Gesù ha vissuto tutto il suo patire come un consegnarsi, un rispondere di sì al Padre, fino all’ultima parola detta in croce: «Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito»: atto supremo, darsi senza misura, amore che non conosce limite, come un abisso che lascia presagire, l’orlo dell’abisso divino. Divenuto scandalo Egli, subisce la conseguenza del peccato, della disobbedienza per la quale esperisce la lontananza e la separazione da Dio Padre, la solitudine nella sua gigantesca mostruosità tanto da sentirsi abbandonato e reietto da Dio.
Gesù, in piena fedeltà porta avanti questo cammino di offerta, che noi chiamiamo passione, percorrendo tutto il cammino, fino ad arrivare alla massima distanza dal Padre: l’Inferno. E’ proprio da lì che il Padre lo chiama; da lì la voce del Padre si fa risentire alla sua umanità.
La fedeltà indefettibile, il dialogo ininterrotto con lo sguardo fisso davanti al Padre da vero figlio, l’umanità provata di Gesù costituiscono la nostra salvezza. Noi siamo stati salvati in forza di questa unione nuova tra il Padre e il Figlio incarnato, morto e risorto.
La salvezza ci configura al cammino di Cristo, al suo patire, nel passaggio da un sentire che vorrebbe Dio distante e separato da noi, o noi distanti e separati da Lui, ad un sentire in cui Dio ci dice «Tu sei mio figlio». Uniformarsi nei patimenti all’intenzione di Gesù significa uniformarsi alla libertà del darsi, alla possibilità di togliere gli ormeggi e abbandonarsi alla corrente d’amore. (S.E.R. MONS. Antonino Raspanti, Predica di Quaresima 2011).