Catechismo alla scuola dei santi

CATECHISMO SPIRITUALE

Alla scuola dei Santi

 

La felicità di essere cristiano (SEMI n. 221, Gennaio 2020, L’orazione porta della grazia)

 

Perché seguire Cristo? Io sono venuto perché le mie pecore abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10), risponde lui stesso. Non una vita per altre cose, ma la vita per la vita, una vita che basti a se stessa, una vita che non ha bisogno di cercare un’altra vita perché è essa stessa felicità e pienezza:

 

Ogni essere vivente cerca il riposo e cerca la felicità; alla domanda: vuoi essere felice? nessuno esiterebbe a rispondere che è questo ciò che vuole. Ma come si perviene alla felicità e dove la si trova, gli uomini non lo sanno ed è per questo che girano in tondo. L’uomo che non crede ancora in Cristo gira in tondo, in effetti, cercando la sua patria, ma senza sapere né la strada né la meta.

 

Ma colui che ha incontrato Gesù,

 

Il Signore lo riporta sul cammino: divenuti suoi fedeli, credendo a Cristo, non si è ancora giunti in patria, ma finalmente si comincia a camminare sulla via. Su questo cammino avanziamo tramite l’amore di Dio e del prossimo. Colui che ama, corre; se ama molto, corre veloce; se ama meno, procede lentamente, se non ama per niente, resta fermo.

Sant’Agostino (354-430), Sermone 346 B

 

“Su questo cammino avanziamo tramite l’ amore di Dio e del prossimo”, perché questa vita di cui Cristo è portatore, ha un altro nome biblico, che è amore: Dio è amore; chi rimane nell’ amore, rimane in Dio e Dio rimane in lui (I Gv 4,16). Vita, amore, Dio, queste parole sono sinonimi per designare l’assoluto in rapporto al quale tutto il resto è relativo:

 

            L’amore basta a se stesso, piace per se stesso e in ragione di se stesso. È merito e ricompensa a se stesso. L’amore non cerca fuori da sé né la sua causa né i suoi frutti: goderne, ecco il suo frutto. Amo perché amo, amo per amore.

San Bernardo (1090-1153), Sermone 83 sul Cantico

 

Non c’è nessuno che non ami, ci dice sant’Agostino, ma il problema è di sapere cosa si ama, di scegliere quello che ameremo. Evitiamo la più pericolosa e nello stesso tempo la più diffusa delle confusioni, quella di una comprensione “orizzontale” dell’amore: Se anche donassi tutti i miei beni ai poveri e non avessi la carità, questo non mi gioverebbe a nulla, dice S. Paolo (1Cor 13,3). Si può donare tutto quello che si ha e non amare:

 

È dall’amore che avrete gli uni verso gli altri che vi riconosceranno come miei discepoli (Gv 13,35). Questo il frutto sicuro dell’amore, il segno dal quale lo riconosceremo, ma il segno dell’amore non è l’amore stesso. Amare, prima di tutto non è essere eroici nel disinteresse: al contrario, questa perfezione non viene che alla fine. Amare è, prima di tutto, essere attratti, sedotti, catturati. Il primo atto libero e meritorio che ci viene chiesto, è di cedere a questa seduzione, a questa attrazione, di lasciarsi prendere, di lasciarsi “possedere”,… di lasciarsi fare.

 

È questa seduzione verticale che basta a se stessa, che conduce Cristo in tutto il Vangelo:

 

Cristo era consumato dal bisogno di offrirsi a Dio, proclamando la sua dipendenza e la sua inutilità. In Cielo, Egli lo proclama nella gloria, ma sulla terra, questa vita nascosta era un canto d’amore e di lode al Padre. Questa vita manifestava che Egli era nutrito da un nutrimento invisibile e bruciato dalla gloria del Padre.

Marie-Dominique Molinié (1918-2012), Ritiro predicato nel 1969

 

“Cedere a questa seduzione”: è questa che ci porta a Gesù, e che in Gesù ci porta al Padre, e ci fa cristiani.

 

Vivere l’unione

 

Dio non chiede nulla, poiché non riavrò mai ciò che Egli mi avrà donato. Eppure c’è una cosa che Dio non avrà mai senza il mio permesso, o piuttosto non sarà mai una cosa, perché Dio ha rinunciato a tutto il potere su di essa, e che pertanto chiamerò persona; questa persona sono io stesso. Per questo, amare non è più donare cose, ma cedere ad una seduzione, unire delle persone: amare è lasciarmi attrarre, sedurre, catturare; lasciarmi prendere, lasciarmi “possedere” da colui che io amo. Questa unione di persone, ecco il primo e fondamentale articolo del Credo cristiano: Credo in unum Deum. Non è credere che Dio sia numericamente unico (non c’è bisogno di essere cristiani per questo), ma credere in un Dio d’unione, in modo tale che sia esaudita la preghiera di Gesù: Che siano uno come noi siamo uno, io in loro e tu in me (Gv 17, 21).

Non c’è vita cristiana se non riferita a questa volontà di Gesù di fare uno con noi: L’anima deve comprendere che il desiderio di Dio in tutti i doni che le fa, è quello disporla all’unione divina (Giovanni della Croce). La teologia cristiana è nata il giorno in cui i Padri del Concilio di Nicea hanno definitivamente fissato il concetto di persona per rendere conto di quello che Gesù, e lui solo, aveva rivelato del mistero di Dio: un Dio unico in ordine a quello che ha, in quanto alla sua sostanza, ma plurimo in quanto a quello che è, cioè una comunione di persone.

Come vivere questo? La comunione suppone una dipendenza reciproca e assoluta delle persone tra di loro:

 

            Non soltanto Gesù Cristo nostro Signore ha fatto la volontà del Padre e si è sottomesso a lui e a tutte le cose per amore di lui, ma ha messo anche tutta la sua contentezza, la sua felicità e il suo paradiso in ciò: «Mio nutrimento, dice, è di fare la volontà di colui che mi ha mandato»; cioè, non ho niente di più desiderabile, né di più delizioso, che fare la volontà del Padre mio. In effetti, in tutto quello che faceva, prendeva un appagamento infinito nel farlo, perché quella era la volontà del Padre.

            Così, in qualità di cristiani che devono essere rivestiti dei sentimenti e disposizioni del loro capo, dobbiamo non solo sottometterci a Dio e a ogni cosa per amore di Dio, ma dobbiamo porre in ciò anche tutta la nostra contentezza, la nostra beatitudine e il nostro paradiso.

San Jean Eudes (1601-1680), Il Regno di Gesù

                                                           (Segue)

 

 

Grazia, merito e santità (SEMI n. 222, Febbraio 2020, Perché così pochi contemplativi)

 

Credo in un solo Dio, creatore del cielo e della terra, dell’universo visibile e invisibile: la professione di fede cristiana si poggia sulla proclamazione di un Dio che crea tutto e che fa tutto, sulla terra come in cielo, nell’ordine naturale come nell’ordine sovrannaturale; quello che si sottolinea è che le cose sono dono di Dio, fatto a noi, non esistono e non esistiamo che puramente per amore:

 

Siete fatti per amore, e se l’amore si fosse ritirato dentro di me, in maniera che io non amassi il vostro essere, voi non esistereste più. Ma l’amore mio vi creò, e l’amore mio vi conserva.

Santa Caterina da Siena, Dialogo 82

 

Così coronando i nostri meriti, Dio corona i suoi doni, dirà sant’ Agostino. Il nostro destino, o la nostra vocazione, sarà allora di lasciare spiegare in noi questo amore, questo essere del nostro essere:

 

Si, posso ben dire che Dio è l’essere di tutte le cose, non perché esse sarebbero quello che Egli è, ma perché «tutte le cose sono da lui, per lui e in vista di lui» (Rom 11,36). Per tutte le cose, egli è quello che esse sono; per le creature viventi, egli è anche ciò che fa la loro vita; per quelle che sono dotate di ragione, egli è ciò che le illumina; per quelle che la utilizzano bene, egli è la loro virtù; per quelle che vincono il combattimento, egli è ciò che le glorifica.

San Bernardo, Sermone 4 sul Cantico dei Cantici, 4

 

Fermandoci qui, fino san Bernardo, la vita cristiana consiste nel lasciare Dio effondersi in noi e trasformarci in lui, cosa che è la definizione stessa della santità:

 

I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo di fede, sono stati fatti veramente figli di Dio, e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi.

Concilio Vaticano II, Costituzione Lumen Gentium, V

 

“Partecipando alla natura divina”: tale è la causa e la misura della nostra santità. Ma con il peccato originale è stato inventato il merito, pretendendo cioè di essere portatori di qualcosa che Dio non avrebbe, di entrare in una contrattazione con lui, di scambiare lo statuto di figlio con quello di fornitore. Ed eccoci introdotti nell’eresia più costante della storia della Chiesa, quella che consiste nel pretendere di “guadagnare il cielo” come ci si guadagna il pane con il sudore della fronte. Si agisce come «i poveri pazzi dei Galati» (Gal 3,1) che riponevano la loro fiducia nella pratica della Legge di Mosè, dal pelagianesimo fino a sant’Agostino o al giansenismo moderno, si conta sulle proprie opere per essere salvati, dimenticando che prima ancora di crearci,

 

Dio ha deciso di non ricompensare che le proprie opere: sono solo quelle lì, e non le tue, che corona nel regno del Cielo. Quello che lui stesso non ha fatto in te, lo considera nulla.

Taulero, Sermone III per l’Epifania

 

Così l’idea stessa di “meritare” annienta l’amore. Questa volontà d’unione che abbiamo visto (Semi n. 221) è ciò che è più Dio in Dio, volontà che anticipatamente merita tutto, e che perciò ha bisogno che, “io non “meriti” mai nulla. Ecco perché io non amo affatto di volere sempre guardare al merito – dirà Francesco di Sales – se non possiamo servire Dio senza meritare (cosa impossibile), dovremmo desiderare di farlo! L’unico merito che avremo mai è quello di Gesù Cristo. Questo significa, che per noi la santità si chiama grazia, che non bisogna acquistare o coltivare, ma solamente ricevere bene per ben approfittarne, perché il nostro ruolo consiste interamente nell’accogliere l’amore di Dio:

 

Non è per la grandezza delle nostre azioni che siamo graditi a Dio, ma per l’amore con il quale le facciamo; perché una suora che sarà nella sua cella a fare una piccola azione, meriterà più di un’altra che avrà faticato maggiormente, perché lo ha fatto con meno amore. Ѐ l’amore che dona la perfezione e il valore alle nostre opere.

Vi dico ancor di più: ecco una persona che soffre il martirio per Dio con una oncia d’amore, merita molto, perché non potrebbe dare di più della sua vita; ma un’altra persona che sopporterà un buffetto con due once d’amore avrà molto più merito, perché è la carità e l’amore che dànno valore a tutto.

San Francesco de Sales, Veri Trattenimenti spirituali

 

Certo, la tentazione sarà sempre quella del quietismo, cioè quella di minimizzare la responsabilità dell’uomo nella sua salvezza, come se fosse sufficiente la voglia di essere salvato per esserlo effettivamente, ma ciò sarebbe confondere desiderio e volere: è nell’atto stesso di volere la santità che noi riceviamo la grazia di essere santi, così come l’ossigeno e il carburante si combinano per produrre la combustione, ma restano perfettamente inerti finché sono isolati l’uno dall’altro:

 

Ma dici, a che servono dunque le nostre opere buone? A cosa? Ad ottenerci la grazia di una più grande fiducia e speranza in Dio solo: ecco tutta l’utilità che ne facevano i santi delle loro grandi opere. Esse sono, dicevano, così cattive e così corrotte dalla nostra perversità che, se Dio ci giudicasse per quelle con rigore, meriteremmo più castighi che ricompense.

            Non parlarmi più allora di opere buone per aver di che appellarsi al momento della morte, parlami soltanto della misericordia di Dio, dei meriti di Gesù Cristo, di intercessione di santi, delle preghiere delle buone anime; non parlarmi della minima cosa che faccia sentire di confidare in se stessi, sulle proprie opere, sulle quali si ripone la propria fiducia. Il grande male, è che il nostro amor proprio si insinua ovunque, si mescola in tutto e distrugge tutto.

Jean-Pierre de Caussade, Lettera a Suor Bourcier de Monthureux

 

 

L’origine di tutti i nostri mali (SEMI n. 223, Marzo 2020, La pura aria delle vette)

 

Il mese scorso abbiamo visto che Dio Onnipotente è pure il Dio che ama, così che abbandonarci alla sua volontà è abbandonarci alla felicità. Da qui la sola, unica grande questione che tormenta l’umanità dalle sue origini: da dove viene questa resistenza alla volontà di Dio che ci rende infelici?

Per evitare le risposte sbagliate e preparare quella giusta, cioè quella che ci sarà data il venerdì santo, la Scrittura fin dalla sua prima pagina elimina ogni idea di un male che avrebbe qualche consistenza “in sé”: Dio ha creato tutto quello che esiste, «il cielo e la terra, l’universo visibile e invisibile» dice il Credo; e «Dio vide che era cosa buona», sette volte buono, quindi perfettamente buono (Gn 1,31). Poiché la realtà è assolutamente buona, il male non è da cercare in quello che è, ma in ciò che non è e fa solo finta di essere. Tutto il problema del male è in chi lo pone, e non problema di una percezione falsata della realtà e non problema di un difetto nell’atto creatore di Dio.

Ma guardiamo da vicino quello che ci rende infelici: non il grosso cane che forse potrebbe mordermi (per adesso non mi fa alcun male), ma la paura che mi morda; non la malattia (per il momento sono in buona salute); ma la paura di contrarla, della sua evoluzione, della morte che ne sarà la conclusione, etc. Eliminando la paura, il cane diventa buono e la malattia un semplice dato biologico da organizzare nel miglior modo possibile come il resto della creazione; Eliminiamo la paura e troveremo l’innocenza del paradiso, cioè l’armonia con Colui che è.

La paura, fuga dal reale: «Mi sono nascosto, perché ero nudo!» (Gn 3,10). Andiamo fino in fondo a questa nudità, cioè fino a questa spoliazione assoluta che si chiama morte: come il grosso cane che non ci ha ancora morso, quella esercita il  suo potere di devastazione solo per la paura che ne abbiamo, perché nel momento in cui saremo morti, non potremo ad ogni modo più provarlo. Detto in modo diverso, quello che ci fa più paura è quello che non dovrebbe farcene per niente! E aldilà dell’evento che chiamiamo morte, è tutto ciò che l’annuncia che diviene causa di angoscia e di infelicità, che si tratti della malattia, della rovina o dell’insuccesso in tutte le sue forme: non si è angosciati perché si è malati, ma perché “forse” si potrebbe esserlo, si è angosciati perché “forse” potrebbe accadere questa o quell’altra cosa, etc. E tutti questi “forse” indicano che la vera causa della nostra infelicità è un prodotto psichico di cui la malattia o la rovina non sono che dei pretesti.

In questo l’infelicità si radica nel peccato. Cos’è il peccato in effetti? Il fatto di vivere in funzione di tutti questi “forse”, cioè di vivere in funzione di cose alle quali attribuiamo una falsa esistenza, una parvenza di esistenza: «Il frutto sembra buono…» (Gn 3,6). Il che vuol dire che all’origine di tutti i nostri mali, c’è sempre la menzogna di cui accettiamo di essere più o meno complici, menzogna originale – «Vostro padre, il diavolo, omicida fin dalle origini, è mentitore e padre di menzogna…» (Gv 8,44) –  e menzogna attuale tutte le volte che accettiamo una vita che, in realtà, non esisterà mai perché Dio non la vuole. Questo ottenebramento dell’intelligenza e della volontà costituisce tutto il dramma della nostra infelicità, ma dramma che durerà finché durerà la nostra propria volontà:

 

San Bernardo ci assicura che quello che serve da legna al fuoco dell’inferno è la nostra volontà: «Cos’è che brucia nell’inferno se non la nostra volontà?» Ѐ una verità così incontestabile che si giustifica da sé, se questa volontà sparisse dal mondo, non ci sarebbe più inferno: «Togli la tua volontà, e non ci sarà più l’inferno».

Taulero, Sermone 7

 

Allentare il freno

 

Avendo identificato la sorgente dell’infelicità, il rimedio sarà tanto esigente quanto semplice: invece di seguire la propria volontà, basta seguire quella di Dio, e ciò non in una sottomissione da schiavi, ma nell’ottica di un amore di figlio certo che il padre sa e vuole quello che lo renderà felice; ancor di più: suo padre non si occupa che di renderlo felice. Per cui gli ostacoli diventano dei trampolini; il reale, cioè Dio, non resisterà più ai nostri progetti, e le situazioni, meno confacenti alle nostre voglie, saranno altrettante occasioni per superarle, obbligandoci ad unirci più strettamente a nostro padre, e dunque a ricevere ancor più felicità:

 

            Tutti demoni dell’inferno e tutti gli uomini di questo mondo coalizzati insieme non potrebbero nuocere all’uomo che ama Dio in totale purezza. Più cercheranno di nuocerlo, più lo faranno salire verso la profondità dei cieli, se egli è veramente tutto nel desiderio di Dio. E se, con questo fiore del puro desiderio di Dio, fosse trascinato nel più profondo dell’inferno, troverebbe là, nell’inferno, il regno dei cieli, Dio e la beatitudine. Perché chi possiede questo fiore non ha niente da temere in nessuna situazione. E quali che siano le attrattive che si presentano, dal momento che cerca unicamente Dio, niente può turbarlo né fuorviarlo.

Taulero, Sermone 7

 

Così san Francesco di Sales riassume genialmente:

 

La croce è di Dio, ma è croce perché noi non ci uniamo ad essa; perché, quando si è fortemente risoluti nel volere la croce che Dio ci dona, non è più croce. Ѐ croce perché non la vogliamo; se è di Dio, perché dunque non la vogliamo?

San Francesco di Sales, Lettera 2531

 

O ancora il suo discepolo Alexandre Piny:

 

            Dio in noi odia e può odiare solo quello che ci appartiene, e ama solo ciò che è in Dio e di Dio. Ma, un’anima nel puro abbandono, non ha più niente in lei che le appartenga; tutto ciò che ha, appartiene a Dio ed è di Dio.

Alexandre Piny, L’abbandono alla volontà di Dio, 7° giorno

 

RISUSCITATI?  (SEMI n. 224, Aprile 2020,  Orazione senza pensarvi)

 

 

Questo mese vogliamo sottolineare un errore tanto enorme quanto diffuso nella maggioranza dei cristiani di oggi. Domandate loro di scegliere molto semplicemente tra le due formule seguenti per esprimere il cuore della loro fede: Io sono risuscitato; oppure: Io muoio e in seguito risusciterò (sotto inteso: alla fine dei tempi). Ogni volta, sceglieranno la seconda formula, annullando di fatto le stesse parole di Gesù: Chiunque vive e crede in me non morirà mai (Gv 11,26), questo perché colui che ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato è passato dalla morte alla vita (Gv 5,24). Questa reintroduzione della morte là dove l’opera di Gesù è stata di annientarla -… mortem moriendo destruxit, “morendo, ha distrutto la morte” cantiamo a Pasqua – svuota totalmente il Vangelo di quello che ha di più decisivo, riducendolo pressappoco a quella celebre pagina di Châteaubriand:

 

Volete contemplare questi monaci vestiti di sacco, che dissodano le loro tombe? Il silenzio cammina al loro fianco, o se parlano quando si incontrano, è per dire soltanto: «Fratello, si deve morire». Il cristianesimo ha tirato dal fondo del sepolcro tutta la morale che racchiude. Ѐ con la morte che la morale è entrata nella vita.

Châteaubriand, Il genio del cristianesimo, cap. 6

 

 

Questo desolante errore è così comune che la stessa liturgia, nelle sue traduzioni più ufficiali, arriva a cambiare i testi biblici per affermare che il discepolo di Cristo deve morire, come il pagano, prima di essere salvato. Si dimentica, per esempio, che il Nuovo Testamento non parla mai di morte, parola riservata al pagano, quando ci si riferisce alla fine della vita terrena del cristiano, ma di addormentarsi e spesso di addormentarsi nel Signore, da qui proviene l’uso di chiamare cimitero, dormitorio in greco, il luogo dove sono deposti questi “dormienti”. Ѐ così che, non cogliendo più la differenza, eppure fondamentale, tra le due cose, i nostri lezionari liturgici si sentono obbligati regolarmente ad aggiungere, a questo addormentarsi, nella morte, traducendo così «si addormentò nella morte» alla fine del martirio di santo Stefano (At 7,60) per la sua festa il 26 dicembre, là dove il greco parla soltanto di “addormentarsi”; o ancora traducendo «che siamo addormentati nella morte» (1Ts 5,10), allo stesso modo si fa la stessa aggiunta nel testo biblico della compieta di lunedì, trasformando il riposo in Cristo in funerale! Il controsenso è tanto più flagrante in questo ultimo versetto, che san Paolo sta proprio spiegando ai Tessalonicesi dato che Cristo è morto, perché noi non morissimo!

Non moltiplichiamo gli esempi, ma riconosciamo che la prospettiva, cioè la speranza, è così totalmente differente secondo che si consideri la fine della vita terrena come un tuffo nella morte, o come un addormentarsi nelle braccia di Gesù! E rettifichiamo con santa Teresa del Bambin Gesù:

 

            Non è “la morte” che verrà a prendermi, è il buon Dio! La morte, non è un fantasma, uno spettro orribile, come la si rappresenta nelle immagini. Ѐ detto nel catechismo che «la morte è la separazione dell’anima dal corpo», è soltanto questo!

Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), Ultimi colloqui, 1° maggio 1897

 

 

Il cristiano è già risuscitato: in che modo ciò cambia tutto?

 

Se il medico vi dice che siete colpiti da una malattia mortale, anche se cercherà di ritardarne la fine, voi vi vedete in una posizione piuttosto spiacevole; se lo stesso medico vi annuncia, tre mesi dopo, che siete guariti da quella malattia mortale e che dovete soltanto godervi la convalescenza, il vostro stato d’animo sarà molto differente. Ora, questa malattia mortale, è molto semplicemente la vita sulla terra dopo il peccato originale: se tu mangi del frutto, morirai di morte! (Gen 2,17). La fede cristiana pretende proprio che ne siamo guariti dopo il nostro battesimo, e che la morte non è altro che un cattivo ricordo.

 

 

 

 

Eppure, ci toccherà proprio morire!

 

Che il cristiano sia risuscitato suscita una facile obiezione: i cristiani non vanno meno nella tomba degli altri! Del resto, per continuare a imbrogliare le carte, al momento di aspergere la bara con l’acqua battesimale, la liturgia dei funerali recita questa nuova negazione della vera speranza cristiana: «Noi crediamo e speriamo che risusciteremo tutti»; questo futuro e questa universalità riduce la fede del battesimo al credere nella risurrezione generale alla fine dei tempi, quella che in realtà è riservata ai pagani. Certo, crediamo anche in questa resurrezione generale e al giudizio ultimo, ma la dichiarazione di Gesù, già citata, si riferisce a ben altro: Colui che ascolta la mia parola – ed è quello che fa il cristiano – non viene giudicato, ma è già passato dalla morte alla vita. (Gv 5,24).

Ma non schiviamo la domanda: come comprendere di essere già passati dalla morte alla vita, ma di dovere tuttavia scendere nella tomba? Il Nuovo Testamento ama le immagini tratte dal mondo vegetale: il piccolo seme che diviene un grande albero, la vite che porta frutto nei suoi tralci, il seme che cade nella terra e produce cento per uno…Ѐ così che bisogna considerare la risurrezione: non un cambiamento istantaneo, ma un processo continuo, cominciato al battesimo e che si concluderà nella Parusia, la quale, ricordiamo, precederà la risurrezione generale e il giudizio ultimo. Non si dice per semplificare che il seme caduto nella terra muore: in realtà si trasforma sotto la spinta di una nuova vita, che porta segretamente le spighe del raccolto futuro. E lungo il corso di questa spinta, tutta la sostanza del primo seme è assunta in quella delle spighe. Quindi, all’inizio della nostra vita cristiana, fu un primo atto di fede a liberare in noi la grazia di Cristo e, man mano che questa fede si sviluppa, questa la grazia ci trasforma in lui; l’ultima fase di questa trasformazione è la risurrezione della nostra carne.

 

 

Azione e/o contemplazione (SEMI n. 225, Maggio 2020,  Orazione cartesiana)

 

Per la prossima domenica, esito tra due possibilità: andare a visitare un amico malato o passeggiare piacevolmente in campagna. Come discernere la volontà di Dio tra le due?

Cominciamo constatando che Gesù ha molto di più passeggiato in campagna che visitato i malati e che ha fatto solo un centesimo delle guarigioni che avrebbe avuto la possibilità di fare:

 

            Dei trentatré anni che ha vissuto sulla terra, ne ha passati trenta nella oscurità di una vita privata e di una umile condizione, malgrado lo zelo per la gloria di Dio e per la salvezza degli uomini di cui la sua anima era infiammata, malgrado i disordini e gli innumerevoli scandali che gli trafiggevano il cuore.

                                                                                          Ambroise de Lombez (1708-1778), Trattato sulla pace interiore, IV, cap. 8, 1, 6

 

Constatiamo anche che i monaci non visitano mai i malati e che santa Teresa di Lisieux, patrona delle missioni, non è mai uscita dalla sua clausura. Sottolineiamo infine che Gesù Cristo ci ha salvati, con piedi e mani inchiodati, nella più totale inazione. In altre parole, osserviamo che la contemplazione prevale enormemente sull’azione nella santità ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa.

«L’uomo è stato creato per dar lode a Dio!» si può leggere nel testo degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio: la lode di Dio è, dunque, il primo dei doveri dell’uomo e i contemplativi non devono scusarsi di essere tali. Solo come deroga a questo dovere o piuttosto come un altro modo di assolvere a questo dovere, essi potranno anche dedicarsi a delle opere più esteriori della sola vita di lode. Ci direbbero che lo scopo di queste opere non sarà di rendere servizio a Dio o ai nostri fratelli, ma un altro modo di cantare la sua lode:

 

Adesso, c’è da fare molto di buono in questo e in altri vescovati, qui e in diversi luoghi. Dio non vuole assolutamente che io lo faccia, questo non è in mio potere; io non ho nemmeno la conoscenza particolare e non me ne devo turbare. Nostro Signore non istruì tutto l’universo, nemmeno tutti i giudei, né tutti gli abitanti di Nazareth; almeno, nel Vangelo non è detto niente, se non che vi predicò una volta. Egli dimorava nella casa di Giuseppe, come un artigiano ed è detto soltanto che era sottomesso a Giuseppe e Maria, cioè che obbediva loro. Questo esempio ci istruisca, ci consoli e ci liberi dalle molte cure di cui potremmo sovraccaricarci sotto pretesto dello zelo, che ci farebbero cambiare direzione, portandoci fuori dai confini della volontà di Dio!

                                                                                                                                          Jean Rigoleuc (1596-1658), Pii sentimenti, § XVII

 

Utilità o valore aggiunto?

 

Hai dei talenti e del credito, forse troppo per te; hai dei privilegi per nascita o una certa autorità, o una reputazione ben radicata per genio, sapere e diritto, la fiducia del pubblico: santo Arsenio forse ne mancava? E tuttavia… egli va a nascondersi in un terribile deserto. Ha meno riguardo verso il gran bene che avrebbe potuto fare che verso la volontà di Dio senza la quale non si può fare niente di buono. Non ce n’è abbastanza per chiudere la bocca alla nostra presunzione infinita di ragioni plausibili per trarsi dalla oscurità che la confonde e dal santo riposo che l’annoia?

                                                                                      Ambroise de Lombez (1708-1778), Trattato sulla pace interiore, IV, cap. 8, 1, 6

 

Non dimentichiamo il malato che attende, forse, la mia visita all’ospedale. Prima di decidere di dedicargli la domenica, domandiamoci quello che realmente possiamo fare per lui. Perché sarà eventualmente più felice dopo la mia visita? Questa domanda è relativa al valore aggiunto del mio intervento in una data situazione o, se lo si preferisce, dell’arricchimento di questa situazione in termini di felicità, poiché, malato o no, ogni essere vivente cerca la felicità, ci dice sant’ Agostino, e nessuno esiterà a rispondere che è questo quello che vuole, se gli si domanda se vuole essere felice! (Sermone 346 B).

Prima eventualmente di recarmi in ospedale, farò una piccola deviazione passando dallo studio di un mio amico artista pittore. Questo amico compra 100 euro di tela e colori; una volta disposti i colori sulla tela, il suo dipinto si venderà a 1000 euro; i 900 euro di differenza saranno quelli del “valore aggiunto”. Facciamo qualche sottolineatura:

  • Se avessi fatto io stesso il dipinto, sarebbe risultato perfettamente invendibile e le materie prime sarebbero state sprecate. Il valore aggiunto non è allora nelle forniture, anche se ne ha bisogno.
  • Ciò che è stato pagato 900 euro è perfettamente immateriale (e dunque spirituale), perfettamente inutile (un dipinto non serve a niente), ma talmente prezioso che l’acquirente penserà senza dubbio di spendere molti soldi per proteggerlo dai ladri.
  • Ciò che è stato pagato 900 euro è fuori dal tempo: man mano che il dipinto si degraderà nel tempo, cercherò di restaurarlo, cioè di ristabilire quella che era la sua funzione, di rivelare cioè quello che l’artista mi aveva mostrato la prima volta.
  • Ciò che è stato pagato 900 euro non è nel dipinto, ma in me: la ricostruzione materiale del dipinto sarebbe impossibile se il restauratore non avesse in lui una immagine da ritrovare e che lo guiderà nel suo lavoro. Ed ecco esattamente il servizio che mi ha reso l’artista: disponendo i colori secondo un certo ordine (che in greco si dice logos ed in latino verbum, termini nei quali riconoscerete i nomi biblici di Gesù), mi ha rivelato qualcosa o qualcuno di cui portavo il desiderio in me senza saperlo, e che posso adesso riconoscere e identificare.

 

Qualcosa o qualcuno? Supponiamo che il dipinto di cui stiamo parlando non sia l’originale prodotto dall’artista, ma una copia. Anche supponendo che la copia sia perfetta, dall’istante in cui io saprò che si tratta di una copia, non varrà più 1000 euro, ma tutt’ al più i 100 euro della tela e del colore. Il mio desiderio non riguardava tanto il possesso di quella cosa, ma la relazione con qualcuno e, una volta tolto questo qualcuno, il dipinto non è più che un cadavere, non ha più alcun valore aggiunto. (Segue)

 

 

 

Azione e/o contemplazione (Segue) (SEMI n. 226, Giugno 2020,  In società on Dio)

 

Facciamo un bilancio sulle nostre prime riflessioni. Il valore aggiunto legato ad un oggetto sta nella sua capacità, attraverso una certa organizzazione della sua materia, di mettere in comunione delle persone, comunione che è l’obiettivo ultimo di tutti i nostri desideri: l’artista realizza e, contemporaneamente, rivela questa comunione e in ciò avrà contribuito alla felicità di coloro che fruiscono della sua opera.

 

Quello che dà il valore all’opera dell’artista definisce anche ciò che io posso, per rendere felice il malato in un letto di ospedale: non portargli cure – l’infermiere lo farà meglio di me – o belle esortazioni alla pazienza – eccellenti libri potrebbero farlo -, ma portargli il valore aggiunto, di cui si suppone io sia portatore.

 

Ma abbiamo visto che il valore aggiunto, proprio perché aggiunto, non è questione di buona volontà: si riceve dall’alto, è una grazia. E anche se non è per nulla legato al suo talento, l’artista ne gode e ne fa approfittare gli altri, coltivandolo. Ma coltivare non è sfruttare e un’artista non è un mercante di quadri; e anche se deve pur vivere, in prima istanza non è per vendere che dipinge. Al diavolo le buone azioni “per fare del bene!” Esse faranno del bene, soltanto se non cercheranno di farne!

 

Facciamo un passo in più, un passo esplicitamente cristiano. Abbiamo sottolineato che il segreto dell’artista era quello di introdurre un certo ordine nelle cose, di rivelare, nella materia, il Verbo nascosto. Il Verbo non è una struttura inerte nascosta nelle cose e che occorre semplicemente svelare; il Verbo non è qualcosa di cui si parla, ma qualcuno che mi parla e quando il Verbo prende carne, si chiama Gesù: il valore aggiunto sarà esattamente misurato dal suo rapporto con Gesù. C’è un prima e un dopo Gesù Cristo nella storia del mondo, secondo se si ha o no questa chiave che permette di riconoscere quello che vale o non vale per rendere felice, e dunque di riconoscere quello che vale o, molto semplicemente, quello che non vale. Questo è il segreto dei contemplativi:

 

Madre mia, dopo che ho capito che mi era impossibile fare niente da me stessa, il compito che mi avete imposto non mi sembrò più difficile, ho sentito che l’unica cosa necessaria era di unirmi sempre più a Gesù e che “il resto mi sarebbe stato donato in sovrappiù” (Teresa del Gesù Bambino, Storia di un’anima, cap. 9).

 

Di per sé, questa scoperta dovrebbe consacrare il suo autore modello e dottore dei contemplativi. Chi ha mai osato dire, con tanta semplice fermezza che la parte dell’uomo nell’azione è la contemplazione? Che si unisca sempre più a Gesù: il resto, cioè l’azione stessa, gli sarà dato in sovrappiù! Superando così di molto il famoso “Contemplata aliis tradere” (= dare agli altri quello che si è contemplato), siamo portati tramite questa umile monaca, o piuttosto tramite lo Spirito Santo che l’anima, alla sorgente stessa dell’essere e dell’agire (André Combes, Theresiana).

 

 

Rivelare il Verbo nascosto: ecco quello che io posso per il mio amico malato e questo non dipende da me. O piuttosto, dipende da me, per riprendere Teresa, «di unirmi sempre più a Gesù» come si collega un canale ad una sorgente, così l’acqua che lascio entrare potrà, grazie a me, irrigare più lontano, pur senza alcuna produzione da parte mia.

 

Il contemplativo, recettore e trasmettitore del Verbo

 

Ogni lettore di Giovanni della Croce conosce l’immagine del vetro esposto al raggio del sole, illustrando la trasformazione in Dio dell’anima che è a lui unita: l’anima diventa Dio come il vetro diviene luce, anche se il vetro e la luce restano distinti in ordine alla loro natura. Giovanni della Croce arriva a due conclusioni: «questo vetro sembra il raggio stesso e dà la stessa luce del raggio» (Monte Carmelo, II, 5). Sembrare, in spagnolo parecer, deve essere inteso in senso molto attivo: non una semplice rassomiglianza tra il vetro e la luce o tra l’anima e Dio, ma laddove si trova il vetro, la luce scaturisce e laddove si trova l’anima, Dio erompe. Ecco come il contemplativo, in proporzione alla sua unione con Dio, ogni volta riceve ed emana il Verbo, e con tanta minor dispersione quanto più gli sarà unito.

 

Peraltro, poiché questo vetro sembra il raggio, il vetro stesso tende a sparire: l’unione è trasparenza e il contemplativo non si preoccupa di esserlo, proprio come il miglior vetro è quello che si vede meno, ci dice ancora s. Giovanni della Croce. Ecco che evangelizzano soltanto quelli che non se ne accorgono; o quelli che, se se ne accorgono non vi attribuiscono alcuna importanza: il roveto ardente brucia senza consumarsi.

 

Nell’ambito dell’azione, del “fare”, che ci preoccupa così spesso, si porrà regolarmente la domanda: dove sono finiti gli altri, nella ricerca esclusiva di Dio? Sono proprio finiti in Dio! E lì, cessano di essere altri, parola che indica una separazione e si rivelano dei fratelli, perché vivono in Dio della stessa vita di cui viviamo noi: dal mondo materiale degli scambi tra individui, entriamo nel mondo spirituale della comunione di persone.

 

Allora, vado a visitare il mio malato in ospedale? No, se è un altro, si, se è mio fratello: nel qual caso questa visita ci renderà entrambi così felici, felici l’uno per l’altro, perché viviamo questa comunione. E il mazzo di fiori che gli porterò diventerà opera d’arte, celebrerà questa comunione: «La creazione attende così la rivelazione della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Concludiamo con san Francesco di Sales:

 

            È l’amore che dona la perfezione e il valore alle nostre opere. Vi dico molto di più: una persona che soffre il martirio per Dio con una oncia d’amore, merita molto, perché non potrebbe donare niente più che la sua vita; ma un’altra persona che sopporterà solo un buffetto con due once d’amore avrà molto più merito perché è la carità e l’amore che danno valore a tutto.

San Francesco di Sales, Veri trattenimenti spirituali

 

 

Le fiamme dell’inferno  (SEMI n. 227, Luglio-Agosto 2020, Quanto tempo dedicare all’orazione)

 

Abbiamo visto che tutta la felicità che desideriamo risiede in una completa comunione di vita con Dio e con i nostri fratelli (cfr. Semi n. 221), di modo che il cielo corrisponde alla perfezione di questa unione e l’inferno all’assoluta disunione. Per questo,

Se, per assurdo si potesse amare Dio all’inferno, e volesse mettermici, non me ne preoccuperei: perché sarebbe con me e la sua presenza ne farebbe un paradiso.

Lorenzo della Risurrezione (1614-1691), L’esperienza della presenza di Dio

 

Quanto al purgatorio, corrisponderà allo stato imperfetto di questa comunione beata. Ma sottolineiamo che questa divisione tra i differenti gradi di unione con Dio e con i fratelli vale tanto per questa vita che per l’aldilà, anche se paradiso, inferno, purgatorio si riferiscono comunemente all’aldilà: non cadiamo nell’errore di riservare la risurrezione e la felicità eterna ad un futuro lontano, dimenticando che fin da adesso l’accesso al paradiso ci è riaperto (cfr. Semi n. 224). Tramite la vittoria di Cristo nella Pasqua, in effetti,

 

Noi vediamo l’antica tirannide del demonio capovolta, la morte distrutta, il forte incatenato e la sua potenza abbattuta, il peccato tolto dal mondo, la maledizione cancellata, il paradiso riaperto, l’accesso al cielo ridato all’uomo, gli uomini uniti agli angeli, tolto il muro di separazione, il velo strappato, il Dio della pace che pacifica il cielo e la terra.

San Giovanni Crisostomo (350-407), Prima omelia sulla croce e il buon ladrone

 

Peraltro, siamo ben coscienti dell’impossibilità di parlare in modo adeguato delle realtà immateriali e dunque insensibili e questo ci obbliga a molte precauzioni quando parliamo dell’aldilà. Dire, per esempio, che i beati “vedono” Dio, non deve fare dimenticare che non hanno occhi per questo e che i dannati non hanno più orecchi per ascoltare lo stridore lugubre dell’inferno. Quindi diffidiamo delle immagini che, in mancanza di meglio, sono abitualmente associate all’inferno: alcuni ne parlano in termini di fuoco, altri come un ghiacciaio; le vetrate delle nostre cattedrali ne fanno ora una sala di tortura, ora un mostro che divora le sue prede. Ad ogni modo, si tratta di evocare la sofferenza di essere separati da Dio: poiché la felicità possibile è misurata dall’unione con Gesù e ogni infelicità è misurata dalla disunione con lui. L’Imitazione di Gesù Cristo riassume molto semplicemente questo rapporto tra cielo e terra:

 

Essere senza Gesù, è un inferno insopportabile; essere con Gesù, è un paradiso di delizie.

Tommaso da Kempis, Imitazione II, 8

 

L’inferno non è, dunque, un luogo, ma uno stato; uno stato di rottura della nostra relazione con Dio e, di fatto, un’assoluta infelicità. Riferito alla vocazione dell’uomo alla comunione, questo stato è semplice da comprendere: quello che causa la felicità dei beati è esattamente quello che causa l’infelicità dei reietti. Ѐ nella natura dell’amore non aver ritorno mai su di sé. Dio non riprende i suoi doni e il dannato non è meno amato del più santo dei santi, ma l’amore rende felice solamente colui che accetta di essere amato e accettare di essere amato è amare in cambio. In mancanza di questa reciprocità, colui che è amato proverà contemporaneamente il desiderio di amare che questo amore ha risvegliato nel suo cuore e la privazione della felicità di amare; questa è esattamente la situazione infernale:

 

La morte dell’anima non consiste nel non esistere più, ma nel non conoscere più, nel non amare più Dio. Consiste nel non avere pace né felicità, nell’essere in una inquietudine e in una agitazione continue. Consiste nel provare una fame continua di conoscere e di amare il sovrano bene e nel non poter mai saziare questa fame.

 

In questa fame impossibile a placarsi, nell’aldilà come qui, il peccato è soltanto il tentativo continuamente deluso di consolarsi, come l’ubriaco de Il Piccolo Principe che beve per dimenticare che beve:

 

Per distrarre, e in qualche modo per eludere questa fame, gli uomini consegnati alle loro passioni si gettano con una specie di furia su ogni oggetto che si presenta; portano a spasso la loro mente da un pensiero all’altro; il loro cuore da affezioni ad affezioni; ma il loro disgusto, la loro noia, la loro incostanza, i loro cambiamenti continui provano che non trovano da alcuna parte, fuori di Dio, niente che li soddisfi e li sazi. La loro anima è sempre errante e vagabonda nei suoi desideri; cerca sempre; s’illude sempre che troverà, che si stabilizzerà ed è sempre frustrata nella sua attesa.

Jean-Nicolas Grou (1731-1803), Manuale delle anime interiori

 

Si comprende che l’inferno non è una vendetta o una punizione, ma questa lacerazione tra il desiderio di Dio che il suo amore ha fatto nascere nel nostro cuore e il rifiuto di amare che gli opponiamo. Certo, questo rifiuto, per la maggior parte del tempo, è solo implicito: non si dice no a Dio, ma si dice no alla verità quando si è falsi, alla bontà quando si è egoisti, alla dolcezza quando si è violenti, ecc. Così nel giorno del Giudizio, i mentitori, gli egoisti e i violenti comprenderanno la triste constatazione di Cristo: «Tutte le volte che non avete dato un po’ di pane ad uno di quelli che aveva fame, un bicchiere di acqua a quelli che avevano sete, un vestito a chi era nudo, è a me che non l’avete fatto» (Mt 25,31-46).

 

L’inferno è interamente in questa separazione tra la nostra volontà e quella di Dio:

San Bernardo ci assicura che ciò che serve da legna all’inferno, è la nostra volontà: «Cosa brucia all’inferno, se non la nostra volontà?» È una verità così incontestabile che aggiunge perfino che, se questa propria volontà scomparisse dal mondo, non si avrebbe più l’inferno».

Jean Taulero (1300-13619), Sermone 7

 

«Non è che questo!» diranno alcuni. È solo questo, in effetti, come se non bastasse alla nostra infelicità di essere definitamente lontani dal nostro Padre e dai fratelli. È significativo che sono sempre i santi a parlare dell’inferno e mai i peccatori: sulla questione dei dannati, la Scrittura parla di morte eterna e un morto non si lamenta affatto. Ma i salvati, coloro che vivono l’amore di Dio e dei loro fratelli, sanno quello che perdono coloro che non amano. (Segue)

 

 

 

Le fiamme dell’inferno (Fine) (SEMI n. 228, Settembre 2020, La via mistica)

Ripetiamo che bisogna qui diffidare dalle immagini troppo spesso associate all’aldilà: è sicuro che l’inferno è una disgrazia assoluta e definitiva, ma piuttosto che di spaventose torture, bisogna parlare del vuoto di una esistenza totalmente ripiegata e chiusa su se stessa. La parola qui più conveniente è quella di morte; con tutta la grande Tradizione cristiana, l’abbiamo evitata a proposito dei defunti battezzati, perché questa situazione infernale è quel che Victor Hugo riassume nella frase: «L’inferno consiste interamente in questa parola: solitudine».

 

 

Santità e mistica

Nell’ambito del nostro catechismo spirituale, è molto importante distinguere ben due componenti della vita cristiana, anche se sono spesso associati: da una parte la santità, e dall’altra parte l’esperienza che noi abbiamo di Dio stesso, o se si preferisce, l’esperienza mistica o contemplativa.

Per dire le cose sinteticamente, Teresa d’Avila è stata dichiarata santa dalla Chiesa perché lei ha condotto una vita conforme al Vangelo, e non per aver avuto estasi o visioni. In effetti,

 

Tutte le visioni o apparizioni sono comuni ai buoni e ai cattivi, e non bisogna giudicare una persona più santa o più perfetta di un’altra basandosi sul fatto che ad una appaiono degli spiriti, mentre all’altra non ne appaiono affatto, perché si deve giudicare più santo degli altri solo chi si sforza di attaccarsi a Dio tramite un vero amore dopo aver costruito una base solida e profonda di umiltà, per piacergli e non per ottenere visioni.

Jean Bona (1609-1674), Trattato sul discernimento degli spiriti, XIX-XX

 

Quale dunque il rapporto tra santità e contemplazione? Dipendono un po’, molto o del tutto l’una dall’altra? In verità, per niente, ci dice santa Teresa d’Avila:

 

É una cosa di grande importanza quella di comprendere che Dio non conduce tutti per lo stesso cammino…Non è perché, in questa casa, tutte [le monache] si dedicano all’orazione, che tutte devono essere contemplative. È impossibile! Sarebbe una grande desolazione per colei che non lo è, il non comprendere questa verità, che si tratta cioè di qualcosa che Dio dona. E poiché ciò non è necessario per la salvezza e non ci è richiesto per essere ricompensati, non pensi che qualcuno gliela domanderà! Ciò non le impedirà di essere molto perfetta

Santa Teresa di Gesù, Libro della vita, cap. 17

 

Questo è quello che dichiara ufficialmente papa Benedetto XVI, grande codificatore dei processi di canonizzazione del secolo XVIII:

 

Numerosi sono quelli che figurano nel catalogo dei beati e dei santi, e che non furono in nessun modo contemplativi.

Papa Benedetto XVI, Sulla beatificazione dei Servi di Dio, III, 26, 8

 

 

Cos’è la santità?

Il Signore Gesù ha inviato lo Spirito Santo su tutti i suoi discepoli, perché li muovesse dall’interno ad amare Dio con tutto il loro cuore, con tutte la loro anima, con tutto il loro spirito e con tutte le loro forze (Mc 12,30), e perché si amassero vicendevolmente come Cristo li ha amati (cfr. Gv 13,34; 15,12).

 

Questa conformazione a Cristo è dunque un dono di Dio senza alcun merito umano (cfr. Semi n. 222):

 

I fedeli di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il suo disegno e la sua grazia, e giustificati in Gesù Signore, sono stati resi veramente figli da Dio e partecipi della natura divina nel battesimo della fede, e per questo resi realmente santi.

 

Ma se la santità non deve niente agli sforzi umani, essa giustifica tutti gli sforzi umani, ed è per questo che la grazia non dispensa la natura per ciò che dipende da lei:

 

È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità.

Costituzione Lumen Gentium, V, 40

 

L’ordine di questi paragrafi è essenziale: Dio comincia ad inviare lo Spirito Santo; questo ci fa partecipare alla natura divina (questa è la santità), e spetta a noi allora approfittarne con un comportamento coerente, di cui questa grazia ci rende capaci. Quello che s. Paolo indicava già ai Colossesi: «Poiché voi siete risuscitati con Cristo cercate le cose dell’alto…fate morire l’impudicizia, l’impurità, le passioni, la cupidigia…, rinunciate a tutte queste cose tramite le quali una volta camminavate». Lungi dall’opporsi alla fede, le opere la suppongono, come conseguenza, una liberazione di un dono di Dio in noi.

 

Cos’è la contemplazione?

Lavorando sola a casa mia in qualche opera di cucito, la mia anima fu improvvisamente investita e come inondata dal sentimento della presenza di Dio, e lo provavo come sentimento della realtà. Dio stava lì, presso di me; non potevo vederlo, ma sentivo la certezza della sua presenza, come un cieco è certo di avere vicino a lui qualcuno che egli tocca e che sente parlare…

Diario spirituale di Lucie Christine, 16 luglio 1874

 

 

Vediamo l’irruzione della contemplazione: fino ad allora, Lucie Christine credeva che Dio fosse lì, ora lei lo sente. Avviene il passaggio dalla fede alla contemplazione.

 

Non appena abbiamo una certa consapevolezza di Dio in noi, appena sperimentiamo, in qualche modo, la sua presenza; appena questo contatto, del resto permanente e necessario tra lui e noi, ci appare sensibile, prende la forma di un incontro, di un abbraccio, di una presa di possesso.

Henri Brémond, Sull’Umanesimo, p. 249

(Segue)

 

Santità e mistica (Segue)  (SEMI n. 229, Ottobre 2020, L’orazione)

 

Possiamo fare qualcosa per questa presa di consapevolezza della presenza di Dio che qualifica la contemplazione? Tutti gli autori sarebbero d’accordo con Guglielmo di Saint-Thierry:

 

            Questo modo di pensare Dio non è nelle possibilità di colui che pensa, ma nel beneplacito di colui che lo dona, fino a quando, cioè, lo Spirito Santo che soffia dove vuole, quando vuole e come vuole, e in chi vuole, non lo infonde.

Guglielmo di Saint-Thierry, Lettera ai Fratelli di Mont-Dieu, III, I

 

Il fenomeno della Rivelazione

Lucie Christine è passata dalla percezione nella fede di un mistero nascosto, a quella di un mistero rivelato. Certo, resta mistero, perché la fede non è assolutamente diminuita, ma in questa esperienza, quello che non si vede, non diviene meno certo di tutto quello che si vede: «Si scopre, vissuto dal mistico nella chiarezza di una evidenza, quello che ciascuno di noi sa tramite la fede e di cui vive» (G. M. Garonne).

Una immagine aiuta a comprendere questo fenomeno che è quello della Rivelazione. Nella purezza del vuoto intersiderale, il sole brilla, ma non illumina niente: è incontrando l’atmosfera che diviene visibile. «Dio è luce» ci dice S. Giovanni, ma ci dice anche: «Dio nessuno l’ha mai visto!» Per vederlo, per rivelarsi, bisogna che incontri gli strati densi della nostra atmosfera mentale, bisogna che s’incarni: «Il Figlio unico, che è nel seno del Padre, lui l’ha fatto conoscere» (Gv 1,18). Questi strati densi sono tutta la nostra psiche, con le sue componenti di memoria, di intelligenza, di volontà, di immaginazione, modellata dalla propria storia, essa stessa segnata dal peccato.

Dio brilla alla sommità della nostra psiche, nel punto in cui incontra la dimensione spirituale, per niente cieca dove «la nostra vita è nascosta in Dio con Cristo» (Col 3,3) e dove la ragione nasce dalla fede. Ma attraverso l’incarnazione, questo Dio che ci tocca dall’alto, si fa sentire, toccare, capire, «da chi vuole, quando vuole, dove vuole». Questa rifrazione nella carne, ecco l’esperienza contemplativa, che porta su «quello che abbiamo visto con i nostri occhi, quello che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato del Verbo della vita» (I Gv 1,1). Se la santità è un fatto di divinizzazione, la contemplazione è fondamentalmente un fatto di incarnazione, una venuta di Cristo nella carne, un fatto di Rivelazione.

 

Santità e/o contemplazione

La contemplazione, e più ancora la mistica- si usa abitualmente la parola mistica” per indicare un grado elevato della contemplazione – è spesso considerata pericolosa. Dio è padrone dei suoi doni, ci ha ricordato Guglielmo di Saint-Thierry, e poiché vuole, in ogni modo, che tutti gli uomini possano essere salvati, bisogna credere che quelli che egli conduce sulla via contemplativa ricevono le grazie necessarie per camminarvi santamente. E di fatto, si constata che i mistici sono particolarmente rappresentati nell’elenco dei santi. Perché, allora, costituiscono solo una piccola parte dell’umanità? Perché l’alpinista ha meno diritto all’errore di colui che passeggia su un cammino pianeggiante: avanzando su di un cammino scosceso, il contemplativo è obbligato a seguire Cristo più da vicino. Laddove colui che passeggia si accontenterà di una mappa a grande scala e potrà senza rischi scostarsi dalla strada, l’alpinista dovrà scalare le pareti rocciose con grande precisione. Ciò lo obbligherà a vivere una santità esemplare, che lo porterà alla canonizzazione servendo così da esempio particolarmente illuminante per i suoi fratelli che camminano.

La mappa di colui che cammina, sono i comandamenti di Dio; la mappa dell’alpinista sono i consigli evangelici. L’osservanza dei comandamenti è richiesta ad entrambi, ma non è sufficiente per l’alpinista. Quando il passeggiatore sentirà «Tu non ruberai», l’alpinista spirituale percepirà un invito più radicale: «Beati i puri di cuore!». E ciò che aiuta colui che cammina, a vivere – per esempio i fiori che raccoglie per decorare la sua bella casa – non farebbe altro che ingombrare l’alpinista impedendogli di vivere. Questo è il senso del suo voto di povertà, che ufficializza un modo di vivere libero da bagagli superflui.

Ma sottolineiamo che ogni viatore nasconde un alpinista. Così anche se non si sente attratto dall’Himalaya, man mano che avanzerà, il camminatore scoprirà la bellezza della montagna, e si libererà così delle cose avvertite ormai come superflue, per viaggiare più leggero. Si scoprirà capace di prestazioni che non immaginava. Così il cristiano fedele vede le nuove esigenze del suo battesimo man mano che le vive: rinunce non percepite come necessarie in un primo momento, s’impongono adesso come una condizione per continuare a seguire Cristo. In altre parole, non è per virtù che rinuncerà a decorare la sua bella casa, ma per preferenza: è questa scelta che trasforma, piano piano, il passeggiatore in alpinista. Questa è la molla di tutto il progresso spirituale. Questo fino al momento – che è quello della sua uscita dalla vita terrena- in cui potrà dire con Cristo: «Nessuno prende la mia vita, ma sono io che te la dono».

Ci possiamo infine chiedere se colui che prova questa nuova chiamata è obbligato a rispondervi. Si e no. No, perché sente benissimo che resta libero e che non vi è altra punizione per chi rifiuta l’ascensione, se non quella di privarsi della vista della sommità; ma si, perché colui che ha intravisto la vetta non può ritornare a passeggiare senza esserne molto triste come il giovane ricco del Vangelo:

 

Si rischia di perdere tutto chiudendo l’orecchio a questa voce; e anche se si finisce per arrivare all’ultima meta, Dio solo sa il cammino che ci si prepara. Si camminerà goffamente per tutta la vita: si direbbe che la grazia non arriva più che obliquamente in queste anime e che Dio non vi opera, per così dire, che per forza. Niente va dritto per esse; niente è agevole, eccetto forse far meno bene o persino far male. […] Si, queste anime saranno salvate ma, come scrive san Paolo, «passando per il fuoco».

Charles Gay (1815-1892), Sulla vita e virtù cristiane, pagg. 81-84

 

 

Santità e mistica (Segue)  (SEMI n. 230, Novembre 2020, Quando Dio s’impone)

 

Contemplazione ed evangelizzazione

 

Abbiamo individuato l’esperienza contemplativa come l’evento nel quale il Verbo di Dio prende carne, diviene parola umana. Ci resta da fare un passo in più, decisivo per comprendere come si diffonde il Vangelo a partire da questa esperienza; esso ci permetterà di precisare quello che vuole dire “evangelizzare”.

Bisogna perciò considerare due dati di ogni vita contemplativa: il primo è che Cristo stesso si rende presente nel contemplativo, così realmente che parliamo della sua presenza sotto le apparenze (le “specie”) eucaristiche; il secondo è che la capacità evangelizzatrice dell’apostolo è misurata dalla sua unione a Colui che lo invia, come si è scritto a proposito di Teresa di Gesù Bambino, patrona delle missioni: «La parte dell’uomo nell’azione, è la contemplazione».

 

Il contemplativo, trasformato in Gesù

 

Parlando dell’esperienza contemplativa come rifrazione della luce divina nella psiche umana, abbiamo potuto considerarla in continuità con il mistero dell’Incarnazione, per poco che si dia la propria energia al legame che unisce Cristo al suo discepolo, e che permette di dire che tutto ciò che è vero di lui, lo diviene anche del discepolo. Questo legame, ci dice s. Paolo, è quello che sussiste tra le membra e la testa di uno stesso corpo, al punto che la vita cristiana può essere definita semplicemente come «estensione e continuazione dei misteri di Gesù», ci dirà san Jean Eudes (La vita e il regno di Gesù, III, 4).

Il primo mistero di Gesù di cui si appropria il suo discepolo è quello della sua nascita: come il Santo Spirito è sceso su Maria perché Gesù nascesse uomo, così viene su ciascun discepolo di Gesù perché Cristo continui a crescere in umanità. Maria ha fatto molto più che accogliere il Figlio di Dio: l’ha arricchito della sua umanità, così come l’acqua attraversata dalla luce non riflette la luce, ma l’arricchisce divenendo luminosa, senza alcuna alterazione né della luce, né dell’acqua. E per i secoli successivi, l’Annunciazione sarà l’episodio biblico che permetterà di comprendere l’esperienza contemplativa.

Pensare l’esperienza contemplativa come questa rifrazione di Dio nell’uomo, invita a capire che il contemplativo non è spettatore, ma attore di quello che contempla. Un errore comune è di credere che i contemplativi “vedono” in qualche modo questo Dio invisibile agli altri. Errore! Il contemplativo, essendo passato in Dio, vive quello che Dio vive e vede quello che Dio vede. Il fatto di trovarsi così in presa diretta sull’essere delle cose, spiega questa sensazione che abbiamo rilevato in Lucie Christine quando rende conto della sua esperienza: «Provavo come il sentimento della realtà». Quello che differenzia l’esperienza mistica dall’esperienza comune non è il suo contenuto, ma questa densità di percezione di quello che è, aldilà di quello che appare soltanto: «Vi si scopre, vissuto dal mistico nella chiarezza di una evidenza, quello che ciascuno di noi sa tramite la propria fede» ci ha detto Garonne.

 

La contemplazione, chiave dell’evangelizzazione

 

Questa rifrazione di Dio nell’uomo rende Dio realmente presente sotto le specie dell’umanità. Nel caso particolare dell’apostolato, la Scuola francese di spiritualità sottolinea che l’apostolo non si definisce per la sua funzione o azione, ma per questa trasformazione radicale in Gesù: «è Gesù Cristo nascosto sotto l’esteriorità dell’uomo, simile alla santa ostia la cui l’esteriorità sembra solamente pane, ma la cui sostanza è Gesù Cristo, non avendo che l’esteriorità di uomo» (Jean Jacques Olier, Trattato sui santi Ordini). Anche se Olier parla qui di un prete, ciò resta vero per ogni cristiano: quando si è fedeli alla volontà di Dio,

 

            Questa volontà ci fa essere il Gesù che Dio vuole che siamo, e, pertanto, una modalità del Verbo incarnato. Questo è proprio del divino che si fa uomo; dell’invisibile che appare; dell’eterno che prende posto e data nel tempo; questo è il cielo disceso sulla terra, quello che noi domandiamo nell’orazione domenicale e che san Paolo chiama così bene “la venuta di Cristo”, venuta che è anche quella del regno di Dio.

                                                                                                                                                Charles Gay (1815-1892), Elevazione 121

 

Ecco come “essere il Gesù che Dio vuole che siamo” permetterà l’incontro con la persona di Cristo per coloro che non lo conoscono ancora e, per reazione a catena, permetterà la diffusione del Vangelo. «Chi ha visto me, ha visto il Padre» può dire Gesù; «chi mi ha visto, ha visto Gesù» dovrebbe poter dire il suo discepolo, e potrà dirlo nella misura esatta della sua unione a Cristo e quindi della sua trasformazione in lui. In effetti, quello che il non cristiano vedrà, sarà Gesù stesso sotto le sembianze dell’apostolo, ed è in relazione alla stessa persona del Cristo che accetterà o no di condurre, a sua volta, una vita comune con lui e di convertirsi. Questo è il principio basilare dell’apostolato cristiano: non annuncio umano di un contenuto divino, non trasmissione di un messaggio venuto d’altrove, ma una presenza illuminante di Cristo nella sua umanità.

Ciò fa sì che

 

            Un uomo interiore, in un’ora, renderà più servizi alla Chiesa di quanti ne renderanno, in diversi anni, quelli che non lo sono; quanto più quello è intimamente e totalmente unito a Dio non frapponendo ostacoli agli interventi della grazia, tanto più Dio può usarlo come gli piace per il compimento dei suoi disegni.

                                                                                                                                                                  Jean Rigoleuc (1596-1658), Diario

 

In realtà solo Gesù evangelizza e quello che spetta al suo discepolo per l’espansione del suo Regno, è di «essere Gesù, vivendo la vita di Gesù, per fare l’opera di Gesù» (Charles Gay).

 

 

Cos’è un atto di fede? (SEMI n. 231, Dicembre 2020, L’orazione che piace a Dio)

 

Ecco le prime due domande del catechismo di san Pio X:

Sei cristiano? Io sono cristiano per grazia di Dio. Perché dici: per grazia di Dio? Rispondo: per grazia di Dio, perché essere cristiano è un dono del tutto gratuito di Dio che non possiamo meritare.

 

Non solo non abbiamo meritato di essere cristiani, ma non abbiamo potuto meritarlo: Dio non ha voluto che avessimo questa possibilità. «Dio ha deciso di non ricompensare che le sue opere; quello che lui stesso non ha fatto in te, non conta per niente», ci ha detto Taulero (Sermone III per l’Epifania), e ne abbiamo concluso che essere cristiano suppone solo di «lasciare Dio effondersi in noi e trasformarci in lui» (Semi n. 222). E pure, «Dio che ti creato senza te, non ti salverà senza te!», ci dirà s. Agostino. Come conciliare questa assoluta gratuità dell’opera di Dio e la nostra responsabilità nella nostra salvezza? Si tratta di tutta la questione del rapporto tra grazia e libertà o, se lo si preferisce, la questione dell’atto di fede, «atto umano, cosciente e libero», recita il Catechismo della Chiesa Cattolica, ma nello stesso tempo «dono soprannaturale di Dio» (nn. 179-180).

 

L’apparente opposizione tra la libertà di Dio e quella dell’uomo ha avvelenato la teologia cristiana per quattro secoli, per arrivare, alla fine, alla separazione tra fede e ragione ratificata dalla Riforma Protestante. In questo campo come in tanti altri, s. Francesco di Sales ha proposto la posizione cattolica- indicando con questa parola la universalità della verità- ed è proprio su suo consiglio, si dice, che Papa Paolo V avrebbe deciso di impedire ai domenicani e gesuiti di continuare un dibattito (per i conoscitori, le Congregationes de auxiliis) che si basava sul falso problema di una libertà considerata come illusoria dagli uni, o come pura e semplice capacità di fare qualsiasi cosa dagli altri.

 

Francesco di Sales, con tre secoli di anticipo sulla filosofia di Bergson, evita accuratamente ogni definizione teorica della libertà, ma osserva che è un fatto, un dato naturale. Egli osserva che dopo il peccato originale, nasciamo portatori del desiderio di vivere la vita di Dio (biblicamente, ciò corrisponde alla nostra creazione “ad immagine di Dio”), ma incapaci di condurre questa vita e perfino di identificarla, quello che si dice in termini cristiani: ignari della salvezza. Perché questo desiderio possa realizzarsi, Dio deve allora prendere l’iniziativa:

 

Il primo slancio o scrollone che Dio provoca nei nostri cuori, per incitarli al loro bene, si  compie certamente in noi, ma non per mezzo nostro; perché arriva all’improvviso prima che vi abbiamo pensato, o potuto pensare, poiché non abbiamo niente in noi stessi che sia sufficiente per meritare o pensare qualsiasi cosa che riguardi la nostra salvezza;tutto questo viene da Dio, che ci ha amati non solo prima che noi esistessimo, ma ancora affinché esistessimo ed esistessimo in modo santo.

 

Come si comporta Dio per questo risveglio? Francesco di Sales ci insegnerà più oltre a leggere tutte le circostanze della nostra vita come altrettanti inviti provvidenziali; per adesso egli ne indica il principio:

 

            Dopo, Dio viene verso di noi attraverso le benedizioni della sua dolcezza paterna, ed eccita il nostro spirito per spingerlo al santo pentimento e conversione.

 

Francesco ci da qui l’esempio del pentimento di s. Pietro dopo il suo rinnegamento,  poiché Dio colpendo il cuore del povero peccatore” gli apre gli occhi sulla sua situazione sconfortante. In ogni caso, tutta la conversione suppone questa luce venuta dall’altrove:

 

            […] Questa prima emozione e scossa che l’anima sente, la sveglia e la eccita a lasciare il peccato e a volgersi nuovamente verso Dio, e questo risveglio avviene in noi e per noi, ma non tramite noi. Siamo svegliati, ma non siamo svegliati da noi stessi; questa ispirazione ci ha svegliato e per svegliarci, ci ha sconvolti e scossi. […] È in questo sussulto e all’improvviso che Dio ci chiama e ci risveglia tramite la sua santissima ispirazione.

 

A partire da questo sconvolgimento di cui solo Dio è la causa, si apre davanti al peccatore la possibilità di una vita diversa rispetto a quella che conduceva, lasciandolo, tuttavia, perfettamente libero. Nello stesso tempo vede quello che non vedeva prima e prova come una preferenza per questa vita nuova, trovandola migliore di quella vecchia, anche se, senza dubbio, ignora che «Dio solo è buono» (Lc 18.19). Ma questa attrazione non è, tuttavia, una pressione e neanche esattamente una influenza:

 

[…] Malgrado il vigore onnipotente della mano misericordiosa di Dio, la volontà umana rimane perfettamente libera, affrancata, ed esente da ogni tipo di costrizione e necessità. La grazia è così graziosa e prende così gratuitamente il nostro cuore per attirarlo, che non toglie niente alla libertà della nostra volontà; tocca con grande potenza, eppure così delicatamente, le molle del nostro spirito, che il nostro libero arbitrio non ne riceve alcuna violazione. La grazia ha delle forze, non per forzare, ma per allettare il cuore: ha una santa violenza, non per violentare, ma per rendere amorevole la nostra libertà [], così che possiamo consentire o resistere ai suoi movimenti, secondo quel che ci aggrada.

San Francesco di Sales, Trattato dell’Amore di Dio, II,  cap. 9 e 12

 

Qui s’insinua la tentazione intellettualmente mortifera, di confondere la libertà con cui è stato deciso un atto, con la concatenazione che porta all’esecuzione dello stesso: una volta che l’atto libero è stato deciso, noi vediamo solo i risultati che obbediscono alle leggi fisiche, chimiche, psicologiche, etc…, in breve, alle leggi della creazione. Soccombere a questa tentazione sarebbe come se affermassimo che un incidente stradale sia il risultato della velocità dell’auto unitamente alle condizioni della strada, dimenticando che nessuno stava costringendo il conducente ad andare troppo veloce! Il guidatore è libero, non l’auto e, lungi dall’opporsi alla sua libertà, le leggi della meccanica devono applicarsi con una necessità assoluta perché egli possa guidare liberamente.

(Segue)

 

 

Cos’è un atto di fede? (Segue)  (SEMI n. 232, Gennaio 2021, Orazione e contemplazione)

 

Continuiamo a meditare il testo di Francesco di Sales che ci mostra come un atto di fede si forma nell’accettare liberamente la grazia di Dio: è lui che prende l’iniziativa di invitarci a vivere in conformità alla sua volontà ma, nello stesso tempo, non ci forza assolutamente. La fiducia è qui il vero nome della fede. Così davanti alle leggi divine:

 

Ciò che è tanto mirabile quanto vero, è quando la nostra volontà segue l’attrazione e acconsente al movimento divino, lo segue liberamente, proprio come liberamente resiste, quando resiste.

 

Alcuni obietteranno qui che Dio avrebbe dovuto domandarci il nostro parere prima di significarci la sua volontà! Ma questo è confondere la vera libertà di seguire questa volontà e la falsa libertà di fare qualsiasi cosa. Non compete a chi guida l’auto di modificare il tracciato stradale, ma gli compete di seguirlo piuttosto che andare a cadere nel fossato scegliendo di guidare chissà come, cosa che, dopo tutto, è pure un possibile uso della propria libertà. In questo senso, non seguendo la volontà di Dio, andremo nel fossato di una vita che non andrà oltre il cimitero e ciò non è esattamente una punizione, ma una conseguenza che avremo liberamente scelto. Allo stesso modo occorre comprendere la sanzione del peccato: Dio solo crea la strada, uscirne non porta da nessuna parte o, meglio, conduce solo ad un vicolo cieco, che è in fin dei conti quello della morte eterna. Questo equilibrio tra due libertà, quella di Dio che offre e quella dell’uomo che accetta o rifiuta, apre lo spazio all’atto di fede, cioè all’adesione libera e cosciente alla volontà di Dio, fede che salva in quanto vuol dire accogliere la vita eterna.

San Francesco di Sales illustrerà questo accoglimento tramite un’immagine: quando dormiamo nella morte eterna (questo è l’effetto del peccato originale), spetta a Dio suonare la campana per svegliarci, ma spetta a noi di alzarci, oppure di smorzare il risveglio per continuare a dormire:

 

Quando diciamo che possiamo rifiutare l’ispirazione celeste e le attrattive divine, non s’ intende, certo, che si possa impedire a Dio di ispirarci né di spargere le sue attrattive nei nostri cuori perché, come già detto, questo si compie in noi e senza di noi, in quanto sono dei favori che Dio ci fa, ancor prima di averci pensato; egli ci sveglia quando dormiamo e di conseguenza ci ritroviamo svegli ancor prima di averci pensato; ma sta a noi alzarci o non alzarci; e sebbene ci abbia svegliato senza di noi, Dio non vuole alzarci senza di noi. Ora, se non ci alziamo e ci riaddormentiamo, questo è resistere perché siamo risvegliati per alzarci. Non possiamo impedire che l’ispirazione ci spinga e di conseguenza ci scuota, ma se man mano che ci spinge, noi la respingiamo perché non ci abbandoniamo al suo movimento, allora stiamo resistendo.

San Francesco di Sales, Trattato sull’amore di Dio, II, cap. 9 e 12

 

Concretamente, come avviene ciò? Francesco di Sales, userà un’altra immagine, quella dei rondoni: una volta caduti a terra, non possono più spiccare il volo; questa è la situazione dei figli di Adamo ed Eva, quali siamo noi. Dicendoci che siamo “nati nel peccato”, san Paolo (Rom 5, 15s) ci vede come quei piccoli uccelli caduti dal nido, che non possono riprendere il loro volo senza un forte colpo di vento, o senza che una mano caritatevole li sollevi da terra. Ma una volta sollevati da terra, bisogna però che essi battano le ali!

 

Così, il vento, avendo colpito e alzato i nostri rondoni, non li porterà molto lontano, se non estendono le loro ali e non cooperano, salendo e volando nell’aria nella quale sono stati lanciati. Altrimenti, può darsi che tentati da un’erba che vedono in basso o, appesantiti dall’esser stati troppo a terra, invece di assecondare il vento, tengono le ali piegate e si gettano di nuovo verso il basso; così essi hanno ricevuto veramente il movimento del vento, ma invano, poiché non se sono avvantaggiati. Allo stesso modo le ispirazioni divine ci prevengono e prima che vi abbiamo pensato, esse si fanno sentire; ma dopo che le abbiamo sentite, sta a noi consentirvi per assecondarle e seguire il loro fascino, o dissentire e respingerle.

Ibidem

 

Ci resta da chiarire l’attrazione che ci porta a dispiegare le ali: perché convertirci, perché preferire di alzarsi mentre potremmo continuare a dormire? Dio ha messo in noi una sorta di bussola che ci indica che la vera felicità è di vivere in comunione con lui (cfr. Semi n. 221); il peccato ci ha disorientato, ma la bussola continua ad indicare la strada. Così convertirci ci sembra preferibile, anche se questo non sempre è gradevole. Qui si vede come la grazia di Dio ci precede ovunque e ci da sempre la luce e la forza per vivere quello che ci propone, senza tuttavia mai forzare:

 

I raggi del sole illuminano riscaldando, e riscaldano illuminando. L’ispirazione è un raggio celeste che porta nei nostri cuori una luce calda, tramite la quale ci fa vedere il bene e ci riscalda nel cercarla. Tutto quello che ha vita sulla terra si intorpidisce al freddo dell’inverno; ma al ritorno del calore vitale della primavera, tutto riprende il suo movimento. Gli animali terrestri corrono più velocemente, gli uccelli volano più alto e cantano più allegramente e le piante spingono le foglie e i fiori molto piacevolmente. Senza ispirazione, le anime vivrebbero pigramente, paralizzate e in modo inutile; ma all’arrivo dei raggi divini dell’ispirazione, sentiamo un miscuglio di luce e di calore vivificante, che rischiara il nostro intelletto, risveglia e anima la nostra volontà, dandole la forza di volere e di fare il bene proprio della salvezza eterna. Dio avendo creato il corpo umano dal fango della terra, come disse a Mosè, gli inspirò il suo soffio di vita e gli fece un’anima vivente, cioè un’anima che desse vita, movimento e attività al corpo; questo stesso Dio eterno soffia e muove le ispirazioni della vita sovrannaturale nelle nostre anime affinché, come dice il grande Apostolo, diventino uno spirito vivificante, cioè uno spirito che ci faccia vivere, muovere, sentire e compiere opere di grazia; in modo che colui che  ha dato l’essere, dia a noi anche l’operare.

San Francesco di Sales, Trattato dell’amore di Dio, II, cap. 10

 

Cosa è un atto di fede? (SEMI n. 233, Febbraio 2021, Divenire tutto)

San Francesco di Sales ci ha permesso di conciliare armoniosamente la libertà di Dio e quella dell’uomo nella formazione di un atto di fede: Dio ci propone di condividere la sua vita, ne ha messo segretamente il desiderio nei nostri cuori, ma l’uomo non è tuttavia obbligato ad accettare questa proposta, anche se rifiutarla, lo renderà infelice. Ci resta da comprendere meglio da dove viene questo desiderio segreto e di vedere come Dio ce ne farà prendere consapevolezza senza per questo costringerci a soddisfarlo.

 

 

L’origine della fede

È un grande mistero questo desiderio di Dio che possiamo constatare in una forma o nell’altra in ogni uomo che viene al mondo. Parlate di Dio in un salotto, nella metro o ad un amico: tutti i vostri interlocutori reagiranno dichiarandosi credenti o atei, ma nessuno resterà indifferente. Senza dubbio, questo desiderio non si esprimerà utilizzando la parola “Dio”, almeno nei nostri paesi secolarizzati dove è accuratamente evitata; il che è, dopo tutto, un modo di proteggerla. Infatti, Dio stesso proibiva a Mosè di pronunciare il suo nome e ancora oggi le bibbie ebraiche lasciano uno spazio bianco là dove questo nome dovrebbe apparire. Ma “Dio è amore”, ci dice san Giovanni e dietro questo nome che non fa paura a nessuno, si espande, senza restrizione alcuna, l’universalità del desiderio di Dio: aprite un giornale, guardate la televisione o ascoltate la radio, non si parla che di amore; tutte le canzoni sono canzoni d’amore e tutti i teleromanzi sono storie d’amore e, il più delle volte, di amore deluso. In altre parole, ogni uomo si percepisce in questo combattimento tra la grazia e il peccato che definisce la condizione umana e, in fondo, interessa solamente questo: Non c’è nessuno che non ami, sottolinea sant’Agostino, ma la questione è di sapere ciò che si ama. Non ci chiedono di non amare, ma di scegliere quello che ameremo (Sermone 34). In altri termini, di scegliere il Dio che sarà il nostro.

In questo slancio c’è quello che ci porta aldilà di noi stessi, qualcosa di inspiegabile, di primitivo, un inizio assoluto che distingue l’uomo dal più intelligente degli animali. Il bambino che nasce, sorride a quelli che gli stanno attorno, con una fiducia spontanea verso la bontà dei suoi simili e, al di là, verso la bontà del mondo che scopre. In breve, viene al mondo nella fede. Proprio all’interno di questa certezza poco a poco tesserà delle relazioni e si costruirà come persona, là dove l’animale non farà che coesistere con altri individui. Ancora sant’Agostino, ci dirà che questa fede è il primo effetto dell’amore di Dio per noi: amandoci, Dio fa nascere nei nostri cuori questo amore simmetrico al suo che ci porta, contemporaneamente, verso di lui e verso tutte le altre persone.  Non è che Dio mette amore in noi, come si mette del carburante nel serbatoio, cosicché si possa poi amare il proprio prossimo ma, essendo amore e solo amore, Dio per il fatto stesso che si dà a noi fa sì che anche noi amiamo dello stesso amore con cui Egli ama:

 

Ascoltiamo l’Apostolo Giovanni: amiamoci perché Dio stesso ci ha amati per primo. Cerca come l’uomo può amare Dio e non troverai assolutamente che questo. È Dio che per primo l’ha amato. Colui che noi abbiamo amato si è donato lui stesso, si è donato perché noi potessimo avere di che amare.

Sant’Agostino, Sermone 34

 

Ciò che i fisici chiamano la legge di azione-reazione si potrebbe applicare all’amore di Dio: un’azione genera una reazione di forza uguale e di senso contrario. In altre parole, amiamo Dio in virtù del suo amore che ha messo in noi. E sant’Agostino cita qui Rm 5, 5: L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

 

 

Lo sviluppo della fede

Come Dio ci farà prendere consapevolezza di questo desiderio di lui, molto spesso nascosto in fondo a noi stessi? Quando e come abbiamo riconosciuto il vero Dio? Senza dubbio siamo incapaci di rispondere: quando ce ne siamo accorti, era già troppo tardi! Ma proprio nel momento di questa presa di consapevolezza abbiamo dovuto cominciare a rispondere personalmente all’invito divino: la fede era lì, ma non l’avevamo ancora scelta. Bisogna però passare dalla fede implicita del bambino, alla fede esplicita e responsabile di colui che “sceglierà ciò che amerà”, che sceglierà, cioè, colui nel quale porrà la sua fiducia.

Dio prende dei molteplici cammini per farsi non conoscere, ma riconoscere. Il più abituale è quello della nostra famiglia: facendoci nascere in un ambiente già cristiano, Dio ci fa guadagnare molto tempo rispetto al pagano che deve partire da molto più lontano prima di porsi la domanda della fede in Gesù Cristo. Ma anche in un ambiente cristiano, bisognerà che sperimentiamo noi stessi l’attrazione del Vangelo, per questo san Francesco di Sales ci dice:

 

I mezzi tramite cui Dio, nella sua bontà, ispira, sono infiniti. Il mezzo ordinario è la predicazione; ma qualche volta quelli ai quali la parola non giova, vengono istruiti tramite la tribolazione e quelli che tramite l’ascolto delle minacce celesti sui malvagi non si correggono, apprenderanno la verità dai risultati e dagli effetti e diventeranno saggi provando l’afflizione.

Trattato sull’Amore di Dio, 8, 10

 

Qualunque sia il cammino che Dio avrà preso per farsi riconoscere, ci troveremo allora davanti alla scelta di cui ci ha parlato sant’Agostino: scegliere quello che noi ameremo, cioè scegliere tra un vero e un falso Dio. Ѐ lì che sperimenteremo l’atto di fede descritto da Francesco di Sales, l’atto più obbligatorio e nello stesso tempo più libero che l’uomo debba compiere. Il più obbligatorio: Dio ci ha creati, in primo luogo perché ci ha amati e sarà sempre troppo tardi considerare di vivere senza che ci abbia dichiarato il suo amore; nello stesso tempo è il più libero perché non saremo mai forzati ad entrare in questa logica d’amore, non saremo mai forzati ad essere felici.

 

 

«Questo è il mio corpo» (SEMI n. 234, Marzo 2021, Orazione di semplice quiete)

 

Se esiste un dato della nostra fede di cui nessuna metafisica potrà mai rendere conto, è proprio quello della presenza eucaristica di Gesù. Quando prende il pane e ci dice «Questo è il mio corpo», una nuova realtà rimpiazza la precedente, questa discontinuità tra prima e dopo la consacrazione impedisce, di fatto, ogni spiegazione di quello che è successo. Perché non è successo niente: non si tratta di una evoluzione, ma di un cambiamento, di una mutazione e sappiamo soltanto che sulla parola di Gesù quello che continua a sembrarci pane è diventato altra cosa e questo perché «la parola di Cristo, che ha potuto fare dal nulla ciò che non era, non ha potuto cambiare le cose che sono in ciò che non erano?» (Sant’Ambrogio, Sui Misteri).

La filosofia è qui immersa in abissi di riflessione. Cosa vuol dire “essere”, dal momento che ciò che è, può cessare di essere senza che ce ne accorgiamo? Quello che è bianco può cessare di essere, senza cessare di essere bianco! Il verbo essere, il più comune della lingua italiana, diventa, all’improvviso, spaventosamente complicato! Dov’è la realtà, dal momento che sfugge all’osservatore, anche se dotato del più potente microscopio filosofico? Come associare il reale del corpo di Cristo («quello che sussiste», dice il filosofo) alle sembianze del pane («gli accidenti» dirà il filosofo)? Tutte queste domande hanno delle risposte; si parlerà per esempio di «transustanziazione» per indicare questo cambiamento di realtà, cosa che è soltanto un modo sapiente di dire che non se ne può dire niente. Fortunatamente per noi lettori, queste questioni sono questioni pagane e sono entrate nella Chiesa come una forzatura, il giorno in cui ci si è messi a dubitare di tutto, verso il XII sec. Fino a quel momento, in effetti, quelli che chiamiamo “Padri della Chiesa” si contentavano di dire e pensare: «Gesù l’ha detto, quindi è vero, non c’è altro che da comprendere bene i suoi gesti e le sue parole!».

Non pensiamo che i Padri della Chiesa erano ingenui e che prima di dichiarare che il corpo di Cristo è presente sull’altare, bisognerebbe anche chiedersi se questo è possibile! Ѐ il pagano che è ingenuo, condannato com’è a racchiudere il reale in quello che può pensarne da sé, in mancanza di una Rivelazione venuta da altrove nella quale riconoscere il reale nella sua origine divina; e se questo pagano è un europeo moderno, ecco il discepolo di Cartesio, cittadino di un mondo puramente mentale.

Ma ritorniamo all’atteggiamento di fede, quello dei Padri e dei loro successori. In effetti, quello che interessa il cristiano non è di analizzare un fenomeno strano, ma di comprendere quello che Gesù ha fatto il Giovedì Santo che non era previsto da Aristotele, anche se questo non era contro Aristotele. Infatti, Gesù non ha preteso di fare un gioco di prestigio, ma «desiderava mangiare la Pasqua con noi» (cfr. Lc 22,15), per «rimanere con noi fino alla fine dei tempi» (Mt 28,20). Ed è come compimento di questo “grande desiderio”, che possiamo capire le parole e i gesti dell’eucarestia.

 

Il «grande desiderio» di Gesù

Qual è dunque questo «grande desiderio» di Gesù? Dall’inizio alla fine del Vangelo, è il desiderio di unione tra lui e noi, e la parola unione diverrà molto presto la più fondamentale della letteratura spirituale cristiana, perché ricopre tutta l’opera di Cristo. In primo luogo è l’unione tra Gesù e suo Padre: «Il Padre ed io siamo uno!» (Gv 10,30); così che è il primo atto di fede dei suoi discepoli: «Credete che io sono nel Padre ed il Padre è in me» (Gv 14,11). Ed è questa stessa unione che vuole vivere con noi: «Rimanete in me come io in voi» (Gv 15,4). Questa unione che vuole con noi, la vuole ancora tra noi, domandando a suo Padre: «che i miei discepoli siano uno: come tu, Padre, sei in me e io in te, che siano uno in noi e tra di loro» (Gv 17,21). Questi passi del Vangelo secondo Giovanni e molti altri, hanno per cornice il Giovedì Santo e danno un loro senso ai gesti e alle parole di Gesù nel corso dell’ultima Cena con i suoi discepoli. È qui che i gesti dell’eucarestia divengono comprensibili. Per coglierne la portata, ci occorre fare una piccola deviazione filosofica, ma questa volta qui, di filosofia cristiana.

 

Unione delle persone e separazione degli individui

Come possono unirsi due persone? Il pagano non si pone la domanda, perché il concetto stesso di persona gli è estraneo, abituato come è, dal peccato originale in poi, ad avere rapporti con i suoi simili, essendo la legge della natura quella dello scontro tra gli individui, la legge del più forte. Questo spiega i comportamenti animali, che si riassumono, in fin dei conti, in rapporti di forza e spiega anche i comportamenti umani quando non fanno che seguire la natura: fai ciò di cui hai voglia, purché tu non impedisca ad alcuno di fare quello di cui ha voglia. Il problema è che questa cosa non funziona, perché l’essere umano non vive per soddisfare le voglie, ma per realizzare dei desideri, e ogni desiderio è quello di unità e di comunione con le altre persone: in realtà, il «grande desiderio» di Gesù è anche il nostro, perché creandoci a sua immagine, Dio l’ha fatto nascere nel nostro cuore. Guardiamo il bambino che si sveglia alla vita: spontaneamente si slancia verso sua madre confessando il suo desiderio innato di fare uno con lei. I rapporti, qui, sono sostituiti dalle relazioni, e lo slancio del bambino supera le frontiere dell’individuo per raggiungere la persona di sua madre. Da uno scontro all’esterno, si è passati ad una unione all’interno. In poche righe, abbiamo tracciato la cornice di una filosofia cristiana, destinata a rendere conto di questa aspirazione a fare uno tra noi nello stesso tempo che con Dio, nostro Padre.

 

Rapporti o relazioni?

Abbiamo appena distinto tra rapporti, che tendono a mantenerci distanti gli uni dagli altri e relazioni, che ci uniscono agli altri. Ritroviamo lo slancio del bambino verso sua madre, in tutto quello che ci porta verso l’unione, inscritta nel nostro cuore come compimento di ogni nostro desiderio. (Segue)

 

 

 

«Questo è il mio corpo» (Segue) (SEMI n. 235, Aprile 2021, Le visite del Diletto)

 

Ricordiamo che questo slancio verso l’altro, che ci porta a fare uno con lui, parte dal più profondo di noi stessi, dal punto in cui diciamo “io”, dove siamo una persona; via via che questo slancio si sviluppa, il “sé”, cioè tutto quello che costituisce la nostra personalità, tutto quello che permette all’ “io” di sentire, di comprendere e di volere, è progressivamente riorientato verso questo altro, per formare con lui un nuovo soggetto, un noi.  Questo “noi” non è un “io” sommato ad un “tu”, ma “io in te e tu in me”: allora l’unione è realizzata, l’amore è compiuto ed il desiderio è soddisfatto; i rapporti hanno lasciato il posto alle relazioni e l’individuo è diventato una persona.

Ricordiamo che nel “noi” così formato, l’altro non è più percepito come altro, ma come me stesso, senza per questo identificarsi a me: è divenuto “me stesso in lui” nell’unità del soggetto. Sottolineiamo ancora che questo noi viene mantenuto fino a che non ci occupiamo, lui ed io, di altro rispetto a lui e io, finché non ci occupiamo insieme di un terzo. Ѐ il caso, per esempio, dei genitori che dicono “noi” rivolgendosi al loro figlio, ma questo noi ridiventa io e tu non appena cessano di prendersene cura. Quel che si vuol dire è che bisogna essere tre per fare uno e che l’amore è insieme unione e apertura: le due prime persone sono unite tramite la terza e la terza esiste come persona solamente nell’unione delle prime due. Questo è quello che noi esprimiamo nel Credo quando diciamo che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio.

Queste sottolineature molto semplici ci mostrano che il mistero della Trinità si estende a tutti quelli che Dio crea a sua somiglianza e questo ci prepara a comprendere quello che accade nell’eucarestia. Prima, però, dobbiamo ancora precisare il posto del corpo nell’unione delle due persone.

 

 

Il posto del corpo nell’unione

Il desiderio d’unità ci mette in relazione gli uni con gli altri a partire dal più intimo di noi stessi, a partire da quel punto immateriale dell’io: perché io vado verso l’altro, io penso a lui, io cerco di comprenderlo, io prendo le mie decisioni in funzione di lui e infine io lo sento, io lo vedo e io lo tocco. Ѐ così che uscendo da se stesso per andare verso l’altro e formare un noi con lui, l’io investe tutti i luoghi della personalità, coinvolgendoli l’uno dopo l’altro in questa unione in formazione, che parte dal centro dell’anima e raggiunge la periferia esterna del corpo nel momento in cui questo io lo vede, lo sente e lo tocca.

Osserviamo adesso che le relazioni non dipendono dalla distanza tra le persone, diversamente dai rapporti tra individui. Due amici abitando a chilometri di distanza l’uno dall’altro sono uniti da un’intenzione comune, collaborando allo stesso progetto ognuno lì dove si trova: sono insieme a prescindere dalla distanza. Viceversa, i viaggiatori stretti l’uno contro l’altro nella metropolitana nelle ore di punta non sono uniti, ma semplicemente in rapporto fisico tramite contatto meccanico dei loro corpi appoggiati l’uno all’altro.

Infine, poiché le relazioni sono immateriali, se il corpo è ciò che si vede per primo in un rapporto, è l’ultimo ad entrare in relazione. Due individui reagiscono l’uno all’altro essendo fisicamente in contatto ed il loro istinto regola il loro comportamento, avendo raggiunto il punto di equilibrio quando le loro forze si annientano. Due persone, invece, si rivelano l’una all’altra, via via che si mettono a disposizione l’una dell’altra rinunciando a quello che è loro proprio: questo è il movimento stesso dell’amore. Nella relazione umanamente più completa, quella matrimoniale, il dono reciproco dei corpi esprimerà nella loro carne questa unione, partita dal più profondo della persona: è così che due sposi si donano fisicamente l’uno all’altro nella pienezza della unione coniugale, ed è così che bisogna comprendere il ruolo del corpo di Cristo nella comunione eucaristica.

 

 

Cosa c’è dunque sull’altare?

Domandate ai bambini che fanno la prima comunione. Alcuni risponderanno: «il corpo di Cristo», perché hanno appreso bene il catechismo. Ma se non andranno oltre, dopo qualche anno, quando avranno compreso che un corpo non è che un corpo, anche se fosse quello stesso di Dio, diserteranno presto la messa, a meno che non attribuiranno un potere miracoloso a questo corpo, cosa che Gesù Cristo non ha previsto. Ma, altri bambini, più svegli spiritualmente, risponderanno «Gesù». Questo, certo, suppone che Egli sia corporalmente presente, ma di una presenza personale che è infinitamente più di una presenza corporale. Avranno implicitamente compreso che essere cristiano non è tanto beneficiare di un miracolo, quanto piuttosto vivere della vita di Gesù, assimilare Gesù, divenire Gesù:

 

«Signore! Che vuoi che faccia?» – «Ascolta e credi come un bambino: sii semplicemente Gesù». È sempre un grande onore che Dio prenda dimora in nature deboli e piccole. E nello stesso tempo lo Spirito attirerà fortemente il bambino a cessare i suoi discorsi per venire a Gesù, entrare in lui e divenire lui. Questo è dimorare nella verità, stabilirsi nella giustizia e, di conseguenza, essere giusto e vero, e realizzare i pensieri e le volontà del Padre celeste. Essere Gesù, vivere Gesù illumina tutto, facilita tutto, mette l’essere in relazione con tutto, con Dio e con le creature.

Charles Gay, 123ª Elevazione

 

La liturgia fa dire al ministro che nell’ostia è presente «il corpo di Cristo». Questo non è falso, certamente, ma talmente insufficiente! Non è per ricevere il corpo di Cristo che io mi comunico, ma per ricevere Cristo, così come io non ricevo il corpo di un amico alla mia tavola, ma la sua persona. Certo sarebbe impossibile riceverlo senza la sua presenza corporale, ma questa non è che l’involucro della sua presenza personale, l‘unica che mi interessi: è la persona che amo, non il suo corpo.

(Segue)

 

 

«Questo è il mio corpo» (Segue) (SEMI n. 236, maggio 2021, Amare l’amore)

 

Quanto scritto precedentemente sottolinea qualche pratica eucaristica deviante, che testimonia una comprensione molto insufficiente di quello che avviene sull’altare.

 

 

Il “diritto” alla comunione eucaristica

 

Una linea di frattura particolarmente netta separa nelle comunità cristiane i favorevoli e i contrari ad ammettere alla comunione eucaristica persone in situazioni coniugali “irregolari”: coloro che convivono senza essere sposati, i divorziati civilmente risposati, etc. Che questo genere di questione sia così messo ai voti può già sorprendere; comunque, contentiamoci qui di porre bene la questione. Che sia o no in situazione cristiana “regolare, non conferisce alcun diritto alla comunione, più di quanto non si abbia quello di essere amico di qualcuno così come non esiste alcun diritto di essere amico di qualcuno e ancor meno di divenire suo sposo o sua sposa. Se il desiderio di Cristo è di vivere con il suo discepolo una unione di tipo sponsale, fino alla condivisione dei corpi, allora si applica all’eucarestia quello che abbiamo detto a proposito dell’unione fisica degli sposi che suppone anzitutto una volontà di mutuo dono totale tra i due partners. Anche prima di parlare, con san Paolo, di una convenienza particolare tra l’unione degli sposi e l’unione di Cristo con la Chiesa, che fonda il matrimonio come sacramento per i cristiani, questa esigenza di dono totale tra Cristo e il suo discepolo esclude dalla mensa eucaristica colui che vive fuori dal Vangelo e le situazioni coniugali irregolari non sono che un caso tra gli altri, peraltro troppo spesso passati sotto silenzio.

Questo ci permette di riorientare il modo con cui chi si vuole comunicare, deve accostarsi alla mensa eucaristica: occorre cioè che vi si presenti come invitato, non come avente diritto, con l’intenzione di vivere incondizionatamente tutto quello che Cristo vuole vivere in noi. In mancanza di questa intenzione, la consumazione del corpo di Cristo sarà privata del suo significato profondo e ridurrà il gesto del comunicarsi a quello di uno sposo o una sposa che intendono unirsi fisicamente solo per il piacere che vi trovano. Senza dubbio bisogna qui invertire la percezione che abbiamo troppo frequentemente dei sacramenti, considerandoli in rapporto a noi e al profitto che ne aspettiamo, piuttosto che in relazione a Cristo e alla sua volontà di vivere in noi il mistero della sua incarnazione:

Dobbiamo andare alla santa comunione, anzitutto perché Gesù Cristo sia in noi tutto quello che deve esservi, e noi stessi cessiamo di essere quello che siamo. […] I doni e le grazie stesse che è piaciuto a Nostro Signore di farci, devono portarci ad accostarci all’eucarestia, affinché non ce ne appropriamo e non ne facciamo l’uso che il nostro amor proprio vorrebbe farne; ma perché Lui ne prenda il dominio assoluto e li usi secondo il suo beneplacito. […]

Noi dobbiamo ancora andarci per obbedienza alla Sua volontà di averci membra, nelle quali possa vivere per suo Padre, e tramite cui continua la sua vita divina sulla terra; […] infatti, la comunione non ci dona solo Gesù Cristo, ma in più ci dona a Gesù Cristo, poiché dice lui stesso che colui che lo riceve, rimane in lui.

Charles de Condren (1588-1641), ed. Pin, Lettera LXXVI

 

Il modo di comunicarsi

Le norme liturgiche relative al modo di comunicarsi sono precise e ricche di significato. Il Messale Romano, regolando i riti della messa per tutta la Chiesa di tradizione latina, richiede che la comunione abbia luogo nel punto di incontro tra due processioni, quella del celebrante e degli altri ministri che arrivano dal coro e quella dei fedeli che arrivano dalla navata. Questo incontro, spesso, messo in risalto dalla mensa eucaristica nell’architettura delle nostre chiese, è quello della Chiesa celeste e della Chiesa terrena, che sposa il doppio movimento dell’incarnazione e sottolinea che comunicarsi è proprio di due persone che si donano l’una all’altra, «perché la comunione non ci dona solo Gesù Cristo, ma ci dona a Gesù Cristo», ci ha detto Charles de Condren. Un altro dato liturgico significativo è che il comunicante e Gesù Cristo si ricevono l’un l’altro, come due sposi: «Quando mangiamo Dio, siamo mangiati da Lui», diceva s. Bernardo (Sermone 71 sul Cantico). Per questo, il comunicante non prende l’ostia, ma la riceve sulla lingua o sulla mano. Ciò esclude altresì il gesto di molti fedeli che prendono l’ostia invece di riceverla o il gesto di servirsi da se stessi, dalla patena o quello di darla al proprio vicino: è Cristo che si dona a me, contemporaneamente nella persona del ministro e nel suo corpo che ricevo. Poiché è Cristo che si dona a me, si comprende anche che il ruolo del ministro è molto più che “distribuire” la comunione: egli rende presente il Cristo stesso in questo atto di donarsi. Di fatto, il sacerdozio facendo di colui che l’ha ricevuto un alter Christus, è insostituibile nel gesto della comunione, salvo a cadere nell’errore di sostituire l’incontro di due persone con la consumazione di qualcosa. Che il prete sia insostituibile non vuol dire che non possa farsi aiutare, ma tutta la disciplina della Chiesa in materia dimostra – per esempio di fronte a un grandissimo numero di comunicanti – che è molto attenta a non privare il gesto del donare il corpo di Cristo della sua origine sacerdotale.

Queste puntualizzazioni ci permettono di evitare le false domande che si pongono quando si “materializza” la presenza di Cristo nell’eucarestia. Così, per esempio, colui che fa l’adorazione del Santissimo Sacramento si preoccupa solo raramente che l’ostia sia visibile o invisibile, a un metro, dieci o cento; ed è così che la scomparsa materiale delle specie eucaristiche, una volta consumate, non ha molta importanza: sono state lì per permettere la piena comunione tra Cristo e il suo discepolo.

(Segue – Conclusione nel numero del prossimo mese)

 

 

«Questo è il mio corpo»   (Segue)  (SEMI n. 237, giugno 2021, La lettura spirituale)

 

La comunione spirituale

Abbiamo compreso che il gesto liturgico di ricevere corporalmente Cristo durante la messa, manifesta la vita comune di due persone che hanno peraltro l’intenzione di donarsi totalmente l’uno all’altro, essendo il dono del loro corpo il pieno compimento di questa intenzione. Abbiamo compreso anche che questo gesto liturgico sarebbe privato del suo senso, se non corrispondesse a una vita effettivamente comune in tutti gli ambiti tra i due partners. Questa vita comune si chiama comunione spirituale:

 

La manducazione spirituale della carne spirituale di Cristo non consiste in nient’altro che nel mettere il nostro cuore in suo potere, tramite atti e applicazione della volontà.

Guillaume di Saint-Thierry, Sul Sacramento dell’Altare, cap. 9

 

Questa “applicazione della volontà” alla volontà di Cristo corrisponde al nostro impegno battesimale di seguirlo incondizionatamente e in questo consiste tutta la vita cristiana. Ciò fa dell’eucarestia il compimento del battesimo e della volontà di appartenere pienamente a Cristo.

Questa comunione è spirituale perché è quella delle persone che, formando un solo soggetto, l’io dell’uno e il tu dell’altro si uniscono in un unico noi; mentre un corpo, fintantoché è nelle condizioni materiali quaggiù, è capace solo di un avvicinamento, non propriamente di una unione, perché due corpi non possono occupare nello stesso momento lo stesso spazio. Nella comunione liturgica una persona già glorificata, Cristo, è ricevuta da una persona in corso di glorificazione, il fedele: questo vuol dire che la comunione spirituale ci permette il pieno accoglimento di Cristo sulla terra, nell’attesa della risurrezione della nostra carne al momento della sua Parusia, la quale metterà fine alla celebrazione dei sacramenti. In questa attesa, la comunione liturgica anticipa questo compimento, come la Chiesa ci fa proclamare al momento della consacrazione: «attendiamo la tua venuta nella gloria». Il latino è più esplicito: «proclamiamo la tua risurrezione donec venias», cioè esattamente «mentre tu stai venendo».

Poiché la comunione spirituale è il luogo in cui si opera la nostra accoglienza di Cristo, ci si potrebbe domandare se vale ancora la pena di praticare la comunione liturgica. In realtà, anche se questa non aggiunge nient’altro in termini di unione a Cristo, è però necessaria: la comunione spirituale è autentica solamente nella volontà dei suoi partners di condividere tutto. Quando la condivisione dei corpi non è possibile, non è meno implicitamente desiderata nell’intenzione di unione, allora in questo caso la comunione spirituale diviene comunione di desiderio, nella Tradizione cristiana

 

Quando non puoi avere la possibilità di comunicarti realmente nella santa messa, comunicati almeno con il cuore e lo spirito, unendoti con ardente desiderio alla carne vivificante del Salvatore.

San Francesco di Sales, Introduzione alla vita devota, II, 21

 

Ciò permette di pensare alla situazione di molti fedeli privati della celebrazione della messa, ma che non sono per questo privati della grazia dell’eucarestia: è il caso, per esempio, del malato che non può recarsi in chiesa, ma che lo farebbe se potesse o del fedele lontano da ogni celebrazione o di colui che desidererebbe andare a messa durante la settimana, ma che prima di tutto deve adempiere il suo dovere di stato, etc.:

 

Alcuni non fanno che la comunione spirituale, senza ricevere il sacramento [liturgicamente]; sono i cuori buoni e puri che sospirano dietro il Santo Sacramento, nel momento in cui non si può dar loro. Questi qui ricevono la grazia del sacramento, forse più di quelli che lo ricevono sacramentalmente [liturgicamente], sempre in proporzione al loro desiderio e alle loro disposizioni. Un brav’uomo può così comunicarsi cento volte al giorno, non importa dove sia, se malato o se sta bene. Se sacramentalmente [= liturgicamente] non si può ricevere la comunione più di una volta al giorno, tuttavia si può, con santi desideri e con devozione, fare la comunione spirituale e ricavarne grazie e frutti immensi.

Giovanni Taulero, Sermone XXXIII

 

Perché questo gesto della manducazione?

Abbiamo appena visto che l’eucarestia ricopre tutta la vita del cristiano in quanto essa mira all’unione completa a Cristo. Questo ci permette di comprendere la scelta che Cristo ha fatto di questo gesto della manducazione per significarla:

 

Noi mangiamo il nostro Dio. Di quale ammirabile e ineffabile amore ha avuto bisogno, per inventare questa meraviglia! Questo amore supera tutti i sensi e dovrebbe colpire il cuore di tutti gli uomini, talmente è al di sopra di tutto, l’amore di Gesù per noi. Ora, non c’è cosa materiale che sia così prossima e intima all’uomo come il bere ed il mangiare ricevuto dalla bocca dell’uomo, ed è proprio per questo, per unirsi a noi nel modo più prossimo e più intimo, che ha trovato questo meraviglioso procedimento.

Giovanni Taulero, Sermone XXX

 

“Il bere e il mangiare” sono nello stesso tempo quello che c’è di più elementare e di più necessario alla vita, come i gesti che vi sono legati sono i più universali in tutte le culture. Mangiare e bere evocano così molto più che un avvicinamento, anche quello intimo fra sposi: nutrirsi è assorbire ciò che si mangia e si beve per esserne trasformati, è assimilare ed essere assimilati. Scegliendo i gesti che dicono questa assimilazione nel momento in cui si apre la sua Passione, mettendola in parallelo con la lavanda dei piedi, Gesù esprime questo amore “fino al culmine” che è il suo per noi e, nello stesso tempo, ci rende capaci di viverlo a nostra volta verso di lui e tra noi: «Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi»

(Segue)

 

 

«Questo è il mio corpo» (Fine)  (SEMI n. 238, Luglio-agosto 2021, La morte dell’amor proprio)

 

Nutrirsi è assorbire quello che si mangia e si beve per trasformarlo ed esserne trasformati, questo è assimilare ed essere assimilati. Scegliendo i gesti che dicono questa assimilazione nel momento in cui inizia la sua Passione, mettendoli in parallelo con la lavanda dei piedi, Gesù esprime questo amore “fino al culmine”, che è il suo per noi, e nello stesso tempo ci rende capaci di viverlo a nostra volta verso di lui e tra noi: «Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi!».

Ma come si può mangiare solo per golosità, cioè per il solo piacere del mangiare così, non volendo questa trasformazione, la comunione liturgica non sarà nient’altro che un contatto esteriore tra Cristo e il fedele, da cui non si potrà attendere altro effetto che una pia emozione, in realtà molto superficiale. In altri termini: mancando la comunione spirituale, la comunione liturgica non porterà alcun frutto, come si può temere che accada per tante vite cristiane la cui pratica sacramentale non corrisponde, in realtà, a un dono incondizionato di se stessi a Cristo.

È questo il punto centrale alla domanda: cosa c’è sull’altare? Non qualcosa di miracoloso, ma Qualcuno, la cui presenza corporea rende possibile l’incontro tra due persone, quelle di Cristo e del suo discepolo, affinché vivano in una comunione più completa possibile, pur aspettando una unione ancora più intima che sarà quella dell’aldilà.

 

 

Il segreto del curato d’Ars o che vuol dire “evangelizzare”?

 

Con questo nuovo capitolo del nostro catechismo spirituale, vorremmo riflettere sul fenomeno seguente: prendete un sermone del santo curato d’Ars; quando lo pronuncia lui, cento persone si convertono; lo stesso sermone pronunciato da voi, non ne converte dieci. Ecco la domanda: dove si nasconde la molla della conversione? O se si preferisce: dove si nasconde l’efficacia del curato d’Ars? Ѐ a questa domanda che si tenterà di rispondere in questo mese.

Precisiamo che parlando di “conversione”, parliamo della formazione di un atto di fede nella persona di Gesù, che porterà a voler vivere il Vangelo. Infatti, la fede è un atteggiamento pratico, la cui adesione intellettuale all’enunciato del Credo non è che un aspetto limitato. Cosa allora provocherà questo atto di fede?

Poiché il testo dei due sermoni è uguale, il segreto del curato d’Ars non è dunque in quel che dice. Sarà nel modo in cui lo dice? Ma era un cattivo oratore e, in più, non aveva microfono! Bisogna che cerchiamo altrove. Facciamo una deviazione al giardinetto pubblico vicino, dove due innamorati si dicono una frase di una straordinaria banalità: «Ti amo!». Attenendoci al contenuto del messaggio, non c’è niente di così semplice, di così universalmente detto e ripetuto in tutte le lingue del mondo. Perfettamente insignificanti per il passante che ascolterebbe il dialogo, quelle parole divengono assolutamente uniche, insostituibili per quei due innamorati e saranno determinanti per tutta la loro vita futura. L’importante non è dunque comprendere quello che è detto, ma comprendere chi parla, entrare in comunione con lui. Riassumendo, prendere la parola sia per il sermone domenicale sia per una conversazione tra innamorati, è porre un atto di comunione, ancora prima di essere scambio di notizie, anche se pur necessario scambiarsi delle notizie quando si prende la parola. Questo il momento di ricordarci dei nostri primi capitoli: la felicità è l’unione, l’unione a Dio e la comunione con i nostri fratelli (cfr. Semi n. 221), e ciò che dona la felicità, è quello che noi abbiamo individuato essere il valore aggiunto (cfr. Semi 225-226). Tra il curato d’Ars e un predicatore normale, tutta la differenza è in questo valore aggiunto.

Questo è il momento anche di ricordarci che questo valore aggiunto arriva da altrove, viene dall’alto, è dato gratuitamente a colui che lo riceve, ma questi può liberarlo o trattenerlo in proporzione alla propria volontà di accettare di esserne trasformato. Ѐ stato evidenziato a proposito del pittore geniale: egli non è estraneo al quadro, lo partorisce dolorosamente attraverso tutte le rinunce a ciò che non è conforme a ciò che lui vede. Il suo lavoro è quello di entrare sempre più nella verità che percepisce, e in ciò questo valore aggiunto si rivela nella sua carne, vi si incarna, e il dipinto non è che il risultato di questa incarnazione. Applichiamo questo al curato d’Ars:

 

Ci si uccide a forza di studiare per fare bei sermoni, tuttavia questo non produce quasi alcun frutto. Perché questo? Il fatto è che la predicazione è una funzione sovrannaturale, come pure la salvezza delle anime, che è il fine che si cerca, ed è necessario che lo strumento sia proporzionato a questo fine. Ora, non è la scienza, né l’eloquenza, né altri talenti umani, ma la santità di vita e l’unione con Dio, che ci rendono strumenti idonei a procurare la salvezza delle anime. La maggior parte dei predicatori ha abbastanza scienza, ma non ha abbastanza devozione né santità.

Louis Lallemant (1588-1635), Dottrina spirituale

 

«La predicazione è una funzione sovrannaturale», perché la grazia non si decreta, cioè è Dio stesso che viene a vivere la nostra umanità, così che vivere questa grazia è il solo modo per rivelarla, senza che incontri alcuna resistenza:

 

Unita alla Sapienza divina, l’anima attinge continuamente a questa sorgente viva, l’altissima e sublime Dottrina dello Spirito. Ella ha in sé, Gesù Cristo, Sole della vera Sapienza e questa unione la rende tutta spirituale, atta a discernere tutte le cose in modo da non predicare affatto quello che vuole e che le sembra bello e giusto secondo il lume naturale, ma solo la dottrina di Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso e risorto.  

Padre Séverin Rubéric (XVII sec.), La Via d’Amore

 

Cosa è “l’unione”? (SEMI n. 239, Settembre 2021, L’anima specchio di Dio)

 

Abbiamo iniziato il nostro catechismo spirituale (Semi n. 221) con la nozione più fondamentale della visione cristiana delle cose, quella dell’unione, intesa come unione a Dio, inglobante la comunione con i fratelli. Con questo concetto inizia il nostro credo: «Credo in un Dio uno»; e questo introduce nella storia del pensiero una categoria assolutamente nuova e originale, l’idea di persona (Semi n. 234), poiché tutta la felicità del cristiano si riassume nell’unione delle persone o se si preferisce nell’amore:

 

La perfezione della vita cristiana è l’unione dell’anima con Dio e tutto quello che riguarda la vita spirituale è ordinato a essa come al suo fine.

José di Jesús-Maria Quiroga (1562-1628), Apologia mistica, cap. 1

 

 

Vorremmo ripartire da questa affermazione centrale della nostra  fede per svilupparla in due direzioni. La prima sarà di fare una descrizione più chiara possibile, dando la parola ai mistici cristiani, distinguendo i mistici dai non mistici non per una santità superiore, ma per una lucidità e una intensità di esperienza particolarmente illuminante. Nei mistici riscontriamo l’unione a Dio sotto diverse espressioni, che in questa esposizione sono equivalenti: unione trasformante in s. Giovanni della Croce, vita sovraessenziale in Ruusbroec e suoi discepoli, stato di perfezione nei latini, matrimonio spirituale in Teresa d’Avila, ecc.

La seconda direzione sarà quella di affermare con i mistici e con tutta la Tradizione che la felicità dell’unione a Dio non è una lontana prospettiva per l’aldilà, ma la sostanza di quello che Cristo ci dona di vivere quaggiù. Con ciò abbiamo dato, a questa unione, la giusta rilevanza nell’esposizione del mistero cristiano e specialmente nell’educazione spirituale, al centro della missione pastorale della Chiesa.

 

 

Come è vissuta l’unione con Dio?

 

Cominciamo con la descrizione che da dell’unione a Dio, un contemporaneo e amico di Tommaso da Kempis, il mistico Gerlac Peters, nel suo Soliloquio infiammato. L’interesse del suo proposito è che egli descrive un’esperienza e non fa teoria su quello che potrebbe essere questa unione. Non si troverà alcuna metafisica in queste righe, ma una testimonianza diretta sulla gioia di essere cristiano, le cui parole possono essere comprese da tutti gli innamorati del mondo:

 

Sotto questa luce, vedo che mi ami straordinariamente, e che se dimoro in te, è anche vero che tu non devi essere inquieto di te, non dovrai essere inquieto di me, quale che sia il tempo, il luogo, o le circostanze. Vedo che doni te stesso interamente a me, per essere interamente mio senza alcuna separazione, a condizione che io sia interamente tuo senza alcuna separazione. Così quando sono interamente tuo, vedo che mi hai amato dall’eternità, tanto quanto amavi te stesso da tutta l’eternità. Questo per te non è altro che godere di te stesso in me; e per me, per tua grazia, godere di te in me, e di me in te. E lì, che ti amo o che mi amo, è la stessa cosa come una lega divenuta una sola e stessa realtà, non potrà mai più essere divisa.

Gerlarc Peters (1378-1411), Soliloquio infiammato, cap. 14

 

 

“Godere di te in me e di me in te”: abbiamo qui il compimento della preghiera di Gesù per i suoi:

 

«Padre, l’amore con cui mi hai amato sia in loro, e loro in noi»; e ancora: «Che tutti siano uno come tu, Padre, sei uno in me, ed io in te; e che anche  essi siano uno in noi!» […] Questo accadrà quando ogni amore, ogni desiderio, ogni applicazione, sforzo, ogni nostro pensiero, tutto quello che viviamo, diciamo, respiriamo, sarà Dio, e questa unità che sussiste adesso tra il Figlio e il Padre sarà stata trasfusa nel nostro senso e nel nostro spirito.

Giovanni Cassiano († verso il 440?), Conferenze I, 5-8 e X, 6-7

 

Se ci fermiamo qui, si potrebbe pensare che questa unione dispensi il suo beneficiario da pesantezze e difficoltà della vita di un comune mortale. In realtà, unita a Dio creatore, l’anima contemplativa è in presa diretta sulla creazione e nello stesso tempo unita al Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; Marta e Maria vivono in armonia, ciascuno nel proprio ambito:

 

[Per queste anime,] ciò che è esteriorità non ha importanza, né il modo in cui gli avvenimenti arrivano, che siano favorevoli o sfavorevoli, portatori di speranza o di disperazione, perché nessuno di essi tocca l’anima nella sua somiglianza e conformità superiore. […] Che Marta sia là, ma giù; che s’ inquieti e si agiti per molte cose se necessario, ma Maria si attacchi al solo necessario: si occupi del Verbo eterno, della giustizia, della saggezza, della verità e della pace, perché in un solo e stesso uomo le due vie si dispiegano e giungono alla perfezione in quello che è loro proprio.

Gerlac Peters (1378-1411), Soliloquio infiammato, cap. 18

 

Molto concretamente:

 

Quando l’anima è arrivata a questo stato, le importa molto poco essere nell’imbarazzo degli affari o nel riposo della solitudine: per lei è tutto uguale, perché tutto quello che la tocca, tutto quello che la circonda, che le colpisce i sensi, non le impedisce affatto il godimento dell’amore attuale. Nella conversazione e tra il rumore del mondo, è in solitudine nella stanza dello Sposo, cioè nel suo profondo intimo dove l’accarezza e lo intrattiene senza che niente possa turbare questo divino scambio. Lì non si percepisce alcun rumore, tutto è nel riposo, e non posso dire se l’anima essendo così posseduta, le sarebbe possibile liberarsi da quello che soffre; perché allora sembra che non abbia alcun potere di agire, né di volere, come se non avesse per niente libero arbitrio. […] Ella è come un cielo nel quale gode di Dio, e le sarebbe impossibile esprimere quello che accade dentro: è un concerto e un’armonia che non può essere gustata né compresa se non da quelli che hanno esperienza e ne godono.

Beata Maria dell’Incarnazione (1599-1672), Lettera III, 1627

 

 

Cos’è «l’unione» (Segue) (SEMI n. 240, Ottobre 2021, L’orazione dei peccatori)

Non andremo oltre nella descrizione di questa unione a Dio, che vediamo all’orizzonte di ogni vita cristiana. Per i metafisici che si preoccupano della purezza di Maria dell’Incarnazione o di Gerlarc Peters, precisiamo con Robert di Langeac che non cerchiamo qui di sapere quelli che sono i partners di questa unione, ma di coglierla in se stessa e per se stessa:

 

L’anima e Dio – non nell’ordine dell’essere, ma nell’ordine della conoscenza e dell’amore – non fanno più che uno. Due nature in uno stesso spirito e in uno stesso amore. Questa è l’intimità profonda; la comunione perfetta, la fusione senza mescolanza e senza confusione. Siamo Lui e Lui è se stesso. Siamo tutto quello che Lui è. Abbiamo tutto quello che Lui ha.

Robert di Langeac (= Agostino Delage, 1877-1947), La vita nascosta in Dio, cap. 3

 

Siamo tutto quello che è e contemporaneamente senza mescolanza e senza confusione: questa unione obbliga a superare la filosofia alla quale siamo abituati, e che comincia con il distinguere gli esseri, creando un baratro intellettualmente insuperabile tra le persone. Non pensiamo questa unione come uno strano stato mentale, legato a qualche intemperanza mistica; al contrario, essa è sperimentata come un amoreretto e semplice, che spesso anche non si fa vedere dall’anima:

 

Poiché questa unione è molto pura, semplice e nuda, non si fa tramite un amore piacevole e soave, accompagnato da luci vivide e da teneri gusti che si effondono in tutto lo spirito e irrigano tutta l’anima e le sue potenze, ma tramite un amore retto e semplice, che spesso non si fa vedere dall’anima, la quale ama molto spesso il suo Dio quando è in questo stato di unione, senza vedere né sentire che lei ama.

L’anima ama allora con un amore fondato sulla fede nuda, fede con la quale crede che solo il suo Dio è buono, infinito, immenso, l’unico amabile, bello, tenero, perfettamente santo ed amorevole, che le è intimamente presente, l’ama teneramente, la custodisce, e che la sua dolce Provvidenza è per lei piena di premure e di cure infinite. Questa unione è più perfetta perché è più semplice, più purificata, più libera da intermediari. In questa unione l’anima si unisce a Dio cuore a cuore, senza l’intromissione di alcuna luce né dolcezza alla quale lei faccia attenzione o corra il pericolo di fermarsi.

 

Così

 

Questa unione non astrae affatto l’anima e non le impedisce per nulla di occuparsi nelle azioni esteriori. Di solito, anche le azioni più svariate non la distraggono affatto, se lei non vuole, da questa bella unione perché, per mantenerla, solo l’attenzione nuda e semplice dello spirito è necessaria. Essa si pratica tanto più perfettamente quanto più l’anima è povera, spoglia, afflitta, oscura e oppressa.

Séverin Rubéric (XVII sec.), Sacri esercizi sull’amore di Gesù, III, 10, 2

 

 

 

Questa unione ci riguarda quaggiù?

 

I maestri hanno appena detto di sì. Ma sono dei maestri e, in fondo, noi fatichiamo a credere loro, perché dopo il peccato originale, noi stentiamo a credere alla bontà di Dio. È qui che dobbiamo dare tutta la sua forza alla seconda affermazione del nostro catechismo spirituale: il cristiano non deve guadagnare la vita eterna, è già risuscitato, deve soltanto approfittarne (cfr. Semi n° 224). Quale che sia il punto della nostra crescita spirituale in cui ci troviamo, leggiamo cosa dice Séverin Rubéric sulla condizione in cui siamo messi da Gesù e che suppone, da parte nostra, solo un abbandono sempre più completo al suo amore:

 

Questo Dio pieno d’amore non si accontenta di destinarci ad un paradiso di delizie dopo questa vita, ma come se volesse anticipare questa dolce eternità, ci vuole fin da quaggiù far pregustare il cielo, e renderci in qualche modo partecipi dello stesso godimento dei beati, mettendoci in uno stato che è privo di agitazione e di inquietudine, come il loro è privo di vicissitudini e cambiamenti.

Jean-François di Reims († 1660), La vera perfezione, ed. francese, Parigi, Byon, 1646, pagg. 394s

 

Decine di autori ci direbbero lo stesso. Da dove nasce la nostra difficoltà ad accettare una cosa così semplice? Forse dal fatto che abbiamo rinunciato, una volta per tutte, ad una vera vita cristiana:

 

Potreste domandare perché tutti gli uomini buoni non arrivano a poter sentire questo. Attenzione! Vi spiegherò la causa e la ragione: non rispondono alla mozione di Dio rinunciando a loro stessi. Ecco perché non stanno alla presenza di Dio con zelo vivo, né si preoccupano di vegliare intimamente su se stessi; per questo restano sempre più esteriori e dispersi che interiori e semplici, realizzando le loro opere buone più in virtù delle loro buone maniere che, di fatto, per una sollecitazione interiore. Considerano più quello che c’è di singolare, di notevole e vario nelle opere buone, che un’intenzione e un amore che porta a Dio. Per questo essi restano esteriori e dispersi nel loro cuore e non percepiscono come Dio vive in loro nella pienezza della grazia.

Beato Giovanni Ruusbroec (1293-1381), Il piccolo libro delle delucidazioni, 5 e 8

 

 

La domanda allora diviene: cosa dipende da noi per conoscere la felicità dell’unione?

 

L’amore verso Dio non è materia di insegnamento. Perché nessuno ci ha insegnato a godere della luce, ad amare la vita, ad amare coloro che ci hanno messo al mondo o che ci hanno educato. Allo stesso modo, o piuttosto a maggior ragione, il desiderio di Dio non si apprende tramite un insegnamento venuto dall’esterno; non appena l’uomo comincia ad esistere, una sorta di seme è posto in lui, seme che possiede in se stesso il principio interno dell’amore.

San Basilio di Cesarea, La grande regola, Art. 2,1

 

Non dobbiamo quindi mettere nulla di nostro, ma semplicemente coltivare questo seme che abbiamo già ricevuto. (Segue)

 

 

Cosa è l’ “unione”? (Segue) (SEMI n. 241, Novembre 2021, Uniti a Dio nell’azione)

Unione e trasformazione

San Giovanni della Croce, per esempio, parlerà molto spesso di unione “trasformante”, e molti autori avranno espressioni equivalenti per indicare che una volta realizzata l’unione tra uomo e Dio, “passano” letteralmente l’uno nell’altro per formare una unità umano-divina il cui esempio è Gesù Cristo stesso nel mistero della sua incarnazione: «Dio si è fatto uomo per farci Dio» disse sobriamente s. Atanasio nel IV sec.

Perché possiamo divenire Dio, abbiamo visto che s. Basilio ci vedeva nascere portando una sorta di germe che è il principio dell’amore: E perché questo germe si sviluppi,

 

È alla scuola dei comandamenti di Dio che ci conviene accoglierlo, coltivarlo con cura, nutrirlo con intelligenza e, per grazia di Dio, condurlo alla sua perfezione.

                                                                                                                                  San Basilio di Cesarea, La grande regola, Risposta 2,1

 

Ci conviene accoglierlo”: la vita cristiana non è acquistare qualcosa, ma coltivare quello che Dio ci dà, creandoci o venendo a condividere la nostra vita facendosi uomo. In pratica,

 

Lo stato di questa unione divina consiste nel fatto che l’anima mantenga la sua volontà in una tale trasformazione nella volontà di Dio, che in lei niente si opponga alla volontà di Dio, ma in tutto e per tutto il suo movimento sia la sola volontà di Dio.

                                                                                                                                San Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, 1, 11

 

Questa volontà di Dio, è di formare Gesù in noi, per questo, basta «che l’anima mantenga la sua volontà, in una tale trasformazione nella volontà di Dio, che in lei niente si opponga alla volontà di Dio». Un lettore contemporaneo concluderà subito che quest’anima non è realmente libera, poiché non deve volere che quello che Dio vuole; e più che di trasformazione, bisognerà parlare qui di assorbimento. Abbiamo già detto che questa concezione moderna di libertà poggia sulla confusione tra fare quello che si vuole e fare qualunque cosa (cfr. Semi n° 231); non ci ritorniamo, ma poiché la vera libertà sarà/è di volere ciò che Dio farà in noi,

 

Tutto l’impegno di queste anime è di spogliarsi continuamente della propria volontà e di non turbare nella più piccola cosa l’azione di Dio, ma obbedire nella calma e nel riposo ai suoi minimi tocchi.

                                                                                                                                                 Pierre di Clorivière, Sull’orazione mentale, 40

 

Concretamente,

 

Bisogna sempre mantenersi in Gesù, partire in tutto da Gesù, non agire mai, né discutere, né pensare, né amare, né desiderare, né scegliere, né volere fuori e senza di lui; di essere infine praticamente riguardo a tutto e a tutti, puramente e pienamente lui.

Charles Gay, 124a Elevazione

 

Essere praticamente Gesù: tutta la vita cristiana consiste in questo. Non appena aderiamo alla volontà di Dio – questa è la fede – Dio fa in noi la sua volontà, e noi facciamo uno con lui. Questa unione è trasformante, non nel senso di una trasformazione ontologica, come se l’essere di Dio venga a sostituire il nostro o ad assorbirlo, ma nel senso di un arricchimento senza limite di quello che noi siamo tramite quello che Dio è:

 

Si, quest’anima piena dell’amore del diletto così dolce, desidera possederlo e desiderando possederlo, lo bacia; abbracciandolo lo stringe, si unisce a Dio e Dio a lei nella sovrana dolcezza d’amore. E allora, la forza dell’amore trasforma l’amante nell’amato, e l’amato nell’amante: l’anima infiammata dall’amore divino, tramite la forza dell’amore si trasforma in Dio, suo diletto, amato così dolcemente da lei, come il ferro incandescente riceve la sua forma dal fuoco, il suo colore, il suo calore, la sua forza ed il suo valore, come se divenisse fuoco.

                                                                                                                                                        Angela da Foligno, Liber Sororis, II, XXI

 

Numerosi sono i mistici che usano questa immagine del ferro incandescente per evocare la perfetta unione degli amanti (il fuoco ed il ferro sono indissociabili), senza per questo sminuire la distinzione tra i due (perché il fuoco non è ferro, né il ferro è fuoco). Così,

 

Come gli amanti, nei loro baci, tramite un mutuo e soave abbraccio, trasfondono l’uno nell’altro il loro spirito, così lo spirito creato si effonde interamente nello Spirito che lo crea proprio per questo e lo Spirito Creatore si infonde in lui, nella misura che vuole, e l’uomo diviene un solo spirito con Dio (cfr. 1Cor 6,17).

                                                                                                 Guillaume di Saint-Thierry, Esposizione sul Cantico dei Cantici, Strofa 8

 

Perché questa trasfusione sia possibile senza forzare la natura umana, questa doveva essere stata creata capace di vita divina. Nella narrazione biblica delle origini, questa capacità corrisponde tradizionalmente alla nostra creazione “ad immagine di Dio”, mentre la nostra creazione “a somiglianza di Dio” corrisponde alla sua piena rivelazione nell’unione, poiché il rapporto tra i due è quello che esiste tra il negativo della pellicola e la stampa positiva su classica carta fotografica. Il destino dell’immagine a divenire somiglianza spiega la facilità dell’uomo elevato alla perfetta somiglianza di Dio, cosa di cui ne hanno dato testimonianza (cfr. Semi n° 239) Gerlac Peters o Marie de l’Incarnation. In questo stato, in effetti,

 

Dio si è talmente insinuato in noi per essere principio di vita, che opera da sé in tutte le nostre potenze e muove se stesso in tutte le nostre facoltà, […] La sua vita vivifica la nostra, non più per via naturale, ma per grazia. Le potenze naturali sono elevate da Dio stesso come agente sovrannaturale e onnipotente in noi; non agisce più secondo il comune corso della natura e nei limiti che ha dato alle cose del mondo secondo la via naturale, ma è in noi come Dio, non adattandosi più e non discendendo più in noi, ma elevandoci in lui nella sua santità e nel suo essere divino.

Jean-Jacques Olier, L’anima cristallina, ed. francese Seuil, 2008, pagg. 158s

 

 

 

Cos’è l’unione  (Fine) (SEMI n. 242, Dicembre 2021, L’ultima ora)

 

Non solo l’uomo trova qui il suo pieno sviluppo, ma diviene pienamente attore della vita divina: in amore, donare e ricevere non fanno che uno poiché  il più bel regalo che possiamo fare a colui che amiamo è di lasciare che ci  ami. Questo regalo, Dio l’ha fatto amandoci per primo, ci dice sant’ Agostino commentando 1Gv 4,19:

 

Cerca da dove viene che l’uomo ama Dio: potrai spiegarlo solo dicendo, che è possibile, perché Dio l’ha amato per primo. Colui che amiamo, ha donato se stesso a noi, donandoci quello con cui l’avremmo amato.

Sant’Agostino, Sermone 34

 

Il nostro amore per Dio non è allora esattamente una risposta al suo amore, ma una reazione a questo amore, nel senso in cui Newton enuncia che colui che esercita un’ azione con una certa forza, riceve, di fatto, una reazione di forza uguale e di senso opposto. È un’unica forza, un unico amore che parte da Dio e che ritorna a Dio, secondo che lo si consideri in Dio o nell’uomo. Questo unico amore è lo Spirito Santo:

 

«L’amore di Dio è stato versato nei nostri cuori tramite lo Spirito Santo che ci è stato donato» (Rm 5,5); ma lo Spirito Santo è Dio, e noi non possiamo amare Dio che tramite lo Spirito Santo, così che noi amiamo Dio tramite Dio.

Ibidem

 

Così l’unione con Dio fa dell’uomo un attore della vita divina: proprio come lo Spirito Santo proviene simultaneamente dal Padre e dal Figlio,

 

Quest’anima paga a Dio tutto quello che gli deve, donandogli lo Spirito Santo tramite un dono volontario, come qualcosa che lei possiede, affinché Egli si ami come merita.

Giovanni della Croce, Fiamma viva, III, 68

 

L’uomo realizza qui la sua vocazione a essere “figlio nel Figlio” così che

 

Quest’anima fa in Dio per Dio, quello che Dio fa in lei tramite se stesso e nello stesso modo in cui lo fa. In effetti, la volontà dei due è una e come Dio gli dà la sua, liberamente e con grazia, anche lei, avendo la sua volontà così libera e generosamente unita a Dio, dà Dio a Dio stesso in Dio. Questo è un dono vero e completo che l’anima fa a Dio.

Infatti, l’anima vede qui veramente che Dio le appartiene, che lo possiede per eredità in quanto figlia adottiva di Dio e per questo ha un diritto di proprietà, accordato per grazia da Dio stesso. Ella vede che in quanto gli appartiene, può donarlo e comunicarlo a chi vorrà. Così che lo dona al suo Diletto, che è Dio stesso che si è donato a lei.

Dio e l’anima sono così stabiliti in un amore reciproco, conforme all’unione e al reciproco dono di un matrimonio: quello che appartiene ai due e che è ciò che Dio è in se stesso; ciascuno lo possiede liberamente e i due lo possiedono insieme, in virtù del loro mutuo dono; e ciascuno dice all’altro quello che il Figlio di Dio dice al Padre in san Giovanni: «tutto quello che è mio, è tuo, e quello che è tuo è mio».

Ibidem III, 69

 

Il primissimo comandamento

 

Potremmo così intitolare questo nuovo capitolo del nostro catechismo spirituale alla scuola dei santi: “Come conoscere la volontà di Dio?”. In effetti, il quadro mentale da cui prendiamo le nostre decisioni del fare o non fare le cose è troppo spesso questo: 1) Ogni uomo può fare quello che ha voglia di fare finché non contravviene ai comandamenti di Dio. Per esempio, quando faccio la spesa al supermercato, acquisto quello che mi piace, partendo dal fatto che non ho rubato il denaro con cui pagherò alla cassa. 2) Al cristiano, è raccomandato di osservare non solo questi comandamenti, ma anche i consigli evangelici o le beatitudini: beati i poveri, i misericordiosi, etc. Per esempio, quando faccio la spesa al supermercato, riservo una piccola parte del mio denaro per farne dono alla Caritas o a qualche altro organismo cattolico per i poveri? Sarò più o meno santo secondo quanto ne avrò messo da parte per questo gesto di carità.

In questo rapido riassunto sulla vita umana e cristiana, su 100 euro di merce impilata nel mio carrello, 90 non riguardano il Buon Dio. O ancora, 90 corrispondono a un funzionamento animale: “questa cosa mi piace, la prendo”. E a parte la spesa al supermercato, il 90% delle mie decisioni professionali, educative, sociali, etc., avrà come principale preoccupazione il soddisfacimento delle mie voglie, e i più cristiani dei cristiani si stupiranno che ce ne possiamo stupire.

È evidente che il posto riconosciuto alla Chiesa secondo questa mentalità sarà assolutamente marginale e l’idea di una civilizzazione cristiana sembrerà fuor di luogo agli occhi dei cristiani stessi. Il dramma è che questo modo di vedere neutralizza spiritualmente la maggior parte dell’esistenza e non tiene conto di quello che possiamo chiamare “tutto il primissimo comandamento”, cioè la missione data da Dio ad Adamo il giorno della sua creazione, che fa delle nostre occupazioni quotidiane un terreno di santità, cioè di vita comune con Dio.

Andiamo all’ inizio del libro della Genesi, Dio dice all’uomo e alla donna: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela. Dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutti gli animali che vivono sulla terra» (Gn 1,28). E allo stesso modo nel secondo racconto della creazione: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo condusse nel giardino perché lo lavorasse e lo custodisse» (Gn 2,15). Se non si prende alla leggera la Parola di Dio, c’è lì una ingiunzione che inquadra tutto quello che l’uomo dovrà decidere e fare su questa terra: “l’uomo è fatto per lavorare come l’uccello per volare” dedurrà Rabelais, curiosamente citato da Pio XI nella sua enciclica sul lavoro Quadragesimo anno. Siamo prima del peccato originale e bisogna capire questo invito a lavorare come anche questo dominio paradisiaco dell’universo creato, prima che la maledizione a causa del peccato commesso, non lo trasformasse in una faticosa necessità.   (Segue)

 

 

Il primissimo comandamento (Segue) (SEMI n. 243, Gennaio 2022, Quando Dio semplifica tutto)

 

Abbiamo visto che il primissimo comandamento, è quello di coltivare la terra. Noi non siamo liberi di farne di tutto e di più per soddisfare semplicemente le nostre voglie passeggere.

 

Conoscere la volontà di Dio

 

Affidandoci la creazione, Dio ne fa il luogo dove vuole condurre una vita comune con noi. E questo già indica che tutto quello che riempie il nostro carrello al supermercato, lungi dall’essergli indifferente, sarà la materia prima di questa unione a lui che desidera e alla quale ci invita, perché l’anima deve comprendere che il desiderio di Dio in tutti i doni che egli ci fa, è di disporla all’unione divina (s. Giovanni della Croce). Tutto quello che c’è nel mio carrello è allora per “dispormi all’unione divina”, e aldilà, tutti i doni di Dio sono per permettermi di condurre una vita comune con lui e non una vita individuale che non riguarderebbe altri che me.

C’è in questa consegna dell’universo nelle nostre mani, un vero comandamento di Dio, salvo a rinunciare a questa vocazione dell’unione divina e a ridurre il nostro destino a quello degli animali. In effetti, vi ho creati per amore e non potete vivere senza amore, diceva Dio Padre a santa Caterina da Siena. Dunque è nella scala minuscola dei mille dettagli della vita quotidiana che sono invitato a vivere la volontà di Dio e tutta la questione sta nell’imparare a discernerla istante dopo istante:

 

La volontà di Dio non ci arriva tutta insieme e in un unico blocco, ma piuttosto a pezzi e generalmente in frazioni molto piccole. Il nostro compito è quello di riunire questi diversi frammenti e di farne una vita e una vocazione regolare. Come una lanterna nella notte, la grazia ci dà la luce per rischiarare i nostri passi, in un ambito sufficiente a prevenire gli incidenti; ma allora dobbiamo guardare dove mettiamo i piedi…Le ore sono come degli schiavi che si susseguono per portare legna alla fornace. Ogni ora viene con un suo piccolo fagotto di volontà divina sul dorso. Se così com’è, apprezziamo la nostra grazia presente, vuol dire che cominciamo a comprendere i disegni di Dio… Il momento che finisce ha più portata sulla nostra eternità del nostro intero passato e l’avvenire non ne ha affatto e diviene in qualche modo importante, a questo riguardo, solo passando pezzo per pezzo attraverso la manifattura del presente.

William Faber (1814-1863), Conferenze spirituali, pag. 388ss

 

In questa “manifattura del presente”, come discernere la volontà di Dio negli oggetti che mi si offrono sui ripiani del supermercato? Continuiamo la nostra lettura del primissimo comandamento nel libro di Genesi: Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. (Gn 2,19ss). Nel compimento di questa missione di dare il nome alle cose, abbiamo l’inizio della risposta dell’uomo a questo primissimo comandamento. Nominare, è prendere possesso, è già agire: L’essere senza nome è poca cosa che se non ha nome, non è neppur concepibile e non esiste affatto realmente (Charles Gay). Ora, il nome proprio di qualche creatura è quello per il quale Dio l’ha portata all’esistenza: Dio dice: che la luce sia, e la luce fu!, etc… Invitando l’uomo a nominare quello che ha creato, Dio lo invita ad unirsi a lui in questo atto di creazione: prima di essere una “cosa” da utilizzare, la creatura è una parola che Dio pronuncia nella sua volontà di condurre vita comune con noi.

Se volessimo fare un passo in più in merito a questo invito, sempre nel libro della Genesi, si sottolineerebbe l’episodio della torre di Babele come quello della perdita del vero nome delle cose a seguito del peccato originale e dell’inizio di un fraintendimento fondamentale tra gli uomini. È lo stesso controsenso che ci fa sprecare e accumulare nel nostro carrello merce che si accatasterà l’indomani nelle pattumiere. Così che più si consuma, meno si costruisce. Si rileverebbe soprattutto che creandoci a sua immagine, Dio ci ha reso capaci di trovare il vero nome, il vero senso delle cose, capacità che si chiama ragione, la parola latina ratio indica la qualità e quantità giuste, così che vivere razionalmente è il giusto modo di utilizzare la creazione secondo l’intenzione per la quale Dio l’ha creata.

 

Come vivere “razionalmente”?

 

Bisognerebbe riprendere qui il nostro capitolo sul “valore aggiunto” (cfr. Semi maggio 2020), cioè su questa scoperta del senso delle cose che permette di progredire nell’intelligenza della realtà, e da lì il dominio della creazione, man mano che si cresce anche nell’amore. Niente è così curioso da osservare quanto l’imparare a leggere un testo o la vita, perché si assiste allora ad una sorta di miracolo: il bambino che legge lentamente una dopo l’altra le lettere del testo che gli si propone, non dubita un istante che quel testo abbia un senso, che non è nelle lettere, ma che le lettere gli riveleranno. È in funzione di questo senso ancora nascosto che il bambino formerà le sillabe, poi le parole, poi le frasi sempre più comprensibili, fino a quella che gli rivelerà infine il senso definitivo che gli varrà una buona nota. Questa bussola che lo guida inconsciamente ha qualcosa a che vedere con quello che i filosofi chiamano legge naturale, di cui tutti siamo portatori e senza la quale non sarebbe possibile alcuna comunicazione tra gli uomini. La torre di Babele è crollata precisamente perché i suoi operai non riconoscevano, o meglio riconoscevano solo in parte quella legge naturale. La riconoscevano abbastanza per costruire dei pezzi di muro, ma non abbastanza per salire fino in cielo, ci dice il testo sacro: tale è la situazione dell’uomo smarrito a causa del peccato, finché il cielo discendendo sulla terra, non gli fa ritrovare il vero senso della sua vita. In tal modo possiamo constatare come il primo comandamento ci introduce ai dieci comandamenti, poi ai consigli evangelici, che saranno il coronamento del nostro apprendistato della volontà di Dio nella nostra vita. (Segue)

 

 

 

Il primissimo comandamento (Segue) (SEMI n. 244, Febbraio 2022, La semplicità della fede)

 

Scoprire la volontà di Dio 

 

Il primissimo comandamento, quello di dominare la creazione, ci permette di dare senso a tutto quello che vivremo nei giorni della nostra esistenza terrena. Il senso ultimo, la bussola che orienterà ogni nostra azione, l’oggetto di tutti i desideri che Dio ha messo nel nostro cuore, è Dio stesso, è di fare uno con lui, ci dice san Giovanni della Croce: l’anima deve comprendere che il desiderio di Dio in tutti i doni che le fa, è quello di disporla all’unione divina. Quando si è individuato questo senso ultimo, cioè quando si è ricevuto il Vangelo, la questione sta allora nello scoprire in ogni situazione questa volontà di Dio.

Questa scoperta si svolgerà come ogni storia d’amore. Il primo atto è quello di provare uno slancio irresistibile che porta l’innamorato a fare uno con colui o colei che ama; si è innamorato; non lo ha fatto apposta, e la sua vita mentale ne esce ricostituita da cima a fondo. Questo è il momento delle promesse eterne e quando si è innamorati di Dio, questo è il momento del battesimo e di questa magnifica dichiarazione d’amore: «Seguirò Gesù Cristo incondizionatamente, e rinuncio per questo a tutto quello che mi distoglie da Lui». L’orientamento fondamentale della nostra vita è ormai acquisito.

In realtà, che si tratti di amare una persona umana o di amare Gesù, colui che dichiara così di dare tutto, non dona ancora proprio niente; egli vuole soprattutto che colui o colei che ama, non vada via! Si accorge di ciò nel momento in cui non basterà più dire «ti amo» per trattenere l’altro, ma quando comincerà a fare sacrifici perché resti. Il tempo dell’innamoramento è il tempo dei regali e dei teneri scambi. Per il neofita cristiano è spesso il momento di un intenso fervore e di risoluzioni eroiche: egli si vede pronto al martirio. Questa generosità è più immaginaria che effettiva, perché fare piacere all’altro per trattenerlo è ancora far piacere a se stessi; le cose serie cominceranno quando ci sarà bisogno non di dare, ma di rinunciare. Rinunciare a quella serata con la persona amata perché ha i genitori anziani da curare, sopportare il suo cattivo umore perché io l’ho contrariata, accettare che il fumo della mia sigaretta le dia fastidio e che i miei amici non siano di suo gradimento; in breve, accettare che l’altro sia differente da me e non un altro me stesso. È così che la nostra unione diventerà “trasformante”, perché trasformerà me nell’altro, nella misura in cui io rinuncerò a trasformare l’altro in me. Così, poco a poco, tutto quello che mi apparteneva subirà questa trasformazione, questo trasferimento nell’ altro, fino a che non mi resta più niente di mio e posso dire: «Tutto quello che è mio è tuo». È sul filo di queste rinunce, che si manifestano le esigenze necessarie perché il nostro amore sussista. E quando si è innamorati di Dio, è lì che si rivelano i suoi comandamenti.

 

Una scoperta progressiva

 

Questa scoperta è quella di un ordine delle cose che non mi appartiene e che s’ impone a me: quando ho rinunciato a una serata con la mia fidanzata perché doveva prendersi cura dei suoi genitori, ho rispettato il quarto comandamento: «Onorerai tuo padre e tua madre». Anche se quest’ ordine delle cose, in realtà quest’ ordine morale, è percepito solo vagamente dagli uni e dagli altri, è sorprendente constatare che è riconosciuto con una certa costanza attraverso i secoli e le zone del mondo. Gli obblighi ed i divieti enunciati tramite i dieci comandamenti di Dio, di fatto, incontrano un consenso quasi universale: anche laddove si applica la pena di morte e dove si ammette l’aborto, si dirà che è meglio non uccidere piuttosto che uccidere; anche laddove la giustizia sociale è calpestata, si dirà che è meglio non rubare piuttosto che rubare, che è meglio dire la verità piuttosto che mentire, etc. Questo quadro generale delinea un primo modo di vivere secondo la volontà di Dio, un primo modo di amare, quello che nel linguaggio cristiano corrisponde al fatto di essere salvato, perché si è allora in una logica di vita eterna:

 

Occorre poco per essere salvati: credere a tutti i misteri della nostra religione e osservare i comandamenti di Dio. La prudenza degli uomini di mondo se ne contenta, e non vuol fare niente di più di ciò che è necessario per avere la vita eterna e fuggire quello che può causare loro la dannazione.

                                                                                                                                     François de Sales, Sermone del 17 febbraio 1622

 

Non siamo troppi severi con gli uomini di mondo: «Principio della saggezza è il timore del Signore» (Sal 111)! Bisogna però qui distinguere tra essere salvati ed essere cristiani. Al giovane ricco del Vangelo è assicurata la vita eterna, poiché compie i comandamenti (Mt 19,16-24), eppure gli manca l’essenziale: «Se vuoi essere perfetto, gli dice Gesù, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi!». Non si tratta più di quello che Dio ordina, ma di ciò che Gesù preferisce. Non siamo più nei comandamenti, ma in quello che la tradizione cristiana chiama consigli evangelici: aldilà del “non rubare”, c’è “beati i poveri in spirito”; aldilà di “non uccidere”, c’è “beati i miti”, etc. Si apre davanti all’innamorato di Dio un campo illimitato di decisioni da prendere non più in funzione di una regola, ma in funzione di una persona:

 

Ce sono molti, scrive san Bernardo, che dicono: «Io osservo i comandamenti di Dio». Eh sì bene, sarai salvato, ecco la tua ricompensa! «Io non sono affatto un ladro!». Tu non sarai impiccato, ecco la tua ricompensa! […] «Faccio quello che so che bisogna fare per essere salvato». Eh sì, bene, avrai la vita eterna, ecco la tua ricompensa; ma sarai considerato soprattutto un servo inutile. La fede vigilante non agisce così; essa serve Dio non come un servo mercenario, ma fedele, perché impegna tutta la sua forza, prudenza, giustizia, e temperanza a fare tutto quello che sa e conosce essere gradito al nostro Signore e Maestro.            

                                                                      Ibidem

                                                                                                                                                                                                                      (Segue)

 

Il primissimo comandamento (Segue)  (SEMI n. 245, Marzo 2022, Un’orazione riposante)

 

Crescere nella fede

 

Riprendiamo la nostra ricerca della volontà di Dio nella nostra vita. Per quanto grandi siano le decisioni da prendere (Devo sposarmi? Quale professione devo svolgere?), o piccole (Questo pomeriggio, vado al cinema o vado a visitare un amico malato?), o minuscole (Mi prendo un’altra fetta di quell’eccellente torta?) abbiamo visto che si riferiscono, in ogni modo, ad una visione generale dell’esistenza di cui ogni uomo è portatore e che si riassume, grosso modo, nei comandamenti di Dio. Certo, non tutti percepiscono questi comandamenti con la stessa lucidità, ma infine tutti concorderanno nel dire che ci sono cose che si fanno e altre che non si fanno: in breve, che c’è una legge non scritta o scritta nelle coscienze e che ci obbliga tutti. Ogni uomo sarà, “a grandi linee”, d’accordo con questa constatazione e il cristiano vi riconoscerà un primo modo con cui Dio manifesta la direzione che ci condurrà all’unione tra lui e noi, obiettivo almeno implicito di tutti i nostri desideri. “A grandi linee” solamente perché, anche se è evidente che nessuna società – le più rivoluzionarie meno ancora delle altre – ha potuto fare a meno delle forze dell’ordine e dei tribunali, e dunque della convinzione di una Legge che si imponesse a tutti, la maggior parte delle persone non è d’accordo quando si tratta di definire i limiti esatti e l’origine di questa Legge.

Questa percezione “a grandi linee” dei dieci comandamenti, almeno implicita in tutte le coscienze, diventa esplicita in quella del cristiano, perché beneficia di una luce supplementare che è quella della Rivelazione: la Storia Santa, di cui testimonia la Santa Scrittura, la fede degli apostoli, di cui testimonia la Chiesa attraverso i secoli, precisa notevolmente quello che può essere solo un quadro generale fino a che Gesù Cristo ne rivela tramite la sua vita in modo concreto e osservabile la perfezione del comportamento umano. Così che laddove, per esempio, il pagano preferirà in modo generale non uccidere, il cristiano comprenderà che non bisogna assolutamente uccidere, e lo comprenderà dalla rivelazione che Cristo stesso gli ha fatto della dignità divina dell’uomo. Questo superamento della Legge in riferimento all’assoluto della persona avrà luogo per tutti i comandamenti, l’amore di Dio e dei fratelli si sostituisce, poco a poco, all’osservanza della Legge.

Varrebbe qui la pena di mostrare il progresso della Rivelazione nei secoli, poiché il cristiano scopre, in questo amore, sempre nuove esigenze. Si dimostrerebbe, per esempio, che solo nel 2018 la Chiesa ha iscritto nel suo catechismo che in tutti i casi, anche nei più gravi, la pena di morte è incompatibile con il comandamento “non uccidere”. Ma questo progresso della Rivelazione nella Chiesa, presa nel suo insieme, è in realtà il compimento dello stesso processo che ci permette di scoprire in una data situazione, non solo quello che Cristo permette, ma quello che preferisce.

In effetti, né la Legge né gli esempi più edificanti mi mostreranno ciò che Dio permette. All’interno di ciò che Lui permette, nessun regolamento al mondo mi dirà ciò che Lui preferisce, così come nessun regolamento al modo mi dirà qual è il fiore preferito della mia fidanzata: deve essere lei stessa a dirmelo. Tuttavia, per il nostro amore è essenziale che io lo sappia.

Praticamente cosa accade tra il cristiano e Gesù?

  1. La prima condizione per scoprire la volontà di Dio è di desiderarla, molto semplicemente! Detto diversamente, di essere “innamorati” di Gesù Cristo. Senza questa prima seduzione, non parliamo di vita cristiana! Con essa, nel giorno del battesimo, abbiamo dichiarato, che avremmo fatto incondizionatamente quello che avrebbe voluto Lui e non quello che ci sarebbe piaciuto. Se il nostro battesimo non è vissuto bene, se non ci consegniamo incondizionatamente alla volontà di Cristo, non stupiamoci di non comprendere quello che ci dirà nell’enciclica Humanae vitae, o sulla giustizia sociale tramite i testi del Concilio Vaticano II.
  2. Quando si ama qualcuno, si cerca di conoscerlo. Ѐ così che un matrimonio d’amore diviene un matrimonio di ragione, altrimenti non resisterà alle inevitabili delusioni sentimentali. I neo convertiti sanno che le decisioni pesanti si prendono spessissimo qualche mese dopo il loro battesimo e saranno prese non nel nome del desiderio di essere cristiano, ma delle ragioni di essere cristiano. Ѐ la molla di tutta la vera educazione cristiana: senza l’esempio dei santi e l’insegnamento della Chiesa, il battezzato non percepirà le implicazioni della sua fede. Inversamente, se l’educazione ha avuto luogo, scoprirà con sempre maggior facilità, le soluzioni cristianamente possibili nelle situazioni che gli si presentano.
  3. Resta che la volontà di fare la volontà di Dio e la buona formazione cristiana non basteranno perché io possa dire: Gesù, preferisco sposarmi, o preferisco svolgere tale professione, o riprendere quella eccellente torta! Occorre qualcosa in più, qualcosa di inesplicabile, che i maestri cristiani chiamano la seduzione o anche sant’ Ignazio, la consolazione. Di che si tratta? Gli innamorati sanno bene che il fiore che preferisce la fidanzata non è per forza il più bello, o il più costoso o il più profumato, ma quello che più le piace in modo inspiegabile. E se le offro questo fiore inspiegabile, ci sarà tra la mia fidanzata e me qualcosa che non ha prezzo e che si chiama felicità; quella unione tra persone che abbiamo visto essere la chiave di volta di tutto l’impianto cristiano. Scegliere questo fiore non poggerà né sulla sua bellezza, né sul suo prezzo, ma sulla sola preferenza della mia fidanzata, di cui è essenziale vedere che è inspiegabile. Per questo, scegliere quel fiore sarà un puro atto di fede in lei o un puro atto di amore. Questo inspiegabile che ci permette di vivere uniti: ecco la seduzione o la consolazione.

Poiché è inspiegabile, questa preferenza deve essermi rivelata da colui o colei che io amo. Questo è senza dubbio il punto più importante e il meno ben visto di ogni vita cristiana.           (Segue)

 

 

 

 

Il primissimo comandamento (Segue)  (SEMI n. 246, Aprile 2022, Ancora l’unione)

 

Scoprire le preferenze di Dio

 

Al di là dei soli comandamenti di Dio e dei consigli evangelici, come sapere in una certa situazione la soluzione che Dio preferisce? Chi mi dice se Gesù preferisce che occupi la mia domenica pomeriggio andando a passeggiare, oppure andando a visitare un malato in ospedale, sapendo che entrambe le cose sono compatibili con i comandamenti di Dio e i consigli evangelici? Abbiamo visto il mese scorso che in una storia d’amore, questo genere di scelta suppone che colui o colei che io amo mi indichi lui stesso quello che preferisce, al di là delle buone ragioni o meno, legate alle due soluzioni. E colui o colei che io amo, non mi imporrà la sua preferenza, ma lascerà piuttosto che io la indovini, perché si tratta non tanto di soddisfare un bisogno, ma piuttosto di manifestare la nostra volontà di vivere in comunione con l’altro. Cercando di fare piacere al nostro amico, si tratta allora di entrare nel suo sguardo, di lasciarmi in qualche modo trasformare in lui, e di vedere le cose come lui li vede. Questo è tutto il tema della preghiera o più generalmente della vita spirituale del cristiano, tra Dio e noi. In effetti, solo e soltanto al termine di una lunga frequentazione il suo sguardo diventerà il mio:

 

Nella misura in cui guardiamo più vivamente il nostro riflesso che appare in uno specchio, questo riflesso ci guarda ancor più attentamente; e nella misura in cui Dio getta più amorevolmente i suoi dolci occhi sulla nostra anima che è fatta a sua immagine e somiglianza, la nostra anima guarda reciprocamente la sua divina bontà più attentamente ed ardentemente, corrispondendo, secondo la sua piccolezza, a tutti gli accrescimenti che questa sovrana dolcezza fa del suo divino amore verso di lei.

Francesco di Sales (1567-1622), Trattato dell’Amore di Dio, III, 2

 

Questa progressiva chiarificazione dello sguardo interiore corrisponde a quello che i maestri cristiani chiamano “via illuminativa”, cioè la crescita in lucidità nella percezione del mistero di Dio e della sua volontà, man mano che si avanza nella vita spirituale. Prima, i comandamenti di Dio e i consigli evangelici indicavano il cammino del nuovo cristiano e ve lo riportavano quando se ne allontanava: egli era nella “via purgativa”. Ora, a forza di guardare la divina bontà più attentamente ed ardentemente”, di illuminazione in illuminazione, ha a poco a poco “rivestito i sentimenti di Gesù Cristo (Fil 2,5) e la via illuminativa l’introduce ormai alla “via unitiva”, con una percezione quasi spontanea della volontà di Dio. Ѐ in questa via che le preferenze di Gesù diventano le nostre, non più come doveri penosi che bisogna assolvere trascinandosi faticosamente ma come la felicità della più grande unione possibile in tutte le circostanze.

Ma finché non saremo nella via illuminativa, non conosceremo questa spontaneità dell’amore perfetto e non vedremo che confusamente quello che Dio preferisce, provando nella nostra volontà una resistenza a compierlo. Perché? Perché un Nemico è là, cercando in ogni modo di ostacolare questa unione, suggerendo cattive ragioni per non volere quel che Dio vuole: È proprio vero che Dio vi ha detto: «Non dovete mangiare nessun albero del giardino?» (Gn 3,13) – …non ha detto veramente così, ha detto tutt’altro…. Quando questa discussione interiore ci sembra insormontabile:

 

Se non arriverete a conoscere la volontà di Dio, lasciate che vi dia un consiglio per la vostra condotta. Se avete davanti due azioni o anche due modi di comportarvi; fare o omettere qualche cosa, e non sapete cosa sia meglio, la prima cosa da fare sempre, è di esaminarvi, e allora la cosa più sicura da fare è quella più contraria alla natura. Scegliere quello che maggiormente gratifica le inclinazioni naturali, è scegliere la cosa meno sicura. Infatti, più si vive secondo la natura e i suoi piaceri, meno si vive secondo Dio e la sua volontà. Più si vuole vivere secondo lo Spirito, più si deve imparare a morire alla natura propria.

Taulero, Sermone 33

 

Questo vuol dire che Dio preferisce sempre quello ci piace meno? No, ma che il Nemico si adopera sempre a farci trovare piacevole quello che dispiace a Dio: il frutto dell’albero «sembrava buono da mangiare e gradito agli occhi» (Gn 3,6). Il Nemico incoraggia l’animale che è in noi, perché il movimento della natura è opposto a quello dell’amore: la natura isola e mette in competizione laddove l’amore unisce, e il Nemico vuole ostacolare proprio l’unione a Dio e ai fratelli. Per questo tra due soluzioni ugualmente ragionevoli, san Giovanni della Croce esplicita Taulero invitando l’amico di Dio a scegliere quello che gratifica meno la natura:

 

Che si faccia in modo di orientarsi non verso il più facile, ma verso il più difficile; non verso il più gradevole, ma verso il meno gradevole, non verso quello che soddisfa di più il gusto, ma verso quello che dà meno gusto; non verso il riposo, ma verso quello che dà più fatica, etc.

La Salita del Monte Carmelo, I, 13

 

Queste raccomandazioni sono state spesso mal comprese, per non aver rispettato il contesto: san Giovanni della Croce non cerca lo sgradevole in se stesso, ma l’amore per l’amore, per cui lo sgradevole diventa solo un pretesto per farne a meno, poiché il Nemico gioca sulla confusione mortifera tra piacere e felicità. L’alpinista sa bene che è spiacevole graffiarsi le mani contro la roccia, ma questo non intacca la sua felicità di arrivare alla vetta. Laddove il tentatore ci proporrà sempre la pomata per le mani, san Giovanni della Croce ci inviterà ad andare avanti, senza trascurare la pomata, ma senza farne una condizione per continuare l’ascesa. Nel superamento di lui stesso, egli si scoprirà infine nell’unione con Dio in vetta alla montagna, e in quel momento la volontà di Dio sarà perfettamente chiara. Da quel momento in poi vivrà ciò come una preferenza e non più come un dovere penoso:

 

Se si agisce così, di buon grado, facendo in modo di conformare la propria volontà, in poco tempo vi si troverà grande delizia e consolazione, operando con ordine e discernimento.

Ibidem

 

 

«Sono io, non abbiate paura» (SEMI n. 247, Maggio 2022, L’equilibrio contemplativo)

 

  1. L’infelicità è la paura

 

Immaginiamo per un istante che la malattia non ci faccia più paura, che l’incidente non ci faccia più paura, che il vicino non ci faccia più paura, che il poliziotto non ci faccia più paura; in breve, che la vita non ci faccia più paura: niente sarà cambiato, ma avremo ritrovato il paradiso perduto.

Guardiamo più da vicino. Un amico raccontava la disavventura seguente: in occasione di una visita medica per una malattia che credeva benigna, il medico gli annunciò che le cose erano ben più gravi di quello che pensava e che i suoi giorni erano contati. Tutto d’un colpo, il mondo gli crollò addosso e la sua reazione fu un’angoscia atroce; la peggiore giornata della sua vita! Ma ecco che degli esami più approfonditi rivelarono che il medico si era sbagliato e che il male sarebbe guarito in alcune settimane. L’angoscia del malato lasciò il posto istantaneamente a un sollievo paradisiaco, come se fosse già guarito! Da questo episodio traiamo una prima conclusione: non è la malattia che rende infelice, poiché in realtà, non esisteva; non è la salute che rende felici, poiché in realtà, quel malato non era ancora completamente guarito. Dove si collocava allora la sua infelicità? Nell’idea che si faceva della malattia. L’infelicità non è dunque nelle cose, ma nell’idea che ci facciamo delle cose o, più precisamente, nell’immaginazione.

Guardiamo ancora più da vicino. Tutti abbiamo fatto l’esperienza seguente: alla fine di una passeggiata nel bosco, ecco che al calar del sole non ricordiamo più bene dove abbiamo lasciato l’auto. Una leggera angoscia assale…cerchiamo una strada, poi un’altra, a sinistra, a destra, e a forza di girare non capiamo più dove siamo! L’angoscia cresce, scende la notte, acceleriamo l’andatura, pensiamo a quelli che cominceranno a preoccuparsi a casa, ci rimproveriamo di non aver preso la cartina, tendiamo l’orecchio sperando nell’aiuto di un ultimo passeggiatore attardatosi…i minuti passano, terribili! E all’improvviso! Allo svincolo di un sentiero, ecco che la macchina appare: era là, a meno di cento metri! Istante meraviglioso, paradiso ritrovato! Anche in questo caso, quello che ci rendeva infelici non consisteva in niente. Questa volta, non accuseremo la malattia, né alcun disordine: Non sono le cose che ci turbano, ma noi ci turbiamo per esse, osserva finemente Malaval (cfr. Semi n. 200). Né il malato, né chi passeggia solitario erano in una situazione drammatica; mancava loro di vivere la realtà, mentre abitavano l’immaginario. Malaval ci mostra in un sol colpo il rimedio:

 

I nostri movimenti non ci trascinerebbero mai oltre la ragione, se guardassimo tutte le cose razionalmente, cioè con la luce di Dio.

François Malaval, Pratica facile della contemplazione

 

 

“Oltre la ragione…”: la parola ragione non viene dalla filosofia, ma dalla vita militare. La ratio latina, in effetti, designa la razione del rancio del legionario romano: la giusta quantità, al momento opportuno e al posto opportuno.

“Guardare tutte le cose razionalmente” è vedere le cose così come esse sono: “nella luce di Dio”, cioè come Dio le vede e le crea. Non c’è bisogno di visioni straordinarie per questo: facendoci a «sua immagine e somiglianza», Dio ci ha dotato di questa luce, che ci permette di vivere il reale o, se lo si preferisce, razionalmente, felicemente.

 

 

  1. L’origine della irragionevolezza

 

Questa luce non è sparita, ma si è fortemente velata, a causa di quello che chiamiamo tradizionalmente “peccato originale”; ma per il momento, continuiamo a riflettere sull’angoscia del passeggiatore e lo vedremo vittima, se non autore, di quel velo del peccato. Cosa lo rendeva infelice, in effetti, dato che la realtà della situazione non era in discussione, ma solamente l’idea che egli se ne faceva? Qualcosa in lui gridava il rifiuto di questa realtà e voleva ad ogni costo ciò che non era; egli si poneva allora in concorrenza con Colui che fa levare il giorno e scendere la notte, sperimentando così l’orgoglio del peccato originale.

Può sembrare strano di introdurre qui il peccato, poiché né il malato, né il passeggiatore hanno fatto niente di male. Certo, ma essi vivevano il divorzio tra la loro volontà e quella di Dio, divorzio che trasforma le nostre giornate in una perpetua negoziazione impaurita, con la Provvidenza, che ci fa valutare gli eventi in “favorevoli” o “sfavorevoli”, come se la Provvidenza potesse volerci male, e ci fa chiedere nelle nostre preghiere la guarigione dei malati e la riuscita dei nostri esami, come se la volontà di Dio non fosse, in ogni modo, infinitamente buona.

Lasciamo agli esegeti il compito di esaminare come questo divorzio sia nato, e quale ne fu l’avvenimento scatenante: ci basti qui constatare che siamo portatori di questa separazione da che esistiamo, ed è questa che ci rende infelici. Questo indica già che per reintegrare il paradiso perduto, non si tratta di cambiare le cose, ma di mettere fine a questo divorzio. Intanto, il libro della Genesi ci mostra la paura come conseguenza fondamentale del peccato: appena Adamo ed Eva diedero un morso al frutto proibito, ne fecero l’esperienza non appena Dio si avvicinò: «Ho udito il tuo passo nel giardino, ho avuto paura, perché io sono nudo, e mi sono nascosto» (Gn 3,10). Dal quel momento, le benedizioni divennero maledizioni, il lavoro divenne ingrato, il matrimonio un conflitto, e la maternità una prova. Tutto questo «perché sono nudo…»; ed è ciò che pressappoco prova il malato o il passeggiatore che si scopre senza protezione in un mondo ormai percepito come ostile…eppure il mondo non è cambiato!

Il mondo non è cambiato, ma la diffidenza ha rimpiazzato la fiducia, ed è quello che ha innescato tutto, a monte del peccato propriamente detto:

 

La donna come avrebbe potuto credere alle parole del serpente se già il suo spirito non fosse stato penetrato da questo amore per il proprio potere e da una certa e orgogliosa presunzione, che fu rivelata da questa tentazione?

Sant’Agostino, Commento alla Genesi, XI, 30

 

(Segue)

 

 

 

 

«Sono io, non abbiate paura!» (SEMI n. 248, Giugno 2020, La semplicità delle vette)

 

2) Il prezzo della paura

 

Come avrebbe potuto credere alle parole del serpente, la donna, se già il suo spirito non fosse stato penetrato da questo amore per il proprio potere e da una certa e orgogliosa presunzione, che fu rivelata tramite questa tentazione?

Sant’Agostino, Genesi, Lettera XI, 30

 

Tutta la nostra sventura proviene allora da questa “orgogliosa presunzione”, all’origine del divorzio tra la nostra volontà e quella di Dio. Si confonde spesso l’orgoglio con la vanità di un conquistatore alla ricerca di ammiratori. L’orgoglio è molto più semplice, e tocca i piccoli come i più grandi: consiste interamente nella volontà di indipendenza che è la negazione stessa dell’amore, poiché amare è mettersi in dipendenza da colui che si ama. C’è orgoglio nel bambino disobbediente come nel dittatore che schiaccia il suo popolo. L’orgoglio non richiede di essere forte o cattivo: consiste in questa decisione estremamente leggera, perfettamente libera e cosciente, di mangiare il frutto proibito, la tentazione che seguirà non sarà altro che la giustificazione di questa decisione, una volta avvenuta la separazione. E se ne siamo così poco coscienti, è certamente perché, essendo nati peccatori, come ci dice san Paolo (Rm  5,12), non lo notiamo più come il pesce non nota l’acqua in cui nuota. Certo, ogni divorzio si giustifica dopo con buone ragioni per divorziare, ma perché prima si era già pensato di divorziare, quali che fossero le ragioni; è così che l’orgoglio è entrato nel mondo. Così che:

 

L’io umano è il principio dell’orgoglio, e di conseguenza di ogni peccato. È il nemico di Dio che attacca nel suo dominio universale e assoluto. È il nemico dell’uomo, che mette l’uno contro l’altro per l’opposizione dei loro interessi. È il nemico di ogni uomo, perché lo allontana dal suo vero bene, lo porta al male e gli toglie la pace e il riposo.

 

E si vede quindi in cosa consisterà il ritorno alla fiducia e alla felicità, a questa fede in Dio e nei nostri fratelli che è la prima cosa, e in fondo l’unica che professiamo entrando nella vita cristiana: “Cosa domandate alla Chiesa di Dio?” chiede il prete all’inizio della liturgia battesimale; e il catecumeno risponde con una sola parola: “La fede!”. Questa fede del bambino che non dubita, o non ancora, della bontà di quelli che lo circondano, fede di cui siamo tutti capaci, e la sola cosa di cui il bambino venendo al mondo è già capace; fede che, quando sarà cristiano, si fonderà con l’amore incondizionato di un Padre «che non ha risparmiato il proprio Figlio per salvarci» (Rm 8,32). Ecco perché,

 

Annientate l’io umano, tutti i delitti spariranno dal volto della terra, tutti gli uomini vivranno tra loro come fratelli, condivideranno senza invidia i beni di quaggiù, si aiuteranno vicendevolmente nei loro malanni, e ciascuno di loro vedrà negli altri un altro se stesso. Annientate l’io umano, e tutti i pensieri dell’uomo, tutti i suoi desideri, tutte le sue azioni, saranno rivolti verso Dio senza nessun ritorno su se stessi; Dio sarà amato, adorato, servito per lui stesso per le sue infinite perfezioni, per i suoi benfatti; sarà amato, sia che consoli l’uomo, sia che lo affligga; sia che lo accarezzi, sia che lo provi; sia che lo attiri con dolcezza, sia che sembri rigettarlo e respingerlo. Annientate l’io umano, e l’uomo sempre innocente passerà i suoi giorni in una pace inalterabile, perché, né dentro né fuori, niente potrà turbarlo.

Jean Nicolas Grou (1731-1803), Manuale delle anime interiori

 

 

3) Vincere l’orgoglio

 

Il più infallibile segreto per sradicare questo maledetto orgoglio non è quello di guardarlo, ma quello di guardare Dio e dimenticarsi di se stessi.

Claude François Milley (1668-1720), Lettera XL

 

Lottare contro l’orgoglio, pretendere di avere fiducia quando in realtà non se ne ha, è ancora contare sull’ “io umano”, è secretare l’orgoglio sotto pretesto di eliminarlo. Non si tratta dunque di vincerlo, ma di riconoscere questa uscita dal reale che fa nascere la paura nel malato o nel camminatore di cui si diceva il mese scorso. Il ritorno al reale è questione di fiducia, lo ripetiamo, ma la fiducia non si impone: è una disposizione primaria che Bergson chiama “dato immediato della coscienza”, a monte della quale non potremo mai risalire, perché è su di essa che si appoggia tutta la nostra vita mentale. Lo si osserva bene nel bambino, spontaneamente fiducioso fino a che non riceve dal mondo adulto il pensiero critico che lo chiuderà definitivamente nel mondo delle idee. È per questo che «se non diventate come i bambini, non entrerete nel Regno dei cieli» (Mt 18,3), ci dice il Salvatore del mondo. Il salvatore non domanda nient’altro che la fiducia di coloro che viene a salvare, e il pompiere non può fare niente per l’annegato finché egli continua a dibattersi. Questa esigenza è quella dell’amore, del riconoscimento di una dipendenza reciproca che può appoggiarsi solamente su questa stessa fiducia:

 

L’amore puro non si esercita che in questa privazione di ogni certezza. Il minimo sguardo inquieto è un ritorno su di sé, e una infedeltà contro la grazia dell’abbandono. Lasciamo che Dio faccia di noi quel che gli piacerà: dopo che l’avremo lasciato fare, nessun sostegno.

Fénelon, Lettera 202

 

La difficoltà proviene da migliaia di anni di diffidenza che ereditiamo venendo al mondo, e dall’abitudine inveterata di ricercare sostegni laddove ci occorre lasciarci andare, così che

 

Questo abbandono sarebbe il più grande di tutti i sostegni, se fosse percepito con certezza, ma allora non sarebbe più abbandono, se lo si possedesse; sarebbe soltanto il più ricco e lusinghiero possesso di noi stessi. Bisogna allora che l’abbandono che ci dona tutto, ci nasconda tutto e che sia lui stesso nascosto.

Ibidem

                                                                                                                                                              

                                                                                                                       (Segue)

 

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