«Questo è il mio corpo» (SEMI n. 234, Marzo 2021, Orazione di semplice quiete)
Se esiste un dato della nostra fede di cui nessuna metafisica potrà mai rendere conto, è proprio quello della presenza eucaristica di Gesù. Quando prende il pane e ci dice «Questo è il mio corpo», una nuova realtà rimpiazza la precedente, questa discontinuità tra prima e dopo la consacrazione impedisce, di fatto, ogni spiegazione di quello che è successo. Perché non è successo niente: non si tratta di una evoluzione, ma di un cambiamento, di una mutazione e sappiamo soltanto che sulla parola di Gesù quello che continua a sembrarci pane è diventato altra cosa e questo perché «la parola di Cristo, che ha potuto fare dal nulla ciò che non era, non ha potuto cambiare le cose che sono in ciò che non erano?» (Sant’Ambrogio, Sui Misteri).
La filosofia è qui immersa in abissi di riflessione. Cosa vuol dire “essere”, dal momento che ciò che è, può cessare di essere senza che ce ne accorgiamo? Quello che è bianco può cessare di essere, senza cessare di essere bianco! Il verbo essere, il più comune della lingua italiana, diventa, all’improvviso, spaventosamente complicato! Dov’è la realtà, dal momento che sfugge all’osservatore, anche se dotato del più potente microscopio filosofico? Come associare il reale del corpo di Cristo («quello che sussiste», dice il filosofo) alle sembianze del pane («gli accidenti» dirà il filosofo)? Tutte queste domande hanno delle risposte; si parlerà per esempio di «transustanziazione» per indicare questo cambiamento di realtà, cosa che è soltanto un modo sapiente di dire che non se ne può dire niente. Fortunatamente per noi lettori, queste questioni sono questioni pagane e sono entrate nella Chiesa come una forzatura, il giorno in cui ci si è messi a dubitare di tutto, verso il XII sec. Fino a quel momento, in effetti, quelli che chiamiamo “Padri della Chiesa” si contentavano di dire e pensare: «Gesù l’ha detto, quindi è vero, non c’è altro che da comprendere bene i suoi gesti e le sue parole!».
Non pensiamo che i Padri della Chiesa erano ingenui e che prima di dichiarare che il corpo di Cristo è presente sull’altare, bisognerebbe anche chiedersi se questo è possibile! Ѐ il pagano che è ingenuo, condannato com’è a racchiudere il reale in quello che può pensarne da sé, in mancanza di una Rivelazione venuta da altrove nella quale riconoscere il reale nella sua origine divina; e se questo pagano è un europeo moderno, ecco il discepolo di Cartesio, cittadino di un mondo puramente mentale.
Ma ritorniamo all’atteggiamento di fede, quello dei Padri e dei loro successori. In effetti, quello che interessa il cristiano non è di analizzare un fenomeno strano, ma di comprendere quello che Gesù ha fatto il Giovedì Santo che non era previsto da Aristotele, anche se questo non era contro Aristotele. Infatti, Gesù non ha preteso di fare un gioco di prestigio, ma «desiderava mangiare la Pasqua con noi» (cfr. Lc 22,15), per «rimanere con noi fino alla fine dei tempi» (Mt 28,20). Ed è come compimento di questo “grande desiderio”, che possiamo capire le parole e i gesti dell’eucarestia.
Il «grande desiderio» di Gesù
Qual è dunque questo «grande desiderio» di Gesù? Dall’inizio alla fine del Vangelo, è il desiderio di unione tra lui e noi, e la parola unione diverrà molto presto la più fondamentale della letteratura spirituale cristiana, perché ricopre tutta l’opera di Cristo. In primo luogo è l’unione tra Gesù e suo Padre: «Il Padre ed io siamo uno!» (Gv 10,30); così che è il primo atto di fede dei suoi discepoli: «Credete che io sono nel Padre ed il Padre è in me» (Gv 14,11). Ed è questa stessa unione che vuole vivere con noi: «Rimanete in me come io in voi» (Gv 15,4). Questa unione che vuole con noi, la vuole ancora tra noi, domandando a suo Padre: «che i miei discepoli siano uno: come tu, Padre, sei in me e io in te, che siano uno in noi e tra di loro» (Gv 17,21). Questi passi del Vangelo secondo Giovanni e molti altri, hanno per cornice il Giovedì Santo e danno un loro senso ai gesti e alle parole di Gesù nel corso dell’ultima Cena con i suoi discepoli. È qui che i gesti dell’eucarestia divengono comprensibili. Per coglierne la portata, ci occorre fare una piccola deviazione filosofica, ma questa volta qui, di filosofia cristiana.
Unione delle persone e separazione degli individui
Come possono unirsi due persone? Il pagano non si pone la domanda, perché il concetto stesso di persona gli è estraneo, abituato come è, dal peccato originale in poi, ad avere rapporti con i suoi simili, essendo la legge della natura quella dello scontro tra gli individui, la legge del più forte. Questo spiega i comportamenti animali, che si riassumono, in fin dei conti, in rapporti di forza e spiega anche i comportamenti umani quando non fanno che seguire la natura: fai ciò di cui hai voglia, purché tu non impedisca ad alcuno di fare quello di cui ha voglia. Il problema è che questa cosa non funziona, perché l’essere umano non vive per soddisfare le voglie, ma per realizzare dei desideri, e ogni desiderio è quello di unità e di comunione con le altre persone: in realtà, il «grande desiderio» di Gesù è anche il nostro, perché creandoci a sua immagine, Dio l’ha fatto nascere nel nostro cuore. Guardiamo il bambino che si sveglia alla vita: spontaneamente si slancia verso sua madre confessando il suo desiderio innato di fare uno con lei. I rapporti, qui, sono sostituiti dalle relazioni, e lo slancio del bambino supera le frontiere dell’individuo per raggiungere la persona di sua madre. Da uno scontro all’esterno, si è passati ad una unione all’interno. In poche righe, abbiamo tracciato la cornice di una filosofia cristiana, destinata a rendere conto di questa aspirazione a fare uno tra noi nello stesso tempo che con Dio, nostro Padre.
Rapporti o relazioni?
Abbiamo appena distinto tra rapporti, che tendono a mantenerci distanti gli uni dagli altri e relazioni, che ci uniscono agli altri. Ritroviamo lo slancio del bambino verso sua madre, in tutto quello che ci porta verso l’unione, inscritta nel nostro cuore come compimento di ogni nostro desiderio. (Segue)