Agostino di Ippona (354-430) – Le Confessioni

1.1. Sei grande, Signore, e degno di altissima lode: grande è la tua potenza e incommensurabile la tua sapienza. E vuole celebrarti l’uomo, questa particella della tua creazione, l’uomo che si porta dietro la sua morte, che si porta dietro la testimonianza del suo peccato, e della tua resistenza ai superbi: eppure vuole celebrarti l’uomo, questa particella della tua creazione. Tu lo risvegli al piacere di cantare le tue lodi, perché per te ci hai fatti e il nostro cuore è inquieto finché in te non trovi pace.

Di questo, mio Signore, concedimi intelligenza e conoscenza: bisogna invocarti prima di renderti lode? E bisogna invocarti prima di incontrarti? Come si può invocarti senza conoscerti? Si rischia, non sapendolo, di invocare una cosa per un’altra, e cader nell’equivoco. O piuttosto bisogna invocarti, per incontrarti? Ma come invocheranno quello in cui non hanno ancora creduto? E come credere, se nessuno l’annuncia? Loderà Dio chi ne sente la mancanza. Perché chi lo cerca lo troverà e chi lo trova gli renderà lode. Voglio cercarti, mio Signore, invocandoti, e invocarti credendo in te: perché l’annuncio di te ci è dato. Ti invoca, mio signore, la mia fede – quella che tu mi hai dato, che l’umanità del tuo figlio e l’ufficio di chi ti annuncia mi hanno ispirato.

2.2. E come invocherò il mio Dio, il mio Dio e Signore, se in-vocarlo è chiamarlo entro di me? E dov’è in me lo spazio per accogliere il mio Dio? Dio entrare in me, quel Dio che ha fatto il cielo e la terra? Come? C’è in me un luogo capace di comprenderti, mio Dio e Signore? Il cielo e la terra, che tu hai fatto e in cui hai fatto anche me, ti comprendono forse? O forse perché senza di te non sarebbe cosa alcuna, avviene che ogni cosa ti comprenda? Ma se anche io per questo esisto, perché mai ti chiedo di venire in me, io che non sarei io, se tu non fossi in me?

Già: io non sono ancora all’inferno, eppure tu sei anche là. Sì, quando sarò disceso all’inferno, tu sei là. Io dunque non esisterei, mio Dio, non sarei assolutamente nulla, se tu non fossi in me. O piuttosto, non esisterei se io non fossi in te: perché da te, per te, in te ogni cosa esiste. Sì, mio Signore, eppure, eppure… Dove mi volgerò a invocarti se sono già in te, e tu da dove mai verresti in me? In che recessi oltre la terra e il cielo ritirarmi, perché da loro venga in me il mio Dio, che ha detto: io riempio il cielo e la terra?

3.3. Ti comprendono forse il cielo e la terra, perché tu li riempi? O non li riempi piuttosto eccedendoli, perché non ti comprendono? E dove riversi tutto ciò che resta di te quando hai riempito cielo e terra? O forse non hai bisogno di essere in alcun modo contenuto, tu che contieni ogni cosa, perché per te riempire è contenere? Certo non sono i vasi pieni di te a renderti stabile, perché se anche si spezzassero tu non ti verseresti. E quando ti riversi su di noi tu non ti spandi a terra, ma sollevi noi invece; e non vai perduto tu: ma fai che noi siamo raccolti in te. Pure, ciascuna cosa che riempi, la riempi di tutto te stesso. Forse allora, non potendo ciascuna cosa comprenderti intero, tutte comprendono di te solo una parte, e la stessa? Oppure ciascuna comprende di te una parte maggiore o minore a seconda della sua grandezza? Allora vi sarebbero parti di te maggiori e minori? O sei tutto intero in ogni punto, e nulla ti comprende tutto?

4.4. Dio mio, che cosa sei dunque? Che cosa se non un Dio che è signore? Già – chi è signore oltre al Signore? E chi è dio oltre al nostro Dio? Tu – il supremo, il migliore, il più potente – sì, l’onnipotente – il più misericordioso e il più giusto, il più segreto e il più presente, il più bello e il più forte, immobile e inafferrabile, immutabile che tutto muti, mai nuovo e mai vecchio, che ogni cosa rinnovi e porti a vecchiezza i superbi e non s’accorgono; tu che sei sempre in atto e sempre in quiete, senza bisogno accumuli, sostieni e riempi e proteggi, crei e nutri e porti a compimento, tu cercatore che di nulla manca. Ami e non ti scomponi, sei geloso e imperturbabile, ti penti e non provi rimorso, ti infurii e resti in pace, muti le opere ma non l’idea; accogli ciò che trovi senza aver mai perduto, ignori la miseria e godi dei guadagni, ignori l’avarizia e pretendi ad usura. Ti si dà oltremisura per farti debitore: eppure, chi ha una sola cosa che non ti appartenga? Tu paghi i debiti senza dovere nulla, e li condoni senza perder nulla. E noi – mio Dio, mia vita, mia divina dolcezza, che cosa abbiamo detto? Che cosa può mai dire, chi parla di te? Eppure guai a chi di te non parla, perché parla, ed è muto.

5.5. Chi mi farà trovare quiete in te, chi ti farà venire nel mio cuore a ubriacarlo? Che io dimentichi i miei mali e abbracci l’unico mio bene: te. Che cosa sei per me? Abbi pietà di me, lascia che parli. Che cosa sono io per te, perché tu mi ingiunga di amarti e t’accenda d’ira contro di me se non lo faccio, fino a lanciarmi la minaccia di tristezze enormi? Come fosse da poco già quella di non amarti. Un po’ di indulgenza, ti supplico: mio Signore, dimmi che cosa sei per me. Dillo a quest’anima: sono la tua salvezza. Dillo in modo che io l’oda. Ecco, sono davanti a te le orecchie del mio cuore: aprile e dillo all’anima, sono la tua salvezza. E io correrò dietro a questa voce e ti troverò. Non celarmi il tuo volto: io morirò per non morire, e vederlo.

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