Ritiri spirituali mensili

SIMONE WEIL – L’amore di Dio e l’infelicità

Simone Weil, filosofa ebrea, all’età di ventotto anni, nella cappella di Santa Maria maggiore in Assisi vive un’intensa esperienza mistica di incontro con Cristo che determina la svolta speculativa del suo pensiero verso il miracolo dell’unione dell’anima con Dio.

Segnata dagli eventi della seconda guerra mondiale e fisicamente provata da atroci emicranie, accetta e interpreta l’infelicità come unico cammino possibile per raggiungere Dio, corrispondente allo stesso, drammatico cammino percorso da Dio per avvicinarsi all’uomo: la croce.

L’infelicità, forma estrema di sofferenza, è determinata dal cieco meccanismo dell’ineluttabile succedersi di eventi dolorosi ai quali è esposto l’equilibrio psicofisico della persona suscettibile della perdita della propria autocoscienza e della capacità di relazione orizzontale e verticale. L’isolamento dagli uomini e l’impressione dell’assenza e dell’abbandono di Dio possono annientarla fino al paradosso della propria identificazione con il male punito, secondo un criterio retributivo della giustizia di Dio.

L’unica possibilità di salvezza consiste nel fissare il cuore nell’amore sussistente in se stesso e abbandonarvisi, rinunciando alla tenerezza di un sentimento ricambiato, che la giovane mistica definisce «amare a vuoto». Partecipando esistenzialmente alla passione di Cristo con lo sguardo fisso in Dio, l’anima innocente esperisce il suo agghiacciante silenzio come unica risposta al grido di Gesù fatto suo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” e patisce per una irrazionale necessità la distanza non estranea alla disobbedienza del peccato. In ogni autentica relazione tale distanza, risentita inizialmente come strappo doloroso, costituisce la possibilità di visibilità e di percezione dell’alterità, indispensabili nei processi relazionali per la consapevolezza di sé e dell’altro. La capacità di amare anche a distanza supera lo iato della separazione, rinsaldando il legame per la reciproca volontà di unione.

La relazione intratrinitaria, perfetta unità e identità delle Persone che nell’economia della salvezza culmina nell’infinita distanza tra il Padre e il Figlio crocifisso, è il fondamento della forza unitiva dell’Amore. La perfetta adesione della volontà umana del Figlio alla volontà salvifica del Padre nel momento di estremo dolore è espressione dell’invincibilità dell’amore umano-divino di Gesù che, consegnandosi al Padre, testimonia la certezza dell’unione trinitaria anche nella percezione della separazione e dell’abbandono, ricevendo nell’atto di auto-consegna  di sé la liberazione e il trionfo sulla morte per sé e per quanti, radicati in Lui, partecipano al suo stesso dolore per l’infelicità di sentirsi abbandonati e reietti da Dio.

Libero di cooperare al piano redentivo il cristiano, situandosi in quest’ordine e accettando indifferentemente e docilmente, quasi fosse materia inerte, gioia e dolore, permette a quest’ultimo di squarciare l’anima e aprire un varco all’amore increato verso il suo centro, nel quale si unisce a Dio amandolo col suo stesso amore, senza la mediazione dei sensi esterni e interni esposti allo strappo provocante l’esperienza di morte in vita «punto di svenimento». Lo strappo è l’abbraccio di Dio che lo unisce a sé indissolubilmente; raccolta nel suo centro l’anima è al sicuro da qualsiasi dolore e dalla stessa infelicità. Nell’esperienza mistica di partecipazione alla Pasqua di Cristo avviene la riconciliazione degli opposti: la distanza, lungi dal determinare separazione, suscita desiderio e rafforza la tensione all’unità. Unione e distanza si accordano come note di una pura e divina armonia che risuona nell’intelligenza della fede, la sola capace di comprendere il silenzioso linguaggio dell’amore.

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Novembre, 2024