione, secondo quel che gli consente la salute e secondo il riposo necessario richiesto dall’anima per occuparsi del Signore, a maggior ragione questo si applica se questo tempo dura due o tre ore, come avviene per alcuni, poiché pochissimi sono in grado di sopportare la fatica del corpo senza perdere l’attenzione necessaria a questo esercizio.
S. Jean d’Avila (1499-1569), Audi Filia, Conoscenza di Gesù Cristo, II, 7
Qual è il ruolo della Vergine Maria nella vita di orazione?
“Tutto dipende da Gesù, e Gesù dipende da Maria” (Charles Gay). La nostra orazione dipende dunque da Maria perché lei dipende da Gesù:
Oh Maria, se tuo Figlio, grazie a te, è diventato nostro fratello, tu grazie a lui, non sei diventata madre nostra? Mentre doveva affrontare per noi la morte in croce, dice a Giovanni, uomo nel quale ci sentiamo tutti inclusi: «Ecco tuo madre»
S. Eadmer di Canterbury (1064-1124 ), Sulla Concezione di santa Maria,3
Cosicché c’è in qualche modo una maternità di Maria nella nostra orazione:
Quando il Padre eterno invia nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, che grida: Abba, Padre! sia quando agiamo sia quando non agiamo, cioè, quando realizza in noi una tenerezza, un amore da bambini verso il Padre del cielo, allora questo Spirito del Figlio realizza inoltre una tenerezza e un amore di figli verso questa infinitamente dolce e tenera Madre. E, in questo senso, il Padre eterno invia così nei nostri cuori lo spirito del suo Figlio, che grida: Madre, Madre! Perché questo è un solo e medesimo Spirito, lo Spirito di Cristo, che suscita nelle anime quest’ amore filiale e questa vita in Maria, come suscita un amore filiale e una vita in Dio: e tutto questo come fu realizzato da Nostro Signore Gesù.
Maria Petyt (1623-1677), Vita Mariforme
Questa maternità di Maria ne fa la dispensatrice dei doni di Dio:
La vita eterna è una sorgente inesauribile che innaffia e inebria tutto il Paradiso. Questa è la fontana dei giardini e il pozzo delle acque vive che scorrono impetuose dal Libano (Ct 4, 15), questo è il fiume che rallegra la città di Dio (Sal 45, 5). Ma cos’è questa fontana di vita, se non il Signore Gesù?…Questo filo di acqua del cielo è disceso a noi tramite un acquedotto, non prese per niente l’apparenza di una sorgente abbondante, ma, lasciando cadere la grazia goccia a goccia, nelle nostre anime aride, ha donato ad alcuni di più, ad altri meno… Comprendete già, se non erro, di chi intendo parlare, riferendomi a acquedotto: ha preso dal cuore del Padre la stessa pienezza della sorgente e ce l’ ha donato, così come l’aveva ricevuta, o per lo meno tale che possiamo riceverla. Voi sapete bene, in effetti, a chi si rivolgono queste parole: “Vi saluto piena di grazia”.
S. Bernardo (1090-1153 ), Sermone per la Natività della Beata Vergine Maria
Nello stesso tempo in cui ci fa nascere all’orazione, Maria ce ne offre l’esempio più perfetto:
La sua orazione è un’orazione di fede e nudità; ignora talmente ciò che vi accade, che non si permette nemmeno di riflettervi. Più raccoglimento sensibile; più presenza di Dio gustata e percepita. Lei prega sempre, ma semplicemente dal cuore e quasi senza nessun atto distinto; niente di notevole, anche per lei, nei suoi esercizi di devozione. Le altre donne che la frequentavano, non vedevano niente in lei che le colpisse, né che facesse dire loro: Ecco una donna di una pietà straordinaria! Se Maria fosse stata capace di qualche condiscendenza di amor proprio, in questa vita comune lei si sarebbe compiaciuta, di essere confusa con la folla… Nel suo lavoro che era quasi continuo, lei non perdeva né la presenza di Dio, né la pace del cuore; consacrava alla preghiera i momenti che aveva liberi.
Jean-Nicolas Grou (1731-1803), L’interiorità di Gesù e Maria, II, XXVIII
Non si osservano affatto nella vita di Maria né rapimenti, né estasi, perché i suoi rapimenti furono continui, ha amato di un amore sempre forte, ardente, ma tranquillo, accompagnato da una grande pace. E sebbene questo amore andasse crescendo senza tregua, questo non avvenne affatto con sbalzi e slanci, ma come un dolce fiume, lei sempre scorreva, e quasi impercettibilmente, verso questa unione tanto desiderata della sua anima con la divina Bontà.
S. François di Sales (1567-1622), Omelia per la festa dell’Assunzione
Poiché è madre dell’unico mediatore, la nostra orazione è «portata» da quella di Maria, in questo si definisce il suo ruolo di mediatrice:
Ci occorre un mediatore per arrivare al Mediatore, e non ne vedo altro più utile di Maria… Perché la debolezza umana temerebbe di avvicinarsi a Maria? Non c’è niente di austero, niente di terribile in lei, è tutta dolce e offre, a tutti, latte e lana. Percorrete attentamente tutta la storia evangelica, e vedete se trovate in Maria una parola di rimprovero, una sola parola dura, il più piccolo segno di indignazione, capisco che possiate pertanto immaginarla ed avete paura di avvicinarvi a lei. Ma al contrario, se voi la trovate in ogni occasione, come, in effetti, la trovate, piuttosto piena di grazia e di bontà, piena di misericordia e dolcezza, rendete grazie a colui, che nella sua infinita dolce misericordia, vi ha donato un mediatrice tale da non avere mai assolutamente niente da temere in lei.
S. Bernardo (1090-1153), Omelia per la domenica nell’ottava dell’Assunzione, 1-2
Ma c’è rischio di abuso nel dare tanto spazio a Maria?
Fai bene attenzione, anima predestinata, a credere che sia più perfetto arrivare direttamente a Gesù, a Dio nel tuo operato e nelle tue intenzioni, se tu vuoi andarci senza Maria, il tuo operato, la tua intenzione sarà di poco valore; ma andandoci tramite Maria, questo è l’operato di Maria in te, e di conseguenza, sarà molto elevato e molto degno di Dio.
S. Louis-Marie Grignon de Montfort (1673-1716), Il segreto di Maria, 6,50
E, in questo, Maria porta alla sua perfezione ciò che è vero di tutti i santi:
Tutto quello che è dei santi, rende omaggio a tutto ciò che è di Gesù, che è il Santo dei santi; e tutto ciò che è in loro, procede dagli stati della sua divina persona, nei quali lo glorificano.
Guillaume Gibieuf (1583-1650), Sulla vita e le Grandezze della Vergine, XVII
Qual è il ruolo degli angeli nella vita spirituale? E in primo luogo, esistono?
L’esistenza degli angeli fa parte della fede cristiana, come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: «L’esistenza degli esseri spirituali, e non corporali, che la Santa Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede. La testimonianza della Scrittura è chiara quanto l’unanimità della Tradizione» (§ 328 ). Ora, gli angeli, buoni o cattivi, non sono una specie di piccoli dei, ma proprio come noi, persone che il Dio unico fa partecipare alla sua opera, senza pertanto esserne autori; l’angelo sta alla creatura come il giardiniere sta alla pianta, dice S. Agostino (354-430):
… gli angeli non possono creare nessuna realtà: il solo autore delle realtà, grandi o piccole, è Dio, in altri termini la Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo… Non voglio affatto dire che gli angeli non hanno nessuna parte nella creazione di qualcosa, ma che non hanno la potenza creatrice, così come l’agricoltore non saprebbe creare né le sue messi né i suoi alberi. Chi pianta e chi innaffia, non è niente: è Dio solo che fa crescere …
Sul senso letterale della Genesi, IX, 15-26
Per questo
Gli angeli sono presenti in noi tramite i buoni pensieri che ci suggeriscono, non per il bene che vi operano; ci esortano al bene, ma non lo creano in noi. Al contrario, Dio è in noi in un modo tale che incide sulla nostra anima direttamente, vi infonde i suoi doni, o piuttosto, vi espande se stesso e ci fa partecipare alla divinità, a tal punto che un autore non ha temuto di dire che Egli fa uno con noi… Gli angeli, dunque, sono con la nostra anima, Dio è dentro di lei.
S. Bernardo (1090-1153), Sulla Considerazione, XII
Se l’angelo non crea niente, non dobbiamo dunque temere qualche potere occulto, buono o malvagio, da parte sua. Cedere alla tentazione, per esempio, non è cedere a una forza malefica, ma allearsi liberamente con il tentatore:
La donna come avrebbe potuto credere alle parole del serpente, se già il suo spirito non fosse stato penetrato da quest’amore per il proprio potere e da una certa e orgogliosa presunzione, rivelata da questa tentazione?
S. Agostino (354-430) Sul senso letterale della Genesi, IX, 30
Ed è attraverso la porta dell’immaginazione che l’angelo, specialmente quello malvagio, entra in noi:
Il diavolo ignora quello che l’uomo pensa nell’intimo della sua anima; non lo comprende se non attraverso i suoi movimenti esteriori; e allora, vedendo quello che è generato in ciascuno dal gusto, introduce le diverse suggestioni.
S. Girolamo (350-420), Annotazioni sul Salmo 16, 2
Sicché chiudere la porta dell’immaginazione, ci mette al riparo da tutte le interferenze angeliche; ciò vuol dire che la fede tutta semplice basta a metterci al riparo dal potere di Satana:
Lasciate il nemico furibondo fuori dalla porta: che bussi, che picchi, che gridi, che urli e faccia il peggio che potrà; siamo certi che non potrebbe entrare nella nostra anima se non attraverso la porta del nostro consenso. Teniamola ben chiusa, e di tutto il resto non preoccupiamoci per nulla, perché non c’è niente da temere.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Lettera di aprile 1605
Viceversa, la virtù suppone un’alleanza con l’angelo buono:
Se qualche luce o calore interiore aumenta la tua devozione e il tuo fervore nella preghiera e ti porta a pensieri pii; se questo porta e trascina il tuo cuore a desiderare di più le virtù, se questo fa crescere il tuo amore per Dio e il prossimo e ti rende più umile ai tuoi occhi, puoi credere che ciò è l’effetto della presenza e dell’azione di un buon angelo.
Walter Hilton († 1396 ), La Scala della Perfezione, I, cap. 11
In effetti, la tradizione cristiana associa l’angelo a tutto il funzionamento della nostra vita mentale: non è esattamente un mediatore tra Dio e l’uomo, ma è sempre legato alla presa di consapevolezza da parte dell’uomo dell’azione divina, come lo vediamo nel momento dell’Annunciazione, per esempio. È così che ci fa comprendere il ruolo dell’angelo custode e di tutti gli angeli buoni, associati a Dio nella cura che si prende di noi, come lo vediamo nelle pagine della Bibbia: «Dio ordinerà ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno, perché non inciampi nella pietra il tuo piede» (Sal 91,10-12 ).
Questa certezza ci basta per affidarci agli angeli buoni, e non temere il potere di quelli malvagi:
Siate familiari degli angeli; vedeteli spesso presenti, in modo invisibile, nella vostra vita; supplicateli spesso, lodateli ordinariamente, e implorate il loro aiuto e soccorso in tutte le vostre cose, sia spirituali sia temporali, in modo che cooperino alle vostre intenzioni.
S. Francesco di Sales, Introduzione alla vita devota, II, 16
Come spiegare le visioni, le rivelazioni, le stigmate e gli altri fenomeni straordinari nella vita contemplativa?
Questi fenomeni accadono più spesso di quanto non si pensi, anche se il nostro secolo razionalista preferisce spiegarli con la natura piuttosto che con la grazia. La verità è che occorrono entrambe perché si formi una visione.
Cosa è successo a Lourdes nel caso di Bernardette, per esempio? Una semplice immagine ce lo farà comprendere: una pietra gettata nell’acqua produrrà dei cerchi concentrici. Ecco, la pietra è la grazia divina; l’acqua è l’anima umana; i cerchi sono lo scossone che l’impatto della pietra produce in quell’anima. Si vede dunque che la visione mette in moto, contemporaneamente, un elemento naturale e un elemento sovrannaturale, e così sarebbe falso interpretarlo come un fatto meramente psichico, quanto ritenerlo un fatto unicamente miracoloso.
Sviluppiamo questa prima immagine con una seconda: quella della luce del sole che penetra l’atmosfera terrestre. Fin tanto che è nel vuoto intersiderale, la luce è invisibile, ma appena raggiunge l’atmosfera diviene il nostro bel cielo blu. Ebbene, «Dio è luce», dice s. Giovanni. E ci dice ancora s. Giovanni «Dio nessuno l’ha mai visto». In effetti, la luce è invisibile: i cosmonauti ci dicono che essi sono circondati da tenebre, mentre dalla terra li vediamo nella luminosità del cielo. Perché?
Perché
“non è la luce che si vede, ma ciò che la luce mostra”
ci dice questa volta s. Giovanni della Croce a proposito della luce spirituale (Salita del Monte Carmelo, II, 14 );
Infatti
la luce solare diviene visibile proprio perché frenata, poi fermata dagli strati sempre più densi di atmosfera terrestre. Allo stesso modo si deve considerare per la formazione delle idee, poi delle immagini, e infine delle sensazioni legate alla nostra percezione del mistero di Dio, come la rifrazione della sua luce invisibile negli strati sempre più densi della nostra anima.
Se “l’atmosfera psichica” della persona è molto intellettuale (come nel caso di un universitario del XIII sec.), darà vita a un san Tommaso d’Aquino; se è molto immaginativa (come nel caso una spagnola del XVI sec.) genererà una santa Teresa d’Avila; se è molto sensibile materialmente (come nel caso di una pastorella dei Pirenei del XIX sec.) produrrà una santa Bernardette Soubirous, etc. È così che si forma la cultura ed il linguaggio cristiano, fedeli a Dio e all’uomo, generando una Tradizione la cui continuità è quella dell’Incarnazione, quella della venuta del Verbo nella nostra carne.
Tra questi fenomeni, come discernere i veri dai falsi?
La domanda è mal posta: “Nessuno può dire: Gesù è il Signore, se non sotto l’influsso dello Spirito Santo” (1 Cor 12, 3). Poco importano allora, le vie tramite le quali lo Spirito Santo ha penetrato la nostra mente per farci porre questo atto di fede. In rapporto a questa fede la Chiesa valuta una rivelazione “privata”, cioè legata ad una esperienza individuale, e non al suo insegnamento ufficiale. Si pronuncia sempre sulla conformità a questa fede, e non sulla natura esatta dei fenomeni più o meno spettacolari che accompagnano questa presa di coscienza di questo o quello dei suoi aspetti. A Lourdes, la Chiesa non ha detto: «Grazie a Bernadette, noi sappiamo che la Vergine Maria è Immacolata fin dal suo concepimento», ma «la fede di Bernadette è conforme alla nostra, poiché ci dice che la Vergine Maria è Immacolata dal suo concepimento». Per il servizio che rende ai fratelli, poco importa che Bernadette vi sia pervenuta per una via piuttosto che per un’altra. San Giovanni della Croce fa di questa conformità alla fede cristiana una regola generale dell’autenticità delle rivelazioni nell’Antico come nel Nuovo Testamento. Quando i profeti interrogavano Dio:
Ogni volta che rispondeva, parlava o rivelava, ora con parole, ora con visioni o manifestazioni, era sui misteri della nostra fede e sulle cose concernenti e destinate a essa, pertanto le cose riguardanti la fede non vengono dall’uomo, ma dalla bocca di Dio stesso (La salita del Carmelo, II, 22 ).
Così si spiega perché questo tipo di rivelazione non è mai necessaria per la fede, per cui il cristiano non deve ricercarle per se stesse, perché in fondo sarebbe un ritorno al Vecchio Testamento:
Ma, adesso, che la fede è fondata su Cristo e che la legge evangelica è manifestata in quest’epoca di grazia, non c’è più ragione di interrogare Dio in quella maniera, né che Egli parli e risponda come allora. Perché, donandoci, come ci ha donato suo Figlio che è la sua unica Parola – e non ne ha altra – ci ha detto e rivelato tutte le cosa nello stesso momento e in una sola volta tramite questa sola Parola, e non ha più niente da dire.
(Idem)
Bisogna seguire una rivelazione privata o almeno è permesso ciò?
Bisogna seguire Gesù, e poiché la strada dei santi si confonde normalmente con quella di Gesù, è normale che ci confermino nella nostra fede: questo è il servizio reso da santa Bernardette ai suoi fratelli. Cosicché quando la Chiesa riconosce autentica una rivelazione privata, anche se non si pronuncia sulla natura esatta dell’esperienza di chi la riceve, ciò non significa che garantisce meno la validità del cammino verso Gesù che essa indica. Ma ciò è proprio per il fatto di non rischiare di confondere il contenente con il contenuto,
Noi camminiamo più sicuri tramite la fede, la cui luce è al di sopra di tutte le visioni e rivelazioni di cose segrete e nascoste.
Giovanni Bona ( 1609-1674 ), Trattato sul discernimento degli spiriti, cap XIX
Quindi, se il vostro gusto non è orientato verso l’ultima meta di pellegrinaggio alla moda:
Quale è il bisogno di esporsi al pericolo di sbagliarsi affermando o negando, definendo queste cose, poiché si possono ignorare senza commettere un crimine?
Idem, citando S. Agostino
Nel corso dell’orazione, sono disturbato da pensieri orribili, da tentazioni blasfeme e da altre immagini ossessive … Il demonio c’entra qualcosa? Devo continuare a fare orazione in queste condizioni? C’è un rimedio?
Certo, il demonio c’entra. E allora? “Guardate davanti a voi, e non guardate i pericoli che vedete da lontano: vi sembra che siano degli eserciti, non sono che salici sbrancati!» (S. Francesco di Sales, Lettera del 22 luglio 1603). Per quanto questi fantasmi siano spaventosi, vergognosi o ripugnanti, il tentatore non ha altro potere che quello che noi gli diamo (cfr Semi n. 114), e più noi prendiamo sul serio le sue suggestioni, più gli diamo potere! Il rimedio? Burlarsene, molto semplicemente. Ma se questo vi sembra troppo semplice, domandiamo ad alcuni grandi classici di rassicurarci:
Notate se la tentazione vi piace o se vi dispiace; e ascoltate questa bella sentenza di un antico padre, secondo cui i peccati non possono nuocere quando dispiacciono: tanto meno le tentazioni! E poiché so che l’opinione del nostro beato Padre (s. Francesco di Sales) è un oracolo, ecco una sua sentenza a questo proposito: «Notate ciò, dice, finché la tentazione vi dispiacerà, non c’è nulla da temere; infatti, perché vi dispiace, se non perché non la volete?».
Io vi dirò a tal proposito un’eccellente lezione che io una volta appresi dal nostro beato Padre, quando gli chiesi su questo soggetto: «Quando dubiterete, mi disse, di aver acconsentito al male, prendete sempre questo dubbio per negativo. Ecco la ragione: per formare un vero peccato, occorre un vero e pieno consenso della volontà, poiché non c’è alcun peccato se è involontario; ora il pieno consenso è così chiaro che non lascia dietro di sé alcuna ombra di dubbio».
Jean-Pierre Camus (1584-1652), Lo spirito del Beato Francesco di Sales, parte XVII, 21
E Teresa d’Avila, a proposito di «anime raggomitolate» per il timore di offendere Dio:
Comprendete bene che Dio non si ferma davanti a tante sciocchezze, come voi pensate! Non lasciate la vostra anima e il vostro coraggio rattrappirsi, facendovi perdere molti beni. Lo ripeto: intenzione retta, volontà determinata a non offendere Dio, e non lasciate la vostra anima ripiegarsi su se stessa; perché invece di darvi la santità, questo vi porterà molte imperfezioni che il demonio vi manderà per altre vie.
Teresa d’Avila, Cammino di perfezione, cap. 72
Le tentazioni possono farci solo il male che vogliamo … Non si deve opporre una viva resistenza alle tentazioni, ma sostituire il disprezzo alla forza se non cedono ai primi colpi. Infatti, è di solito con un combattimento ostinato che ci si stanca e ci si turba. Del resto, il disprezzo è il modo più veloce per disfarsi di un nemico orgoglioso che niente ferisce tanto quanto il disdegno. È un bambino per quelli che lo disprezzano, è un gigante per quelli che lo temono.
Ambroise di Lombez (1708-1778), Trattato sulla pace interiore, IV, cap. 5
C’è una relazione tra la pratica delle mortificazioni (privarsi di questo o quel piacere, obbligarsi a cose sgradevoli, ecc.) e la crescita spirituale?
Non c’è rapporto diretto. In nessuna parte del Vangelo vediamo Gesù privarsi (non parliamo del digiuno, che non è per l’esattezza una mortificazione), portare il cilicio o flagellarsi. Ora, i santi hanno fatto talvolta questo; occorre dunque pensare che le mortificazioni non siano tanto legate alla perfezione di Cristo quanto piuttosto all’imperfezione dell’uomo. In effetti, dopo il peccato originale,
Non si acquista la perfezione incrociando le braccia; bisogna lavorare su di sé controllandosi e vivere secondo la ragione, la regola e l’obbedienza, e non secondo le inclinazioni che vengono dal mondo… Sono necessarie per noi delle regole che fungono da torchio per il nostro cuore, in modo da far uscire tutto quello che è contrario a Dio.
S. Francesco di Sales, Veri colloqui spirituali XX
Su questa strada,
La mortificazione afflittiva [per esempio: flagellarsi] è buona, ma non per tutti; essa non è necessaria alla santificazione, non fa pertanto parte dell’essenza della santità; è solamente utile per l’avanzamento spirituale di quelli che Dio chiama. Occorre un’attrazione interiore molto chiara e molto certa per darsi a queste pratiche.
François Libermann (1802-1852), Lettera del 13 febbraio 1846
Riprenderemo nel prossimo numero di Semi questo testo molto illuminante di P. Libermann. Ma uno sguardo d’insieme sulla Tradizione cristiana in materia ci mostra la regola generale seguente:
Quando l’anima comincia a ritirarsi del tutto dal secolo e a rinunciare al peccato, bisogna abbattere il corpo affinché divenga docile allo spirito e lo lasci obbedire a Dio; bisogna spuntare le armi che il peccato trova nella carne ed eccitare il fervore con il digiuno e la disciplina, perché il fuoco interiore non è ancora acceso. Ma, allorché l’anima s’illumina e cresce nell’amore, bisogna moderare le penitenze del corpo che è abbastanza provato dallo spirito. Perché come il corpo gli è servito molto per accenderlo, lo spirito gli rende il suo fuoco e lo consuma con il suo fervore; il cervello si stanca, il cuore si indebolisce, il petto soffre, e il corpo diviene pesante e inabile alle funzioni dell’anima. Così, bisogna fare delle penitenze nella via purgativa, moderarle nell’illuminativa e ancor di più in quella unitiva.
François Malaval (1627-1719 ), Pratica facile della contemplazione, II, 7
«Mi si domanda spesso di pregare per questa o quella persona. Ciò serve a qualcosa? Posso cambiare la volontà di Dio sugli altri? La preghiera di intercessione fa parte dell’orazione? Quando penso a una persona precisa, mi sembra di pregare meno bene…»
La tua domanda ne contiene almeno tre o quattro! Per prima cosa, la nostra preghiera può cambiare qualcosa alla volontà di Dio? Speriamo di no, perché essa è perfetta e mira solo alla nostra felicità:
È più che un fratello, più che un incomparabile amico, è il medico delle nostre anime, essendo il nostro Salvatore, per stato… Tutto ci mostra che ha fatto per noi follie d’amore. “Lui ci ha comprato a caro prezzo!” Come potremmo non essergli cari? In chi avremmo fiducia, se non nel dolce Salvatore senza il quale saremmo persi?…Non c’è un secondo in cui, in qualsiasi punto dell’universo, si possa sorprenderlo a occuparsi di altre cose… Con quale fiducia e docilità non dovremmo lasciarci fare e corrispondere, se comprendessimo meglio le sue vie misericordiose?
Vital Lehodey, Il santo abbandono, II, III-IV
Allora perché domandare nella preghiera, invece di prendere semplicemente quello che Dio ci dona e ringraziarlo? Per meglio entrare, giustamente, in questa fiducia e in questa docilità:
Non domandiamo che Dio faccia ciò che vuole, ma di fare noi stessi ciò che Dio vuole. Chi può resistere a Dio e impedirgli di compiere la sua volontà? Per noi, non è la stessa cosa. Appena troviamo degli ostacoli da parte del demonio, domandiamo che la volontà di Dio si compia in noi. Per questo abbiamo bisogno di aiuto dall’alto, perché nessuno è forte con le sue sole forze: dobbiamo appoggiarci alla grazia e alla misericordia del Signore.
S. Cipriano di Cartagine († 258), Sull’orazione domenicale, 3
E per formare in noi delle decisioni e degli atti conformi alla volontà di Dio, occorre riflettere e volere, ciò implica tempi e parole, in breve, un dialogo interiore:
Le parole ci sono necessarie per eccitarci verso ciò che domandiamo ed esservi attenti, non per comunicare a Dio i nostri bisogni né per piegarlo a essi. Così mentre diciamo: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra», noi gli domandiamo la grazia di essergli sottomessi a fare la sua volontà come gli angeli la fanno in cielo.
S. Agostino (354-430), Lettera 130
Ciò potrebbe apparire deludente: se la preghiera ci permette di meglio entrare nella volontà di Dio, è certamente stupendo, ma infine, se Dio ci ama tanto, potrebbe anche tenere conto delle nostre preferenze! Certi genitori insegnano l’obbedienza ai loro figli, ma li lasciano pure scegliere quando questo non rischia di essere pericoloso per loro. Per l’appunto, Dio ci ama talmente da anticipare le nostre richieste:
Certo, non si otterrà mai alcuna cosa che Dio non abbia già previsto in anticipo; ma quello che i santi ottengono tramite la loro preghiera, è stato giustamente previsto da Dio per essere ottenuto tramite la loro preghiera! In tutta la sua onnipotenza, egli ha previsto che gli eletti lo saranno attraverso la loro fedeltà, in modo tale che essi meritano di ricevere tramite la loro preghiera, quello che ha disposto di donare loro fin dall’eternità.
S. Gregorio Magno († 604), Dialogo 1, 8
Da ciò, si capisce che non c’è opposizione tra preghiera di domanda e preghiera di lode, di ringraziamento etc… Ogni preghiera è per formare in noi la volontà di Dio, che è contemporaneamente domandare e ricevere. Pregare per una persona o per una intenzione precisa è bene se ciò ci aiuta a dire: «Signore, in ogni modo, che sia fatta la tua volontà su quella persona o in quella situazione». Perché,
Per quanto possiamo fare o dire, Dio non domanda e non desidera altro da noi, se non sentirci dire dal profondo del nostro cuore: Signore, che la tua volontà, che mi è più cara di ogni cosa, si compia!
Istituzioni tauleriane (XIV sec.), cap XVIII
Così che chiedendoci di pregare per loro, i nostri amici, di fatto, ci chiedono di essere fedeli a questa volontà, più che di “pensare” a loro nella nostra preghiera: molto spesso, queste intenzioni particolari resteranno implicite, e costringerci a riflettervi disturberebbe la nostra preghiera, che non consiste “nel pensare molto, ma nel molto amare” ci dice s. Teresa d’Avila.
Questo vale anche per l’intercessione dei santi in paradiso: quando chiedo a s. Antonio da Padova di ritrovare il portafoglio, egli chiederà al Signore che la sua volontà sia fatta su di me; e rivolgendomi verso di lui è questo che io domando al Signore in occasione di questo spiacevole incidente. E per s. Antonio, avendo senza dubbio parecchie migliaia di richieste dello stesso genere in uno stesso giorno, l’importante non è di occuparsene una per una, ma che ogni richiedente entri nel suo atteggiamento di fiducia in Dio, in cui è contenuta implicitamente la disposizione di tutti coloro che si rimettono a lui.
« So bene che l’orazione è un tempo donato a Dio, ma io ho ugualmente l’impressione di “perdervi” il mio tempo, mentre ci sarebbero tante cose utili da fare per i miei fratelli!»
Abbiamo affrontato una domanda simile in Semi n. 107. Avrei in primo luogo voglia di domandarti chi ti ha stabilito giudice di ciò che è utile e di ciò che è inutile: chi sa se quell’ azione che io credo buona, come, ad esempio, fare l’elemosina ad un povero, non giungerà a un risultato cattivo, qualora il povero facesse un cattivo uso dei soldi ricevuti? I nostri atti valgono per la loro intenzione, non per il loro risultato. Ora, la sola intenzione degna di un atto umano, è quella di amare:
Non è per la grandezza delle nostre azioni che piacciamo a Dio, ma per l’amore con cui le facciamo … È l’amore che dona la perfezione e il valore alle nostre opere.
S. Francesco di Sales (1567-1622), Veri colloqui spirituali
La domanda non è dunque: pregare serve a qualcosa? Ma: pregare è amare? Si tratta della prima domanda posta dall’antico catechismo: “Per qual fine Dio ti ha creato? – Dio mi ha creato per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita e goderne in seguito e per sempre nell’altra.” (Catechismo di san Pio X). Conoscere Dio, amarlo e servirlo, e godere di lui: ecco, ciò non serve a niente, eppure è la ragion d’essere dell’uomo. La sua nobiltà consiste nell’essere libero, libero per conoscere e amare Dio, questa è la definizione più fondamentale dell’orazione.
Ma per il cristiano, ce n’é una ancora più fondamentale: Gesù che, certamente, non aveva “bisogno” di pregare, poiché era Dio stesso, ha passato in preghiera tutto il tempo che il dovere di stato, il quale fra l’altro è ancora una forma di unione amorosa con Dio, gli lasciava. Citiamo nuovamente san Jean Eudes:
Tutta la vita di Gesù Cristo non è stata che una perpetua orazione, che dobbiamo continuare ed esprimere nella nostra vita, come una cosa così importante e così assolutamente necessaria, che la terra che ci sostiene, l’aria che respiriamo, il pane che ci nutre, il cuore che batte nel nostro petto, non sono affatto così necessari all’uomo per vivere umanamente, come l’orazione è necessaria a un cristiano per vivere cristianamente … Guardate questo compito come il primo, il principale, il più necessario, il più pressante e importante di tutte le vostre cose, e liberatevi, per quello che vi sarà possibile, di quelle meno necessarie.
San Jean Eudes (1601-1680), La vita ed il Regno di Gesù, II, § 11
Cosa si può fare per i fratelli, poiché è questa la tua preoccupazione? Semplicemente amarli. E poiché Dio solo è sorgente d’amore, volgendoci verso di lui, “allacciandoci” a lui, gli rendiamo il più grande servizio: “La parte dell’uomo, nell’azione, è la contemplazione”. (Mons. Combes, a proposito di Teresa del Bambin Gesù). Ciò che bisognerà “fare” seguirà, perché lo scopriremo allora con gli occhi dell’amore, con gli occhi di Dio.
«Malgrado tutti i miei sforzi, durante l’orazione mi addormento! Che fare?»
Il principio enunciato prima, è universale: i nostri atti valgono per la loro intenzione, non per il loro risultato. Certo, ci è chiesto di scegliere per l’orazione, un luogo, un tempo, una posizione, etc. …, che non siano quelli della siesta, altrimenti la nostra intenzione non sarebbe retta, ma se malgrado ciò non riuscissimo a stare svegli, avremo fatto quello che il buon Dio attende da noi, e lui ci avrà mandato il sonno.
Una difficoltà oggettiva è che la calma favorevole al raccoglimento è egualmente favorevole al sonno. Se la fatica o il temperamento vanno nella stessa direzione, allora possiamo spesso migliorare le cose camminando lentamente, lo sguardo rivolto verso il suolo. Se abitiamo in campagna, una strada deserta dove camminare è agevole, farà al caso nostro; nei monasteri medievali il chiostro era fatto per questo, con i pozzi nel mezzo, così evocando il paradiso terrestre, ci ricordano che pregare, è camminare con il Buon Dio,
perché, a ben pensarci, sorelle mie, l’anima del giusto non è niente altro che un paradiso dove Dio dice di trovare le sue delizie …
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Castello dell’anima, 1,1
Se il buon Dio ci dona un’orazione molto contemplativa, non ci colpevolizziamo di provare così questa sorte di dormiveglia, nella quale percepiamo solamente che il Signore è là, mentre troviamo riposante riposare in lui, mentre esce dal nostro cervello questa semplice certezza:
In questa orazione passiva, qualche volta accade che l’anima sentendosi unita a Dio come al centro di tutti i beni e come alla fine di tutti i desideri, dimori in un perfetto riposo, senza voler niente, senza desiderare niente … Qualche altra volta, Dio appare nel fondo dell’anima dove si fa vedere e amare in una grande pace ed in una grande tranquillità … Altre volte, infine, l’anima riempita e come inebriata dalle dolcezze della quiete o dell’unione intima, si riposa in Dio senza pensare ad altro: è a questa specie di orazione che viene dato il nome di sonno mistico.
Don Claude Martin (1619-1696), Difesa della contemplazione passiva
Infine, se il sonno non mistico è malgrado tutto più forte di noi, non ci desoliamo, non siamo in cattiva compagnia:
Io sono veramente lontano dall’essere una santa, niente come ciò ne è una prova; invece di rallegrarmi della mia aridità dovrei attribuirla al poco fervore e fedeltà, dovrei desolarmi di dormire ( dopo 7anni ) durante le mie orazioni e le mie azioni di grazie, ebbene, io non mi desolo … penso che i bambini piacciano ai loro genitori sia quando dormono che quando sono svegli, penso che per operare i medici addormentano i loro malati. Infine penso che: «Il Signore vede la nostra fragilità, Egli si ricorda che noi non siamo che polvere».
S. Teresa di Gesù bambino (1873-1897), Storia di un’anima, VIII
«La pratica dell’orazione può essere un rimedio a certi mali psichici?»
Domanda terribile! Per prima cosa, cosa s’intende per “malattia psichica”? Stabiliamo che qui parleremo solo di certi squilibri comportamentali, che supporremo almeno per ipotesi, senza rapporto diretto con anomalie organiche. La domanda diviene: l’orazione, ad esempio, può migliorare un comportamento nevrotico, se non addirittura psicotico, un’aggressività incontrollabile o un’angoscia paralizzante?
Partiamo dalle origini. Il peccato ha introdotto uno squilibrio fondamentale nella relazione da cui dipendono tutte le altre, la relazione filiale con Dio: a partire da questa si costruisce la nostra personalità tramite la nostra vita sociale: «Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome!» ci dice san Paolo (Ef 3, 14ss.). Il testo greco dice anzi: “dal quale ogni vita sociale prende nome”. Quindi, se questa prima relazione è alterata, tutte le altre lo saranno:
Uno psicotico è un uomo che subisce senza difesa i contraccolpi del suo disaccordo tra la sua anima e Dio, e così attraversa un purgatorio difficile da decifrare per noi. Un nevrotico si protegge tramite difese rigide contro gli effetti dello stesso disaccordo …
M. D. Molinié (1918-2002), Il coraggio di aver paura, 7ª variazione
Così, dopo il peccato originale, le nostre personalità si costruiscono in uno squilibrio più o meno grave, per il semplice fatto che si costruiscono in relazione ad altre personalità già squilibrate. Così che
Noi possiamo avere voglia di dire Fiat alla volontà di Dio (una voglia divorante che viene dallo Spirito Santo), essendo incapaci di lasciare uscire questo Fiat, perché il nostro cuore è nemico di Dio malgrado noi … Non possiamo sopportare che la vita divina si inabissi in noi senza limite prima di essere stati purificati …
(Idem)
Questi “atti mancati” che faranno la gioia della psicanalisi, possono essere interpretati correttamente solo alla luce di questo appello di Dio, e nello stesso tempo alla luce di questo rifiuto nel quale il cristiano riconosce il peccato originale, ma anche tutti i propri peccati che saranno stati altrettante conferme:
I nostri desideri sono senza limite, si slanciano verso Dio perché da Lui vengono, ma la nostra carne non può seguirli perché è troppo pesante – pesante a causa dei nostri peccati passati, dei peccati del mondo che ci circonda e specialmente di quelli di cui portiamo l’atavismo. La carne – questo termine non si riferisce solo a quello che chiamiamo peccato della carne – è qualcosa che non sa reagire con fiducia agli appelli di Dio.
(Idem)
Viceversa, insegnandoci di nuovo, a dire “Padre nostro”, Gesù ci ristabilisce in questa relazione, ci ristabilisce nella verità del nostro desiderio, e a partire da ciò ricostruisce in modo armonioso tutta la nostra personalità:
La preghiera è, in effetti, come l’interprete del nostro desiderio davanti a Dio. Gli domandiamo a buon diritto, solo quello che possiamo desiderare di simile. Ebbene, la preghiera del Signore non solamente domanda tutto quello che abbiamo il diritto di desiderare, ma lo fa nell’ordine stesso in cui si deve desiderare; così ci insegna non solamente a domandare, ma anche a ordinare tutti i nostri sentimenti.
San Tommaso d’Aquino (1224-1274), II a II ae, q. 83, a.9
Notiamo dunque che la preghiera ha una bella e buona virtù terapeutica. A proposito di direzione spirituale, san Giovanni della Croce dice che tutto il progresso dell’anima orante consiste nel “ordinare i propri amori secondo ragione”; ovvero, nel ritrovare la verità del proprio desiderio di Dio, e partendo da lì, rimettere in ordine tutti i propri desideri. Insegnandoci di nuovo a essere figli, l’orazione ci insegna ad essere fratelli, a vivere in modo sano le nostre relazioni:
Perché Gesù non dice: «Padre mio» che sei nei cieli; ma «Padre nostro» … Egli sopprime così tutte le avversioni e le inimicizie; reprime l’orgoglio, caccia l’invidia, e introduce nelle anime la carità, questa madre divina di tutti i beni. Distrugge tutte le disuguaglianze e le differenze di condizione e di stato, e assimila mirabilmente il povero al ricco, e il subalterno al principe, poiché ci troviamo tutti uniti nelle cose più importanti e più necessarie, che sono quelle della salvezza.
San Giovanni Crisostomo (intorno al 350), Omelia XIX, sul Padre Nostro
Ma se la preghiera ha una virtù terapeutica, essa non è tuttavia un farmaco o un esercizio di igiene mentale : è una grazia, è “l’amore di Dio riversato nei nostri cuori” (Rm 5, 4); così che se ricercata per se stessa, cesserebbe di essere preghiera perché cesserebbe di essere relazione; non farebbe che chiuderci di più in noi stessi, come lo fanno alcune tecniche di meditazione trascendentale o altri esercizi di “sviluppo personale” alla moda:
Questa assoluta semplicità interiore che ottengono i loro adepti, la prendono per Dio, perché vi trovano il riposo naturale … In loro manca la fede vera, l’esperienza, l’amore … Queste persone dovete evitarle e fuggirle come nemici mortali della vostra anima, anche se nei loro modi, nelle loro parole, nel loro vestire o nel loro aspetto apparissero santi, perché sono inviati dal diavolo.
Beato Ruusbroec l’Ammirabile (1293-1381), Libretto di spiegazione
Non fidiamoci allora delle sedute di “Gesù terapia” o delle promesse di “guarigioni interiori” non ben definite. O almeno, abbiamo l’onestà di chiamare le cose con il loro nome, e se non è vietato entrare in chiesa per riposarsi e riflettere tranquillamente, e tanto meno per ripararvisi dalla pioggia, non dimentichiamo che non è quello il motivo essenziale per cui esiste, bensì per incontrarvi Qualcuno. Certo, Gesù ci porta la guarigione, ma bussando in modo sovrannaturale, e non naturale, alla porta del nostro cuore.
E questo ci invita a porre la domanda complementare: la malattia psichica è un ostacolo alla preghiera? Tratteremo la questione il mese prossimo.
«Una malattia psichica è di ostacolo a una vita di orazione? »
La vita d’orazione è comunque un fattore di normalizzazione mentale, perché ci riconduce in linea con la nostra vocazione profonda: “Tu ci hai fatto per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te” (S. Agostino, Le confessioni, I, 1). Questo cuore senza riposo, ecco la malattia psichica, anche se di solito questa malattia è talmente diffusa da essere poco notata, almeno fino a che i nostri comportamenti di poveri peccatori restano sopportabili nel corso abituale della vita sociale. Pertanto, chiamiamo “normali” quelli che si adattano abbastanza bene all’assurdità della loro vita senza Dio, e “malati” quelli che si adattano meno a ciò.
Ma non andremo più oltre sul rapporto tra il peccato, originale o attuale, e le malattie dell’anima. Il problema quindi non è esattamente sull’eventuale incompatibilità tra la malattia psichica e l’orazione, ma sulla modalità di orazione che converrà a colui nel quale la conseguenza del peccato si nota di più rispetto alla maggior parte della gente. Teresa d’Avila, per esempio, ha pensato la sua riforma del Carmelo per delle persone capaci di restare per cinquanta anni in un monastero di clausura, e sarebbe pericoloso invitare a entrarvi persone chiaramente instabili.
Se il buon senso basta a distogliere le anime attente da certi turbamenti psichici, non dall’orazione, ma da certe forme di vita poco compatibili con la loro patologia, costatiamo, però, che i più grandi santi non hanno avuto il massimo equilibrio, almeno agli inizi del loro itinerario spirituale: lì come altrove, non c’è genio se non al di fuori della norma comune. Teresa del Bambino Gesù era di una tale fragilità nervosa da essere considerata da molti, malaticcia, e se Francesco di Sales può sembrare un modello di stabilità, nella sua giovinezza lo si vede immerso in una crisi di angoscia che farebbe oggi la gioia degli psicanalisti. Malattia? Parliamo piuttosto di un’estrema sensibilità di cui Dio si sarà servito come di uno strumento proprio a esprimere le più sottili sfumature del suo amore. E come il minimo errore si nota nel virtuoso, mentre passa inosservato nel principiante, i santi canonizzati sono stati spesso “condannati” alla santità più pura, perché più in fretta e più profondamente degli altri, hanno preso coscienza della miseria dell’uomo senza Dio.
Quanto alla perdita della ragione e a uno stato di follia, ho conosciuto molte anime che sono state spinte fino a dover fare questo grande e ultimo sacrificio, mille volte più faticoso di quello della loro santità e della loro vita. Bene! Se occorre, l’anima faccia questo sacrificio, con totale abbandono e piena fiducia.
Pierre de Caussade, Lettera 75, del 1736
Dio domanda a questi suoi amici di lasciare tutto: di fatto, nella sua fragilità, a 14 anni, Teresa Martin ha già compreso quello che la maggior parte della gente non comprende che in tarda età, cioè che il peccatore è un condannato, che può solo abbandonarsi alla misericordia del Padre; ed è così che lei è divenuta santa Teresa del Bambino Gesù.
Per questo san Giovanni della Croce che ci direbbe che la fragilità psichica, particolarmente la malinconia (oggi diremmo la depressione nervosa) lungi dall’essere un ostacolo allo sviluppo della vita spirituale, è un elemento favorevole, perché può aiutare, salvo che l’anima non si ribelli, alla spogliazione necessaria all’unione con Dio:
L’aridità purgativa, quando è aiutata dalla malinconia o da altra malattia, come succede molto frequentemente, non lascia per questo di operare il suo effetto di purificazione del desiderio, perché essa lo priva di tutti i gusti e lo porta ad applicarsi interamente in Dio.
Notte oscura, I, 9, 3
Questo perché le malattie dell’anima provano infinitamente di più di quelle del corpo, e obbligano dunque a un’unione più radicale alla volontà di Colui che ce le manda, o almeno le permette, fa lo stesso. Molti dei grandi santi hanno rasentato l’abisso del loro temperamento o della loro storia, là dove gli altri, avanzando in pianura, non si sono posti affatto la domanda. Quando la sensibilità è esacerbata, la santità prende delle forme spettacolari, e l’orazione diviene luogo di uno scontro vertiginoso tra l’anima e Dio. Un caso estremo è quello di p. Surin (cfr. Semi n. 14), che poté testimoniare questo equilibrio delle sommità dopo vent’anni di malattia mentale spietata che l’aveva condotto sull’orlo del suicidio:
Mi sembra che, per sua misericordia, nostro Signore ha costituito il fondo della mia anima in una tal pace che non saprei spiegarvi perché, da qualunque parte guardo, io non vedo niente che mi tolga la perfetta fiducia. Paragonando questa pace a un mare versato nell’anima, mi pare come un oceano che ha cento braccia di profondità nelle sue acque… Io non so come si fa e si può fare, che il ricordo dei miei peccati e di tutte le mie miserie non diminuisce per niente la gioia di questa pace, e sento questa pienezza come se l’anima avesse perduto ogni motivo di timore e sentisse in sé solo beni, che reputa indubitabili, gettando nel seno di Dio tutto quello che le può dare preoccupazione in qualunque modo sia… Così lo spirito che una volta aveva tante pene, come colui che si vedrebbe vestito di spine e punto da mille punte acuminate e ferito in egual misura da tanti oggetti quanti sono i suoi pensieri, è ormai incapace di vedere nulla che lo addolori e gli tolga il suo riposo… Ciò che si chiama cura e malinconia è rinviato così lontano che non ne resta alcuna vestigia. E sebbene nostro Signore esercita il mio spirito attraverso sorprese contrastanti e mortificanti …, io non sento alcuna interruzione di questo stato gioioso.
Lettera 356, marzo 1661
Surin e molti dei suoi simili ci mostrano che non si può scalare l’Himalaya senza rischi, ma nello stesso tempo, quando ci si stringe a Gesù, in realtà non c’è nessun rischio, tranne un po’ di vertigine!
«Penso che la nostra epoca abbia un grande bisogno non tanto di essere messa in guardia contro gli eccessi della mortificazione, quanto piuttosto di essere incoraggiata a rischiare nella sequela del Signore sulla via dello sforzo e del sacrificio…».
Questa frase è tratta da una lettera di un assiduo lettore di Semi al quale il nº 124 (Sulla mortificazione…) è sembrato “strano, e per meglio dire, infelice”, poiché non è prioritario denunciare “il pericolo di una penitenza un po’ forzata, senza gioia né vera motivazione spirituale”. Da qui lo scrupolo dell’autore di Semi: a forza di predicare la dolcezza salesiana, ciò non spingerebbe le anime alla mollezza?
Chi ha fatto l’obiezione ha una certa autorità in materia, quindi è opportuno soffermarci un po’ di più, in tutta cordialità. Senza dubbio siamo entrambi vittime di una identificazione troppo rapida tra penitenza e mortificazione: lui perché Libermann (autore del testo) non impiega una sola volta la parola “penitenza” in quella lettera, io perché adopero questa parola nel commento, mentre l’insieme del testo tratta di mortificazione “afflittiva” (questa la parola usata da Libermann), che giustamente, sarebbe disgiunta da un’autentica penitenza in nome di una falsa idea di merito:
Non amo affatto di voler sempre guardare al merito, perché le Figlie di Santa Maria (le religiose della Visitazione) non devono fare le loro attività se non per la più grande gloria di Dio. Se potessimo servire Dio senza meritare, cosa che non si può, dovremmo desiderarlo.
San François di Sales, Veri colloqui spirituali
Infatti, se la penitenza è costitutiva di tutta la vita cristiana, la mortificazione è soltanto una delle vie della penitenza, la quale è in primo luogo una conversione amorosa:
É l’amore che dona la perfezione e il valore alle nostre azioni, ci dice ancora Francesco di Sales; non lo si ripeterà mai troppo. Ebbene l’amore viene da Dio solo, è sovrannaturale o non è:
quello che è, infatti, naturale in materia di mortificazioni di surrogazione, non serve a niente di buono, e può perfino fare male. É la grazia che deve ispirarci queste mortificazioni, e allora esse sono eccellenti e utili, riferisce il testo in questione.
Molto giustamente il lettore usa la felice espressione di “penitenza amorosa”: solo quest’ amore misura il valore delle nostre pratiche di mortificazione, quali che siano. E così, sarà meglio riportare il seguito della Lettera di Libermann sulle “mortificazioni privative”, quelle che consistono meno nel “fare” e più nel “lasciar fare”, e soprattutto a “lasciarci fare” per amore di Dio:
La mortificazione privativa o di privazione consiste nel sottometterci con tutto il cuore a tutte le pene e privazioni che la divina Provvidenza ci manda, sia direttamente, sia tramite gli uomini con i quali noi siamo in relazione …
Ma al di là di quelle azioni che non possiamo evitare, la “mortificazione privativa” consiste anche nel fissare lo sguardo sul beneplacito di Dio, unicamente perché è il suo beneplacito e noi lo amiamo:
… essa consiste ancora in quella mortificazione interiore, tramite cui la nostra anima si priva di ogni godimento, o piuttosto si priva di gustare ogni godimento naturale, che proviene dalle relazioni dei sensi interiori ed esteriori con gli oggetti che sono di nostro gusto, e in più, si sottomette alla pena e alla repulsione dei nostri sensi interiori ed esteriori, causati dagli oggetti che a loro non piacciono …
Nel contesto, è chiaro che non si stratta qui di volere la privazione per la privazione, bensì la libertà di seguire Cristo senza essere frenati dalle nostre piccole preferenze. Ecco perché “la mortificazione privativa” va ancora oltre:
… essa consiste ancora nel privarsi, anche esteriormente, del superfluo, cioè di tutti gli oggetti che noi gradiamo, quando non sono necessari né utili alla situazione in cui siamo, né allo stato in cui ci troviamo.
Ecco quello su cui sono d’accordo tutti i maestri, e che farà vivere esattamente quello che Gesù ha vissuto, sola norma assoluta per il cristiano. Concretamente, come fare? Tra due soluzioni ugualmente ragionevoli (perché non c’è santità se non conforme alla ragione), l’amico di Dio sceglierà quella che gli darà una maggiore libertà rispetto a sé. Esempio: a fine pranzo, se devo scegliere tra una mela e una pera e il mio gusto desidera la pera, allora, dirà Libermann, prendi la mela! Perché tagliando corto con le mie piccole preferenze, mi rendo un po’più disponibile per Gesù. Ma si capisce che si tratta di una semplificazione, e non di una complicazione della vita del cristiano. Per questo Libermann conclude,
premesso ciò, non bisogna tanto preoccuparsi, ma camminare semplicemente nella via di Dio, avere lo spirito libero e il cuore rivolto tutto a Dio. È molto importante che voi siate in pace e che abbiate la libertà dei figli di Dio.
Allarghiamo un po’ il nostro intento. I lettori di Semi gli rimproverano più spesso il suo quietismo che il suo giansenismo. Senza riferimento alcuno al nostro lettore, ci sia permesso esprimere una convinzione: se la nostra epoca manca certamente di penitenza, è perché manca drammaticamente d’amore. Santa Maria Maddalena, di costumi poco giansenisti, nel corso degli anni fu la grande penitente, ma perché grande innamorata: secondo il Vangelo, la sua sola prova fu quella di non poter abbracciare Gesù la mattina di Pasqua, perché “niente, certo la può appagare; non potrebbe star bene con gli angeli, né con lo stesso Salvatore se non le appare nella forma in cui le aveva rapito il cuore” (san Francesco di Sales Trattato dell’Amor di Dio, V, 7) La priorità pastorale ci sembra essere quella di dichiarare questo amore di Dio, preludio di ogni conversione. Dice ancora Libermann nella stessa lettera, se:
la severità perde le anime, la dolcezza le salva; in generale, propendete per l’indulgenza nei confronti delle anime deboli, non siate rigidi. Imiterete in questo la condotta del nostro divino Maestro e farete del bene alle anime. Procedete sempre sulla via della dolcezza e dell’incoraggiamento: seguirete così la condotta di Nostro Signore e di tutti i santi. La maggior parte delle anime si perde a causa dello scoraggiamento.
«Si può fare orazione guidando l’auto?»
La domanda può sembrare insolita! Tuttavia essa è stata posta più volte, cosa che fa pensare che i nostri contemporanei pregano più negli ingorghi che nelle chiese! Dopotutto, Teresa di Lisieux faceva orazione nel treno che la conduceva a Roma, e Jeanne Schmitz-Rouly passava da un’estasi all’altra sui tram di Bruxelles: «Che fortuna quando una simile cosa accade in chiesa o a casa! Ma molto spesso succede per strada, o nel treno o nel tram…» (Diario, 2). Allora, rileviamo in questa moderna orazione le caratteristiche della preghiera di sempre:
― Da Abramo in poi, colui che prega è un viaggiatore: “Dio disse ad Abramo: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela, e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12, 1). Lo spostamento fisico favorisce una rottura spirituale, almeno implicita, con le nostre abitudini, rottura necessaria a ogni vera preghiera:
Per raccoglierti, occorre tagliare ogni abitudine superflua, ogni familiarità superflua con le creature, quali che siano, ogni conoscenza e curiosità superflue, ogni operazione e occupazione superflue. In una parola, occorre che l’uomo si separi da tutto ciò che lo divide.
Sant’Angela da Foligno (1249-1309), Libro delle Visioni e Rivelazioni, cap. 57
― «Quando preghi, chiudi la porta!» ci dice Gesù; non tanto per non essere disturbato, quanto per essere “solo con il Solo”. Chi abita in una grande città sa che non c’è solitudine più radicale di quella della metropolitana all’ora di punta, né isolamento più ermetico di quello dell’automobilista intasato in un ingorgo. Ebbene questo anonimato esteriore favorisce le relazioni dall’interiore:
Nella conversazione e fra il rumore del mondo, quest’anima è in solitudine nella stanza dello Sposo, cioè nel suo fondo dove lei lo accarezza e gli parla, senza che nulla possa turbare questa divina relazione.
Beata Maria dell’Incarnazione (1599-1672), Lettera III
― «Il Padre tuo vede nel segreto». Poiché il mondo esteriore è così neutralizzato, può aprirsi il mondo interiore: i genitori sanno bene che l’auto è il luogo di tutte le confidenze, mentre si va a scuola. Allo stesso modo Dio sembra allora molto vicino, “a contatto” in una “relazione di amicizia, un colloquio frequente e intimo con Colui che sappiamo ci ama” (Teresa d’Avila, Autobiografia, 8). Ecco cosa definisce l’orazione.
― «Pregate incessantemente» ci dice san Paolo. Non si prega guardando il proprio orologio. In auto se non si è un pirata della strada, non si conta il tempo che passa, in quanto lo fanno già i radars. E mentre noi siamo cullati dal ronzio del motore.
Il pensiero di Dio non è un peso, è un vento che ci porta, una mano che ci sostiene e ci eleva, una luce che ci guida, è uno Spirito che ci vivifica sebbene non ne sentiamo l’operazione.
François Malaval, Pratica facile…, II, 2
Tanti nostri lettori avranno sperimentato questo legame tra i mezzi di trasporto e l’orazione. Interessa la natura stessa della vita spirituale: la preghiera non è un’attività fra le altre, ma la vita di qualcuno che abita sempre in noi, lo Spirito Santo; così essa è continua nelle nostre anime come una sorgente ora sotterranea ora visibile. E quando una certa disoccupazione del corpo e dello spirito sgombra gli strati superiori della nostra coscienza, il mormorio dello Spirito affiora più facilmente, se abbiamo un vita cristiana equilibrata:
l’orazione diviene allora come il suo respiro, la sua vita; l’anima è piena dello spirito di orazione. L’orazione diviene allora uno stato e l’anima può trovare il suo Dio quando vuole, anche in mezzo a tutte le sue occupazioni.
Beato Columba Marmion (1858-1923), Cristo, Vita dell’anima, II, X, IV
Ciò ci permette di ampliare il nostro discorso: c’è un modo contemplativo di guidare come c’è un modo contemplativo di lavare i piatti o il giardino. Certuni hanno bisogno di riempire la loro anima, perché, di fatto, la sorgente viva dello Spirito non ha mai potuto espandersi; questi non pregheranno mai, metteranno a pieno volume l’autoradio nella loro vettura, disturberanno tutto un vagone con il loro cellulare, accenderanno la televisione dal mattino alla sera, a casa. Invece quelli la cui anima è piena di Dio, fuggiranno spontaneamente il rumore, chiuderanno dolcemente le porte, guideranno con calma la loro auto, e alla radio e a internet domanderanno solo ciò che li rimanderà a questa sorgente che scorre dolcemente in loro. In breve, in vettura o altrove, la vera questione non è essere attivi o contemplativi, ma essere allacciati a questa sorgente: “la parte dell’uomo nell’azione è la contemplazione” (Mons. Combes) Adesso questa lode dell’orazione al volante non deve farci dimenticare ciò che ripetiamo spesso in queste pagine: non abbandoniamo mai l’orazione alla semplice spontaneità. Se Dio si serve dei nostri mezzi moderni di trasporto per svegliarci alla sua presenza, ciò non ci dispensa peraltro di organizzare la nostra vita di preghiera con tutta la cura che richiede questa occupazione centrale in ogni vita cristiana. In particolare, il fatto che si “sente” Dio in auto non sostituisce la pratica dell’orazione vera e propria, in un’ora e un luogo ben scelti. Il vero valore di un atto è tutto nella sua intenzione: ebbene l’intenzione di un camionista è quella di trasportare la sua merce da un luogo ad un altro, Se farà ciò nel raccoglimento, tanto meglio, ma egli non tralascerà tuttavia di fare coscienziosamente la sua preghiera della sera all’arrivo.
Infine occorrerebbe distinguere tra l’autista e il passeggero del veicolo. Profittare del tempo totalmente libero di un viaggio per fare orazione o leggere il proprio ufficio non è la stessa cosa di pregare mentre si guida o si guarda il paesaggio: il viaggiatore qui è totalmente passivo e la sua intenzione attuale è di pregare anche se ciò avviene viaggiando … o allora occorrerebbe attendere che la terra smetta di girare per cominciare a fare orazione!
È necessario darsi un tempo minimo di orazione? Anche se si tratta solo di dieci o quindici minuti, questo “obiettivo” mi sembra che mi faccia concentrare sul mio orologio… Un principiante può non fissare alcun termine di tempo, provando a essere attento semplicemente alla presenza del Signore per quanto lo può, anche se questa è senza dubbio all’inizio molto modesta…?
La seconda parte di questa domanda risponde in buona parte alla prima: non si tratta di fare a qualsiasi costo un quarto d’ora di orazione, quanto fondamentalmente di essere attenti a Dio presente. Vediamo con più attenzione:
1) La preghiera è un dono di Dio, e non una produzione umana:
L’orazione non è un bene della natura, ma un dono della grazia; non è un’opera dell’uomo, ma un dono di Dio stesso; non è un’invenzione della mente umana, ma un’infusione dello Spirito Santo. Da ciò deriva che non dobbiamo pensare di poterla acquisire a forza di braccia, cioè con lo studio e l’elevazione del nostro intelletto e con gli sforzi della nostra volontà, neanche tramite il proprio industriarsi e tramite un’arte composta.
François Bourgoing (1585-1662), Direzione per l’orazione, Primo consiglio
Per questo l’orazione non è misurata dalla nostra capacità di concentrarci su quello, che in realtà, sarebbe soltanto l’idea di Dio: il bambino dorme sereno nella sua culla perché sa che la sua mamma è là, ma non ne ha alcuna idea. Ecco “l’attenzione semplice e amorosa” di cui ci parla san Giovanni della Croce per definire la contemplazione. L’orazione consiste non nel molto pensare, ma nel molto amare, ci direbbe santa Teresa d’Avila. Quindi, la giusta durata dall’orazione sarà quella che ci permetterà di ben formare in noi quest’ attenzione più amorosa che intellettuale. (Vedere Semi n. 105). Lì, senza che ci sia nulla da rimproverarsi, l’orazione è generalmente più facile agli inizi che in seguito, perché si accompagna di solito a belle idee e bei sentimenti che procurano più soddisfazione all’amor proprio. Infatti,
Come il cammino ordinario della grazia è attirarci a Dio con una certa dolcezza e con gusti sensibili, il santo amore nei principianti è sempre mescolato con l’amor proprio; e Dio non si offende per nulla di tale miscuglio, che è una conseguenza necessaria della nostra miseria. Dio si serve anche di quest’amor proprio per staccarci dalle cose della terra, e donarci il gusto per quelle del cielo; se ne serve per farci intraprendere agli inizi una quantità di sacrifici che altrimenti non faremmo. È proprio l’amore di Dio che ci porta a questi distacchi, a questi sacrifici, alla pratica della mortificazione e dell’orazione; ma se l’amor proprio non vi trovasse affatto qualche cibo che gli sembrasse delizioso e superiore a tutti i piaceri della terra, mai abbraccerebbe la vita interiore.
Jean-Nicolas Grou (1731-1803), Manuale delle Anime interiori, Sull’amore puro
Ma amare in quel modo, è amare da bambini. L’infanzia è meravigliosa, ma la maturità dell’amore non sta tanto nel trovare che Dio è gentile, quanto nel donarsi a lui. E per educarci a questo:
Dio spegne tutta questa luce, chiude la porta e taglia la sorgente di questa dolce acqua spirituale, che si gustava in lui tutte le volte e per tutto il tempo che si voleva.
S. Giovanni della Croce (1542-1591), Notte Oscura, I, 8
E se il bambino è stato abituato a non seguire i suoi capricci, avrà uno svezzamento più facile. Ecco perché, amico lettore che poni questa domanda, è importante che tu abbia un tempo di orazione senza regolarti sulle tue capacità di pensare o no a Dio; non siamo lì per fabbricare idee, ma perché sappiamo che qualcuno ci attende nel silenzio:
Bisogna avere una grande determinazione di non abbandonare mai l’orazione, malgrado qualunque difficoltà vi si possa incontrare, e andarvi senza alcuna preoccupazione né desiderio di esservi consolati e soddisfatti.
S. Francesco di Sales (1568-1622), Veri Colloqui spirituali, Sui Sacramenti
2) Occorre pertanto cronometrare il nostro tempo di orazione? Fino alla fine del Medio Evo, si viveva senza orologio, e non ci si preoccupava della durata della preghiera più di quanto si facesse per le altre occupazioni: la vita era fatta d’incontri e sorprese e non di appuntamenti. Come ritrovare oggi questa necessaria libertà dell’amore, fondamento stesso di tutta la vita spirituale?
La nostra anima, dice Teresa d’Avila, è un giardino che il Signore visita per il suo piacere: se il cronometro ci assilla, facciamo, allora, orazione durante una passeggiata, come il monaco del Medio Evo passeggiava nel chiostro. Quando si passeggia, è per piacere, e non si guarda il proprio orologio, anche se si sa che occorrerà certo rientrare a casa propria. Quindi, invece di fissare un tempo, fissiamo un percorso: andare fino alla fine di quel sentiero, o fino alla chiesa del villaggio dove faremo una pausa davanti al S.S. Sacramento, etc. E se piove o se abitiamo in città, il rosario recitato lentamente può renderci lo stesso servizio. Ciascuno deve trovare ciò che favorirà la sua attenzione a Dio: ve ne sono alcuni che fanno orazione meravigliosamente, perfino, tra la folla; come altri camminando sulla spiaggia in un giorno di tempesta. Tuttavia bisogna accettare, una buona volta per tutte, di perdere il proprio tempo nella preghiera, e pertanto di non mercanteggiarlo col Buon Dio. A questo prezzo vivremo nell’eternità:
Nell’orazione occupatevi con semplice libertà, di tutto ciò che vi aiuterà a entrare in orazione e che nutrirà in voi il raccoglimento. Non vi preoccupate. Sollevate la vostra immaginazione ora impaziente ora esaurita. Servitevi di tutto ciò che potrà calmarla e facilitarvi uno scambio familiare d’amore con Dio. Tutto ciò che sarà di vostro gusto e di vostra necessità, in questo scambio d’amore, sarà buono. “Là dove c’è lo spirito di Dio, c’è libertà”. Questa semplice e pura libertà consiste nel cercare ingenuamente nell’orazione il nutrimento d’amore che ci fa occupare più facilmente del Diletto.
Fénelon (1651-1715), Lettera 106